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Laura Bird

Unghia

Einaudi, pagg.196, L. 20.000

L' autrice, da poco superati i trenta anni, fa parte di quella schiera di scrittori scozzesi della nuova generazione già riuniti nell'antologia Acidi scozzesi pubblicati sempre da Einaudi, nella collana "Stile libero".

I dieci racconti di questa raccolta, che ricordano il primo McEwan per la "sgradevolezza" delle situazioni (chiaramente in senso positivo) e Laura Vinci per alcune tematiche affrontate, sono una indagine abbastanza profonda e disincantata della Scozia di oggi, di Edimburgo e i suoi sobborghi, del popolo solitario e desolato che abita il territorio suburbano della Scozia.

Ed è la solitudine, che con sé porta l'infelicità, il sentirsi disadattati, lontani da una società del benessere che i personaggi della Hird nemmeno intravedono e a cui, comunque, neanche aspirerebbero, che l'autrice ci racconta. Con uno stile appunto disincantato, le storie dell'autrice si snodano in un presente grigio, per arrivare in un futuro inesistente, almeno per i protagonisti delle sue trame. Pur con qualche alto e qualche basso, qualche punta più che valida ed altre meno, la Hird riesce a raccontare le storie di persone semplici e infelici che non ricercano una improbabile salvezza, un'impossibile soluzione alle loro misere esistenze. A loro basterebbe avere accanto qualcuno. Una persona qualsiasi. Ed è questo, appunto, il loro vero dramma.

Roberto Sturm


L. Sprague de Camp

Il mito di Atlantide e i continenti scomparsi

(Lost Continents - The Atlanits Theme in History, Science and Literature, 1970)

traduzione di Maurizio Nati, pagg. 315, L. 25.000, Fanucci

Come forse saprete, de Camp, oltre ottima narrativa, ha scritto anche molta saggistica; questo, è uno dei molti volumi da lui pubblicati, ed è decisamente molto buono; Lin Carter, introducendo uno dei suoi racconti basati proprio su quel tema, dice: " ... uno straordinario volume, che riassume le prove pro e contro l'esistenza di questa civiltà leggendaria in modo esauriente, autorevole e spettacolare." (1).

Principalmente, si osserva che de Camp, nel redigere questo suo lavoro, parte dal "Timeo-Crizia" di Platone; o, meglio: lo si potrebbe considerare, in definitiva, una sorta di lunghissima recensione ad esso.

Vi si affronta l'argomento, per così dire, a tutto tondo, andando a ricercarne, sempre in un'ottica metodologicamente inappuntabile, ogni aspetto; ogni teoria, anche la più bislacca, viene presa in considerazione, e, anche, forse, con un'esagerazione di accondiscendenza, smontata.

Dopo aver ampliamente e documentatamente affondato tutte le (infinite) teorie ed ipotesi (alcune veramente incredibili!!, su Atlantide, porta, quindi, il lettore, a quello che è per così dire, ciò che, in effetti, si può dire di Atlantide oggigiorno: "Il modo più ragionevole di affrontare la storia di Platone ... è quello di considerarla come un notevole anche se fallito tentativo di comporre un'opera romanzesca di carattere politico e scientifico (una specie di fantascienza antelitteram) basata sui materiale disponibile nella sua epoca ... " (pag.235).

In pratica, sostiene che Platone abbia inventato questa terra immaginaria (per porvi la sua utopia, al solito scopo di critica sociale), a causa dell'estendersi del conosciuto: "I creatori di miti delle tribù popolano questa fascia circostante di terra incognita con personaggi tratti dalle loro leggende: dei, demoni, mostri, il regno dei morti e via dicendo .... Poi, evolvendosi, gli uomini cominciano a muoversi, familiarizzando con quelle terre sconosciute e rendendosi conto che esse non contengono le creature da loro immaginate. Tuttavia, dal momento che mostri, giganti e simili sono ormai entrati a far parte della letteratura sacra della nazione, da qualche parte devono pure esistere. Perciò vengono sospinti più in là, in quella nuova fascia di terra sconosciuta che circonda la precedente .... in origine Atlantide era di casa in Grecia ... Quando l'accrescersi della conoscenza scacciò queste colorite fantasie dalla Grecia ... Platone … fu costretto a inventarsi un continente nell'oceano Atlantico." (pag.228-9).

