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La luna e Michelangelo: una "doppia" chiave di lettura


di Mario Fabiani


Il racconto di Watson, così come tutti i racconti di Sf che si occupano del cosiddetto "contatto" con entità aliene, pone in atto essenzialmente uno sviluppo basato sulla "comunicazione incompleta".

La presenza dell’"altro" presuppone come di consueto la ridiscussione del "sè", ovvero la ridiscussione della propria visione del mondo e di conseguenza dei rapporti comunicativi con essi stabiliti.

Nella Sf classica, in realtà, il tutto si risolve in una sorta di "mistery", in cui l’"eroe scienziato" di turno impegna la sua intelligenza razionale nel risolvere il "rompicapo alieno". Non viene messo in dubbio il fatto che tale rompicapo possa essere risolvibile senza mettere in discussione i metodi di ricerca. Si suppone in altre parole che il pensiero razionale-scientifico-occidentale sia una sorta di "linguaggio universale" in grado di funzionare al di là di qualsiasi limite comunicativo (questa mistificazione non è solamente un fatto letterario, come dimostra il famoso "messaggio universale" inserito alcuni anni fa in una sonda americana destinata a varcare i limiti del sistema solare). L'alieno è in ogni caso qualcosa che "comunica", anche se con segni diversi, e perciò insinua una sostanziale identità. Il problema risiede solamente nella decodificazione del messaggio. E nel messaggio, mai banale, mai insignificante, risiede infine l'immagine rispecchiata dell'uomo, i suoi "lati oscuri" (o luminosi), il suo desiderio di potenza, di distruzione e auto-distruzione, di sublimazione.

L'alieno diventa così un simbolo, una figura mitica, non più solo l’"altro", ma il "doppio". Ed ecco l'alieno angelo o demonio, entità ferma o supernaturale, salvatore, demiurgo, sterminatore, ecc.

La ricerca della "natura dell'alieno", della sua valenza mitica, è del resto l'elemento scatenante di questa branca della letteratura di Sf. Né probabilmente potrebbe essere in altro modo, dato che non sarebbe facile definire un vero "altro" che non sia in qualche modo, transitivo od oppositivo, una "traslazione" del proprio io. E l’"altro" così definito sarebbe del tutto inutile alla letteratura, in quanto non potrebbe essere descritto, né nominato, e non sarebbe importante ai fini della storia, perché non in grado di comunicare alcunchè.

Anche "La luna e Michelangelo" si pone nella "buona tradizione" fantascientifica, con alcuni distinguo importanti, peraltro, che vedremo di individuare.

Un primo abbozzo di modello oppositivo appare subito in modo eclatante all'inizio della storia (e malgrado la conclusione "a sorpresa", rimane confermato, come vedremo): la situazione descritta ci presenta due gruppi sociali contrapposti: il primo, quello della spedizione umana, in cui la scienza e il razionalismo sono la componente principale. Il "linguaggio" di questa prima comunità esprime al massimo grado questo tipo di cultura (vedi l'interessante "linguaggio condensato" usato dai componenti per scambiarsi informazioni).

Il secondo gruppo è quello costituito dalla comunità aliena, i cui membri hanno caratteristiche e comportamenti tipici dell'"animalesco" (nudità, pelosità, scarsa intelligenza, minima organizzazione sociale, assenza di tecnologia). Il linguaggio di questo secondo gruppo è minimale, poco complesso, difficile da decodificare. Sono l'equivalente di una tribù primitiva terrestre, e proprio per questo prototipo dell’"essere primigenio", più vicino alla natura.

Si delinea quindi chiaramente una delle strutture oppositive più comuni, ovvero:

Cultura vs. Natura

È di conseguenza ipotizzabile un modello base di questo tipo:

umani natura

cultura alieni

(con una freccia in entrambi i sensi da "umani" ad "alieni", ed una in entrambi i sensi da "cultura" a "natura")

Si tratta di un modello la cui ricorrenza è piuttosto frequente in fantascienza, e che rientra appieno nella casistica della "mitologia aliena" di cui si è parlato. Tuttavia, tale strutturazione non appare univocamente definita all'inizio del racconto, ma anzi costituisce il dilemma centrale alla cui soluzione è votato l'intero agire dinamico.

