Il sogno e il vulcano
di Alberto Henriet
Prendo in mano una piccola statua in pasta di sale appoggiata sul ripiano grigio della mia scrivania: un orsetto pilota. L'orsetto indossa un giubbotto in pelle da aviatore, una sciarpa bianca, occhiali e un casco di cuoio. Sorrido con tenerezza, mentre lo osservo. In qualche modo bizzarro, quell'orsetto è come se fosse il mio alter-ego. Ascolto una vecchia canzone cinese, mentre ripenso a Chateau Wellington. Mi manca, mi manca terribilmente. Da quando sono tornato dalla vacanza kiwi, la mia vita non è più la stessa. Mi sento estraniato, spaesato e indifferente alla mia abituale routine quotidiana. Mi manca la Nuova Zelanda. Mi manca Chateau Wellington. Nell'Isola del Nord, nella desolazione vulcanica del Tongariro National Park, ai piedi del Mount Ngauruhoe si trova una grande casa vittoriana. La casa, che, un poco pomposamente, si chiama Chateau Wellington, si trova in una zona vulcanica desolata e selvaggia: morbide colline, rivestite di erba secca smossa da un vento freddo. Nel cielo, si muovono velocemente lunghe nuvole bianche, librate basse al di sopra della cosiddetta Desert Road, la Strada del Deserto che porta a sud, verso Wellington.
Con l'Intercity, il coach che collega le città neozelandesi tra di loro, mi ero fermato in una stazione di transito sulla soglia del Tongariro. E da lì mi ero incamminato con lo zaino sulle spalle. Il traffico era piuttosto ridotto, e sulla strada transitavano solo rare auto. Si stava bene e avevo la sensazione di trovarmi in una regione selvaggia, aspra e indifferente alla vita degli umani: mi sentivo perfettamente a mio agio.
Ero lontano ventimila chilometri dalla realtà italiana degradata, caotica, schizofrenica, indifferente alla qualità della vita. Ero libero? In un attimo, avevo dimenticato il mio paese, e mi sembrava di appartenere da sempre al mondo kiwi.
Alzai lo sguardo verso l'orizzonte e vidi per la prima volta i vulcani: il Mount Ngauruhoe, il Mount Ruapehu, le cui ultime eruzioni risalivano alla metà degli anni Novanta.
Erano affascinanti con le loro cime innevate, orlate di nuvole nere e cupe.
Avevo prenotato un bed and breakfast, Chateau Wellington, dove intendevo fermarmi per alcuni giorni.
L'atmosfera era strana, e, mano a mano che mi addentravo in quella zona selvaggia, mi sentivo sempre più inquieto, come se stessi compiendo un viaggio attraverso una regione fisica e psichica allo stesso tempo, un territorio primordiale. Una violenta energia stava montando in me, e io mi sentivo elettrico e vitale come non lo ero più stato da molto tempo.
Ero stanco, ma questa stanchezza, anziché spossarmi, mi pervadeva piacevolmente. Fuori la notte era fresca, e, sotto le coltri calde e soffici del letto neozelandese, mi lasciai andare con l'immaginazione. Mi addormentai sognando immediatamente, e fu un misto di allucinazione e sogno. Fissavo la vetrata pseudogotica che dominava la scala sulla quale era salito nella zona notte, al primo piano del chateau. In un mosaico di vetri colorati di squisita fattura artigianale kiwi, era raffigurato un vampiro dalla lunga chioma scarlatta, blu cobalto e aurea, il volto pallido, i canini allungati; indossava un chiodo, jeans e stivati. All'improvviso il suo occhio destro si squarcio dall'interno, spruzzandomi copiosamente addosso uno schizzo di sangue denso e scuro. Dalla cavita oculare che rivelava lo scintillio delle ossa del teschio, emerse un'ape dorata gigantesca. Mi ritrovai a cavallo di quel ronzante insetto, in picchiata tra le lunghe nuvole bianche che orlavano la cima del vulcano Ngauruhoe, mentre l'odore dello zolfo mi riempiva le nari infondendomi un senso di vertigine. La mia cavalcatura aurea punto dritta verso il cratere fumante del vulcano, e vi entrò scendendo verso l'occhio cremisi baluginante della lava incandescente. Mi sentivo vitale come non mi accadeva da molto tempo. Ero felice.
Mi destai dopo quel sogno allucinogeno dalle visioni così realistiche. La luce della luna entrava dalla finestra non schermata, bruciandomi gli occhi con il suo chiarore argenteo intenso e freddo. Una radiazione argentea diffusa; ecco la luce della luna, e prese corpo in una statua di donna neoclassica, aleggiante in aria davanti al mio letto. Era una notte vivida, quella, forse magica. La stavo vivendo con grande intensità.
Un'antica leggenda Maori diceva che il vulcano Ngauruhoe è allucinogeno. Era come se nel cuore primordiale della Terra io avessi trovato me stesso, il mio inconscio.
La notte era ancora lunga, e mi alzai. Ero nudo, mi sentivo bene senza nulla addosso. Mi avvicinai alla finestra. Osservai. Attorno a Chateau Wellington, v'era qualche pino di Norfolk, ma questo era tutto, per il resto la zona vulcanica era costellata solo da una rada vegetazione secca, aspra che mi piaceva molto.