E che, la terribile distruzione di quel continente, in realtà fosse la trasposizione della distruzione della molto più piccola Atalante, narrata da Tucidide: "Violenti terremoti avevano scosso la Grecia nel 426 e nel 373 a.c., e il primo era già stato descritto, al tempo di Platone, da Tucidide in un linguaggio che ricorda fortemente la vicenda di Atlantide: " ... mentre i terremoti si scatenavano ... un'onda enorme ... spazzo via una parte della città ... Nelle vicinanze anche dell'isola di Atalante".

Forse Platone ampliò la piccola Atalante nella grande Atlantide? Quando leggiamo in Strabone che, in conseguenza di questo sisma, Atalante "era stata fatta a pezzi" e "nello squarcio si era formato un canale navigabile'' c'à da credere che le cose siano andate così. ".

Colpisce particolarmente la scientificità con la quale de Camp affronta le varie teorie atlantidi, che non concede alcuna possibilità di ricorso.

Nell'ultimo capitolo l'autore, dopo aver collocato il "Timeo-Crizia" quale, unicamente, opera letteraria di fantasia, si sofferma sulle varie opere che hanno attinto a quel mito, a partire da Verne fino ad arrivare alla moderna science fiction, forse indugiando un po' troppo nel raccontarne le trame, ma in maniera decisamente avvincente.

Il volume, poi, si chiude con un'antologia dei testi classici in cui si fa menzione di Atlantide.

Insomma; il "Timeo-Crizia" di Platone è un romanzo di fantascienza. Un'utopia: "Quello di Platone non fu il primo romanzo utopico scritto ... (ma) semplicemente la prima opera classica del genere che ci sia pervenuta per intero." (pag.250). Si dice, infatti poi, di altre opere classiche che si possono considerare altri epigoni di quel genere, più o meno negative.

Bello il periodo con cui si chiude: "(Il mito di Atlantide) tocca una corda particolarmente sensibile perché evoca l'idea della malinconica perduta di una cosa meravigliosa, di una felice perfezione un tempo posseduta dall'umanità. E così fa leva su quella speranza che molti di noi nutrono nell'inconscio, la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che in qualche luogo, in qualche tempo, esista veramente una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia nella quale noi, da quelle povere creature che siamo, potremmo essere felici." (pag.278)

(1) - introduzione a "Il toro e il tappeto" (The Rug and the Bull, '74), in "Heroic fantasy", "Enciclopedia della fantascienza" n. 4, ed. Fanucci, '79, pag. 24ù

Marcello Bonati


Nicoletta Vallorani

Le sorelle sciacallo

Deriveapprodi, pagg. 167, £ 18000

Scomodando gli "splendidi quarantenni" di Morettiana memoria (il regista romano, tra l'altro, sta girando un film proprio qui ad Ancona), Nicoletta Vallorani può essere presa come esempio di questa generazione di artisti in genere.

Nei suoi scritti, infatti, si ritrovano spesso virtù e difetti di questa generazione di mezzo che ha traghettato un modo vecchio di fare letteratura verso nuovi orizzonti, verso un rinnovamento radicale di fare narrativa.

I tipi di Deriveapprodi, per la collana Voxnoir, questa volta hanno puntato su un'autrice consolidata. E la Vallorani li ripaga con un noir atipico, una commistione di generi diversi dove spicca la lunga militanza dell'autrice nella fantascienza e nel fantastico.

Le sorelle sciacallo è il racconto di un viaggio nell'Italia attuale - dalla metropoli alla città di provincia - vista con gli occhi particolari di personaggi sui generis. Punti di vista complementari, che si sovrappongono con le loro diverse sensibilità lungo tutto l'arco del viaggio. Che alla fine li radunerà per il finale "pirotecnico".

Lo stile dell'autrice è, come al solito, molto denso. Né essenziale o minimalista, mai troppo arzigogolato o barocco, e ancora legato alla tradizione classica ma senza quei passaggi di troppo che appesantiscono la narrazione. Uno stile che ha bisogno di una lettura attenta, che riesca ad entrare tra le righe e carpire i molti messaggi (o meglio spunti di riflessione) che sono presenti nel testo.

E proprio allo stile che mi riferivo quando parlavo di generazione di mezzo. Ancora legato a schemi classici ma proiettato verso una struttura solida, che non faccia parlare solo le parole scritte ma che, in qualche maniera, interagisca con il lettore, invitandolo a farlo ragionare, a soffermarsi su alcuni punti. Dubito che molti quarantenni di oggi rinuncerebbero mai a una letteratura di questo tipo. Sia a scriverla che a leggerla.

Roberto Sturm






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