L'elemento chiave è rappresentato dalla città aliena. La sua apparenza di struttura complessa, altamente organizzata, contrasta con l'apparenza della comunità aliena, così come delineata in precedenza. Gli alieni assumono una caratteristica propria di un'organizzazione culturale, caratteristica che spinge gli umani ad investigare allo scopo di stabilire la "vera essenza" nascosta sotto apparenze così contraddittorie. Proprio la presenza di una contraddizione dà origine all'enigma, che gli umani, come espressioni della propria istanza culturale, si accingono a risolvere secondo le regole del pensiero razionale. La spedizione umana, come gruppo attanziale, si pone come soggetto di un tentativo di congiunzione con "la verità", oggetto costituito dalla soluzione del mistero. Si ha quindi:

SOGGETTO: La spedizione umana

OGGETTO: La verità sugli alieni

Il dilemma da risolvere è essenzialmente di tipo semiologico/comunicativo. Si tratta fatti di dedurre un codice culturalmente significativo a partire dai numerosi "segni" criptici prodotti dagli alieni: la città intera, innanzitutto, e poi alcuni comportamenti ambigui dei lemuridi. Infine il segno "centrale", quello del graffito sulla porta del sotterraneo, che nell'ambito della storia assumerà il ruolo di potente simbolo, oltre che di un fenomeno astrale, anche della separazione/unione di due sfere vitali, e dei due spazi contrapposti ma complementari del sotterraneo e della città.

Proprio la perfetta integrazione dei tre ambiti spaziali del testo: città, sotterranei e quello che potremo chiamare "cielo" fa sì che l'organizzazione ecologica aliena regga in una sorta di "equilibrio eterno". Non sfugge qui la connotazione di "paradiso terrestre" che una simile integrazione suggerisce (inferi, terra e cielo, ancora edenicamente indistinti). L'arrivo degli umani come elemento perturbante dal "cielo" alla "città" (ancora una "caduta degli angeli") provoca un inevitabile sconvolgimento di questo equilibrio. I terrestri, portatori di una "cultura" fortemente alienata e alienante, sono incapaci di cogliere il messaggio del mondo di "Roccia", e il risultato di questa "comunicazione mancata" è la collisione violenta tra le due sfere (cultura/natura) che non fa che sancirne ulteriormente la separazione. Il ricorso al pensiero razionale fallisce là dove invece si rivelano fondamentali l'intuizione e le angosce irrazionali dell'unico personaggio che, prima della catastrofe, decodifica correttamente il "segno universale" rappresentato dal graffito, lo scalpellino Peter Catlow. Appare quindi importante esaminare più in profondità l'interagire di questo personaggio nella storia.

La centralità del personaggio di Catlow appare chiara sin dall'inizio: è il protagonista, su di lui si sviluppa un'istanza narrativa che, ricorrendo spesso al discorso indiretto libero, ne fa portavoce dell'autore implicito.

Catlow è soggetto di due linee comunicative che percorrono tutto il testo. La prima linea, che chiameremo "esterna", è quella che prevede il seguente rapporto di congiunzione:

SOGGETTO: Catlow

OGGETTO: La verità sugli alieni

Questa linea coincide, abbastanza ovviamente, con quella del gruppo attanziale a cui Catlow appartiene.

La seconda linea, che chiameremo "interna", si configura invece in questo modo:

SOGGETTO: Catlow

OGGETTO: L'equilibrio psichico

Questa seconda relazione è la più interessante; essa presuppone infatti un secondo asse dinamico, anch'esso basato su una situazione di "comunicazione mancata". Catlow ha dei notevoli problemi comunicativi nei confronti del mondo che lo circonda, le sue pulsioni profonde non riescono a trovare sfogo tramite i normali canali (vedi il suo rapporto frustrante con Mary Everdon). La sua alienazione è tale da porlo in una situazione di totale cancellazione della capacità di decodifica dei segnali provenienti dal mondo esterno:

"Desiderava toccare Mary, tenerla, plasmarla, rovesciarla sul letto. Eppure non poteva. Non sapeva come. Non poteva leggere i suoi segnali, che non erano scolpiti nella pietra, ma inscritti nella carne; non poteva trasmetterle i propri segnali adeguatamente, geroglificamente".

La "specializzazione culturale" di Catlow lo porta a concepire la comunicazione esclusivamente nei termini estremamente mediati dell'arte della scultura. Ciò "inquina" anche il suo linguaggio verbale (si veda la prevalenza di termini quali "plasmare", "scolpire", "pietra", "solido", ecc.) e di conseguenza la sua visione del mondo. Egli diventa incapace di decodificare qualsiasi altro messaggio, così che l'universo gli appare disperatamente diviso tra l'ordine mostruoso della "pietra scolpita" (la città aliena) e il caos indistinto della "pietra informe" (la tana sotterranea).

