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di Marco Marinelli

STIGMATE

Stigmate - Usa, 1999

Regia di Rupert Wainwright, con Patricia Arquette, Gabrielle Byrne, Jonathan Pryce

distribuzione: UIP

Con la "verità" si è cambiata la faccia della terra.

Eppure l'uomo non accetterà mai di essere usato dalle sue verità, non si lascerà mai imprigionare da esse e per esse.

Questo, forse, è il senso della rivolta che paralizza la creatività di Frankie Page (Patricia Arquette) e la sottopone alla volontà di uno spettro che esercita su di lei una assoluta potenza.

Ma se è inevitabile leggere nella "possessione" ad una volontà sconosciuta la più radicale negazione di ogni ideale che si ponga al di sopra dell'uomo, come è possibile interpretare la "missione" di Padre Andrew Kiernan (Gabriel Byrne), membro della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, combattuto tra il desiderio di capire e il dovere di ricondurre i tratti della realtà a qualcosa di esterno, alla loro essenza divina, immutabile e astratta?

Forse nei suoi dubbi, nelle sue esitazioni, è possibile leggere il "realismo" di chi intende "realizzare l'ideale" e insieme, l'insofferenza, il fastidio verso qualunque forma di saggezza che esaurisca il mistero, che allontani l'evidenza dalla propria radice sconosciuta.

E qui si trova il punto più controverso, anche discutibile di questa affascinante opera di "fantateologia".

L'amore, la bontà, la giustizia sono ideali che allontanano l'uomo dal proprio egoismo, dalla propria pretesa di essere "tutto in tutto".

Ma - sembra suggerire Rupert Wainwright - non è forse vero che qualunque "ideale" è un padrone che ci costringe a diventare schiavi, materiale escogitato per allontanarci dalla nostra "libera attività"?

Ipotesi discutibile, che rende la figura di Padre Andrew Kiernan indecifrabile, sospesa tra immanentismo e idealismo e intende ogni Principio come inevitabile "alienazione" dell'uomo dalla propria storia, dalla propria essenza.


BATTAGLIA PER LA TERRA

Battlefield Earth-A Saga of the Year 3000 - Usa, 2000

Regia di Roger Christian, con John Travolta, Barry Pepper, Forest Whitaker, Kelly Preston

distribuzione: Warner Bros Italia

Isolati dalla loro verità, tutti gli enti sono un niente, corruttibili, trasformabili, soggetti al movimento, al tempo, al divenire.

Alla sua radice, Battaglia per la terra è questo: se nella logica dell'immaginario cinematografico è solitamente inscritto il tentativo di portare a compimento il linguaggio ambiguo, che si muove al di fuori dell'orizzonte tracciato dall'autolimitazione metodica, questa volta il pretesto della guerra combattuta dal genere umano contro i potenti Psychios, una temibile razza di alieni intenzionata a dominare l'intero universo, serve a presentare un'immagine del mondo intesa come negazione di una intenzionalità diversa da qualsiasi logica provvidenziale, da qualsiasi ordine riconoscibile.

Il potente Terl (John Travolta) come il coraggioso Tyler (Barry Pepper) negano la regione sicura dell'ente, operano portando il segno del riconoscimento che ciascuno di noi non incarna l'idea di sé stesso e si muove evitando di vedere il destino in quello che accade.

Lo sviluppo in cui consiste ogni calcolo diventa nelle loro azioni un essere sospeso tra un "non ancora" e un "mai più", dove l'operare finalizzato ad uno scopo assorbe ogni preoccupazione di senso, ogni tentativo di esprimere un'intenzionalità, un inconscio.

Messa da parte ogni protesta condotta dal punto di vista del "decadentismo spiritualistico", "Battaglia per la terra" si rivela come l'espressione della "creatività del pensiero" che scaturisce da un profondare nelle cose che appaiono, tanto da dimenticare l'apparire, cosi che l'ostilità degli umani contro i crudeli Psychios non sembra essere dettata da un' ideologia, per quanto ambigua, ma dalla convinzione "naturale" che lo scontro delle culture e scontro di volontà sganciate da ogni fondamento, da ogni umanesimo.


THE TERROR - La vergine di cera

The Terror

Regia di Roger Corman, con Boris Karloff. Jack Nicholson, Sandra Knight, Dick Miller, Jackie Haze

distribuzione home video: Pulp Video

L'"ultrarazionale" Roger Corman nasconde un segreto.

Ancora una volta, Come in "I vivi e i morti" e "Il pozzo e il pendolo", siamo in presenza del tentativo di mostrare l'insignificanza della maschera che crede di nasconderci, di demistificare l'inverosimile verità dell'oggetto.

Ma La vergine di cera dice qualcosa di più, svela in qualche modo il volto nascosto dell'"action painting" cormaniano.

Una volta rifiutata la volontà di portare alla luce l'identità di far apparire la maschera, diventa evidente la possibilità di spingersi oltre, di decostruire il movimento estetico che pretende di leggere la superficialità in termini superficiali.