Tornai a letto.
Mi svegliai presto al mattino, mi alzai, e mi affacciai nudo alla finestra. Il cielo era grigio, il sole non era ancora spuntato e la sottile luce del mattino svelava un paesaggio aspro e selvaggio. Nella stanza era appesa una fotografia del vulcano Ruapehu durante l'eruzione del 1995, mentre sul tavolo era appoggiato un vaso di vetro colmo di girasoli finti, ma di raffinata fattura. Mi sentivo realmente bene. Sarei salito nudo sul pendio del vulcano Ngauruhoe, attraverso l'erba disseccata, sotto il cielo azzurro, gravido di nembi lunghi e candidi come neve. Mi sarei rotolato nella sabbia nera vulcanica. Ero stanco delle nevrosi del mondo europeo. Ero stanco dell'ipocrisia e del falso umanitarismo italiano, della retorica politica. Ero stanco di quel mondo degradato, bizantino e troppo gravido di storia e di contraddizioni cementate dal sangue nel tempo. In Nuova Zelanda, l'Italia mi sembrava soltanto un sogno nero, concepito in una notte capricciosa. Era un'altra vita, l'Italia, e me l'ero lasciata alle spalle, senza rimpianti. Mi lavai, mi vestii, e scesi per la colazione.
Mi sentivo di ottimo umore. "Buongiorno!" dissi, chinandomi sorridendo verso il proprietario del bed & breakfast, che rise divertito.
"Buongiorno a lei," replicò. "Ha dormito bene, vedo," aggiunse, porgendomi il menù della colazione.
"Nel migliore dei modi, il viaggio da Milano ad Auckland è stato lunghissimo: una quarantina di ore di cui 25 di volo, scalo a Francoforte e Singapore, ma ne e valsa la pena."
"Sono contento che la Nuova Zelanda le piaccia. Che cosa desidera?"
"Caffè, toast e burro, marmellata di arance, uova e bacon, grazie."
"Glieli porto subito."
Mangiai con gusto tutto quanto.
"Che cosa ha in programma, oggi?"
"Vorrei andare a vedere il vulcano più da vicino," risposi.
"Allora, le preparo un pranzo al sacco, se vuole."
"Si, è la cosa migliore," risposi.
Salii nella mia stanza per lavarmi i denti.
Scrissi poi alcune annotazioni sul mio diario del 1999, illustrato con riproduzioni di opere di Salvador Dalì.
Mi avviai. La traversata dell'ondulante distesa di vegetazione desertica fu lunga e faticosa, ma per me fu un'esperienza importante. Di fronte a me si ergeva la cima orlata di neve del Ngauruhoe. Non sarei salito fin lassù, mi sarei limitato a raggiungere i piedi del vulcano, dove volevo scattare delle fotografie e riprendere il paesaggio con la videocamera.
Quando giunsi ai piedi del vulcano era molto stanco. La luce era strana e cangiante, il sole appariva e scompariva prigioniero del traffico continuo di nubi nel cielo, da nord a sud. Il paesaggio era affascinante, nero e dorato, maculato dai lampi intermittenti di luce solare. Faceva freddo. Avevo fame: mangiai qualcosa.
Mentre ero seduto su un macigno, un cervo mi si avvicinò. Ero perplesso. Non avevo visto allevamenti di cervi in quella regione desertica, non si vedevano neppure le pecore, che erano la costante per eccellenza del paesaggio neozelandese. Niente o quasi sheepspotting nel Tongariro. Il cervo tuttavia era lì, di fronte a me, e mi si avvicinò ancora di più. Allungai una mano verso il muso dell'animale dagli occhi scintillanti, e quello me la leccò con tenerezza, facendomi il solletico con la lingua.
E poi dagli occhi scaturì una intensa luminosità aurea che mi avvolse completamente. Il cervo era il vulcano, l'energia primordiale nascosta nel profondo del Ngaruhoe. E io ero quella energia, ne ero saturo.
Mi ritrovai a volare verso le lunghe nuvole bianche che sfilavano a grande velocità sul vulcano, che roteava in basso sotto di me. Avrei voluto precipitare là dentro, nelle viscere del vulcano e diventare magma fuso e incandescente. Energia pura. Esplodere nel cielo, e cadere sotto forma di nera cenere nel deserto del Tongariro. Diventare parte di quel luogo, a livello materico.
Quando mi riebbi da quella ridda di sensazioni vitali, il sole era ormai quasi tramontato. Il cervo era scomparso, e io ero semicongelato. Avevo dormito per l'intero pomeriggio e sognato?
Mi sentii triste, e mi venne da piangere. Lacrime mute scesero calde e fredde sulle mie guance. Mi alzai in piedi, con le mani chiuse a pugno mi asciugai il pianto, e tornai a sorridere quando un ultimo raggio di sole ramato lacerò una nuvola e illuminò un punto lontano nella distesa desertica e quasi nera della secca vegetazione. Era vivo, e carico di energia. Avevo voltato pagina, lasciandomi l'Italia alle spalle.
In quel momento, tutto poteva accadere, pensai sorridendo. Mi caricai lo zaino sulle spalle, e ripresi il cammino. Verso me stesso, verso la libertà.
© 2000, Alberto Henriet
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