Catlow si trova in una situazione di frattura tra la propria personalità, fortemente problematica, che sviluppa i propri conflitti esclusivamente all'interno, e il proprio linguaggio, che sente come insufficiente ad esprimerlo, troppo inevitabilmente distaccato dall'"essenza delle cose". Solo la scultura gli appare come linguaggio atto a definire adeguatamente la complessità dei propri sentimenti. La capacità di "rappresentare visivamente" è per lui sinonimo di maggiore immediatezza e precisione di comunicazione.

Ma nello stesso tempo lo scolpire rappresenta per Catlow un modo di esorcizzare le proprie pulsioni interne, un forte freno inibitore che limita la sua tensione interna verso un'esistenza "immediata" (in senso psicanalitico; ecco ancora Natura/Cultura):

"L'avida durezza delle immagini a cui aveva lavorato, la loro frequente commedia satirica e severa e non da ultimo la loro sentenziosità morale sembravano allontanarlo dal poter esprimere nella vita reale le lussurie e le avidità e le malvagità che quelle sculture parodiavano. "

I sovrasensi culturali che dominano l'espressione artistica ne minano l'efficacia comunicativa: Catlow aspira a una forma di scultura "assoluta" (e per ciò stesso non più espressione culturale, ma astorica, primigenia):

"No, voleva andare oltre ciò, plasmare un'immagine che stesse semplicemente per sé stesso e che non rappresentasse nessun catechismo morale o teoria di comportamento".

Mentre ricerca questa "riduzione catartica", egli mantiene una "maschera" esterna di rigido autocontrollo che lo allontana irrimediabilmente dal mondo di relazione, e causa una spaccatura comunicativa interna che narrativamente si esprime in un netto contrasto tra "dialogo" e "pensiero" verbalizzato. Un semplice brano di una conversazione tra il protagonista e Mary Everdon è in questo senso esemplare:

- Che dovrei raccontarti, Peter? Delle volte che mi sono comportata da stupida? Di quando mi sono intestardita? Di quando mi sono confusa? I miei cibi preferiti? Le mie fantasie preferite?

- Si, quelle pensò.

- Non preoccuparti - disse. - Guarda la luna ...

La focalizzazione su Catlow, piuttosto spinta malgrado la terza persona, coinvolge il lettore in questo continuo interloquire schizofrenico. Le figure degli altri personaggi appaiono appena abbozzate, simulacri e oggetti di pulsioni inconsce in uno scenario inquietante, proiettato in una psiche fortemente ripiegata su sè stessa.

Catlow prova l'insopprimibile desiderio di "dar forma al mondo" scolpendone la natura amorfa in "solide complessità" che sostanzialmente "significhino" la sua essenza, che non riesce a comunicare in altro modo.

La sua scelta finale non può essere diversa dunque: scegliendo di trasformare sè stesso in statua, egli riesce finalmente a "rappresentarsi" nei confronti del mondo, e ad "eternare'' il proprio io nella "solidità della pietra".

In quello che assomiglia molto ad un tipico epilogo catartico ballardiano, Catlow esprime l'alienazione di un uomo che non riesce più ad interagire con il proprio ambiente, e che percepisce con sofferenza il distacco dei "segni dalle cose" e la sovrapposizione caotica dei codici. La mediazione del linguaggio (inteso in senso lato, non escludendo l'arte) diventa insopportabile, e la soluzione sta nella liberatoria fusione con la natura. La soluzione finale sancisce inoltre la fondamentale dissociazione del personaggio.

Pietrificando l'espressione del proprio inconscio, egli annulla nel contempo il proprio io cosciente, così come la capacità espressiva del proprio corpo, operando una "riduzione" nel disperato tentativo di ricucire una separazione altrimenti insanabile. E, come per confermare la centralità di questo conflitto, nel momento in cui l'io di Catlow si annulla, anche l'io narrante scompare.

In quest'ottica, "La luna e Michelangelo" vede sminuita la propria impostazione di "mistery fantascientifico" per diventare "dramma psicologico" in cui lo scenario alieno diventa inquietante simulacro-specchio di angosce essenzialmente interiori. Ed è interessante notare che anche la strutturazione spaziale del racconto rispecchia il conflitto comunicativo del protagonista. Volendo fare un raffronto, si può ipotizzare uno schema simile:

----------rapporti spaziali---------------------------rapporti psico comunicativi

-----------ambiti competenze-------------------------------competenze ambiti

------------cielo umani-----------------------------------gli altri esterno

-------città – sotterranei alieni-----------------------Catlow esterno - interno

Come è facile dedurre spingendo ulteriormente il parallelo, Catlow si configura egli stesso come "alieno" nei confronti dei suoi compagni umani, e la sua schizofrenia è efficacemente simboleggiata dalla natura "doppia" dell'agglomerato spaziale città-sotterranei (considerata la chiara valenza psicanalitica degli spazi testuali). L'allontanarsi di Catlow prima dallo spazio umano per recarsi nel sotterraneo e quindi la successiva emersione come parte della città corrispondono all'effettiva dinamica della sua "evoluzione" psicologica.

Alla luce di questo sviluppo dinamico-psichico del personaggio principale, l'intera struttura della storia assume un aspetto che ripete in proporzioni macroscopiche il dramma di Catlow, sotto le apparenze di semplice giallo fantaecologico. Le supposizioni formulate dai vari componenti della spedizione circa la genesi della città aliena appaiono alla fine come goffi tentativi di proiettare le proprie ansie e i propri modelli culturali forzosamente "universalizzati" su una realtà fondamentalmente "altra". Un riferirsi a codici inadeguati non porta all'interpretazione del messaggio del mondo di Roccia, ma anzi provoca lo sconvolgimento dei ritmi naturali. La presupposizione che i lemuridi abbiano dato vita ad una rappresentazione culturale della realtà si rivela come segno di insopportabile limitazione di una "lingua" non sufficiente a spiegare l'universo. E ancora una volta gli alieni assurgono a simbolo non solo di natura, ma di una natura "culturalizzata": immutabile, mitica, sottostante a cicli ancestrali, pronta a cancellare gli illusori tentativi di "razionalizzazione". Una natura carica di segni misteriosi e mandalici (ancora Ballard) che non significano altro se non sè stessi.

L'epilogo della storia porta quindi a compimento le istanze di congiunzione che hanno dato vita alla diegesi. Catlow, e con lui la spedizione umana, giungono alla fine alla soluzione del mistero. E lo scalpellino giunge alla fine a costruire il proprio linguaggio "totalizzante", cristallizzandosi in segno eterno.

La forza del testo sta proprio nella continua interazione tra i due sviluppi, e nel contrasto che si crea tra l'investigazione rigorosamente razionale del gruppo degli umani e il "flusso di coscienza" della psiche di Catlow, contrasto che attualizza in termini narrativi la schizofrenia latente dell’''uomo razionale".

È lecito perciò, in conclusione, individuare nel testo la coesistenza di due chiavi di lettura, quella "scientifico-ecologica" e quella "psicologica", che fa di "La luna e Michelangelo" un esempio compiuto di fantascienza moderna. Naturalmente si tratta di due chiavi che necessitano di una lettura "comparativa" per dare un senso in qualche modo "trasgressivo" al testo. La trasgressione è solo relativa, come spesso accade in fantascienza. Non ci si dovrebbe scordare (come invece accade spesso) che simili esperimenti erano già stati promossi anni fa da scrittori appartenenti alla cosiddetta "New Wave" (Disch, Malzberg, per esempio). E il simbolismo delle strutture spaziali del testo ha avuto come insuperabile maestro il già citato Ballard. La maggiore perizia letteraria di alcuni nuovi autori di Sf ci ha permesso negli ultimi tempi di avere a che fare con opere più raffinate, tuttavia l'"erosione critica" dei modelli classici del genere non è una invenzione degli anni 80. È decisamente più facile, oggi, professare una certa diffidenza nei confronti del pensiero scientifico, e Watson non è certo il primo, né sarà l'ultimo a proporre un discorso del genere.

Il tutto probabilmente è favorito anche da una certa maturazione del lettore medio di Sf. La differenza nei confronti degli "sperimentalismi" degli anni 70 sta forse in un minore estremismo strutturale e linguistico (nonchè culturale, probabilmente e conseguentemente) che rende le produzioni di oggi decisamente più fruibili anche dai cultori della fantascienza più "classica".






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