La vergine di cera diventa allora il riscatto dell'originale ideale estetico in una sfera in fondo più carnosa e materiale.

La capacità di descrivere un mondo dove l'urgenza del movimento, del viaggio, della fuga produce le continue uscite ed entrate di scena di personaggi capaci di incarnarsi in una ragione immanente, diventata allora necessità di correggere la traiettoria dell'artificio che sembra sorreggerli.

Il tenente napoleonico Jack Nicholson innamorato di una misteriosa "revenant" (Sandra Knight), il misterioso barone (Boris Karloff), che è e non è l'uomo che pretende di essere, sono fantasmi che trascendono la loro realtà sensibile e si muovono in un'atmosfera enigmatica, sospesa, dove si fa strada la rivelazione sconvolgente che l'identità che pretende di definirci non si appartiene, non è qui per lei, ma per qualcuno - qualcosa d'altro.

Al punto che le dinamiche psichiche dei personaggi finiscono a poco a poco per vacillare e l'immagine idealizzata che proiettano diventa combustione, desiderio incontrollabile di varcare il confine che separa il nostro Io dalla oscura necessità che sembra sorreggerlo.


AL DI LÀ DELLA VITA

Bringing Out the Dead - Usa, 1999

Regia di Martin Scorsese, con Nicholas Cage, John Goodman, Ving Rhames, Tom Sizemore

Distribuzione: TOUCHSTONE HOME VIDEO

In che senso occorre intendere il viaggio nella "Hell's Kitcken" di New York City, il viaggio all'inferno (e ritorno) di Fran-Pierce (Nicholas Cage), l'attività immaginativa di un uomo che ruota attorno ad una funzione - tenere corpi in attività, "salvare" individui sospetti sottratti alle leggi collettive di permanenza, della casualità, "spesi" nel vuoto - che partecipa ad una rappresentazione spazio - temporale chiusa - due giorni e tre notti, cinquantasei ore di seguito - sostenuta dall'immagine di un mondo di illusioni e di luci che non esce da sé, che non può essere spiegato, sia pure con cattive ragioni?

Martin Scorsese affronta la questione delle "mimesis" - che significa essere propriamente "a immagine di", cioè non esistere solo per sé, ma riandare, riattraversare l'Altro da sé - col "passo perduto" di un paramedico che si tortura il corpo e l'anima per salvare più vite umane in un mondo dove l'esecutore è definitivamente sollevato dalla propria stessa soggettività, in un mondo percorso da un Male profondo e misterioso, che ha perduto il senso della collettività e dell’appartenenza, che non conosce più lo spessore del simbolo, ma la povertà del segno.

Frank Pierce costituisce il campo metaforico privilegiato per continuare a pensare all'immagine, per escludere la schematizzazione. Ma l'immagine intesa come rifiuto della singolarità, come immagine che abbia la proprietà di far vivere doppi, ombre, silhouettes, immagini speculari, come quelle che si riferiscono al rischio della perdita del senso dell' esistenza, al nostro essere legati al caso, che accentrano su di sé il dolore dell'universo allucinato di "Hell's Kitchen", l'immagine che esiste solo quando si spende, si mette in gioco, interviene nel reale, lo "assenta" o lo "allucina", mai sposa l'identico o assume la falsa verità della coppia, dell'immagine - remake.

In questo senso la New York di "Al di là della vita" non è certo la New York familiare dei turisti, ma neanche quella "cyber" dei replicanti, sottratta al senso della collettività e dell’appartenenza, alla dialettica "eccesso di verità" - "simulazione assoluta", la New York che culmina nel modello - copia quella che fa emergere una semiologia convenzionalistica dell'immagine.

L'inquietudine e la fascinazione di "Hell's Kitchen" si producono là dove si dà una frattura, quella tra la semplice presenza - intesa come presenza attiva che coglie il mondo e lo modifica - e l'esistenza.

Ma qualsiasi essere umano è esposto alla debolezza, alla solitudine. Di conseguenza si fa chiaro il "criterio interpretativo", visto che il carattere imitativo dell'immagine non è per nulla univoco, si fa evidente la "cura" per il diverso, il malato, il bisogno di arrestare, anche solo per un attimo, lo "spostarsi" dalla propria stessa esistenza, dal corso inesorabile della natura che tutto inghiotte.


BLADE

Blade - Usa, 1999

Regia di Stephen Norrington, con Wesley Snipes, Stephen Dorff

Distribuzione: Warner Home Video

I vampiri dominano il mondo.

Sono un virus, sono l'avanguardia di una nuova specie di uomo. Incrollabile nelle sue certezze, plasmabile nei suoi comportamenti, incapace di arrivare a compromessi con un mondo che si rifiuta di capire, di accettare la realtà di una guerra non dichiarata, ma non per questo meno reale, il vampiro di Blade assomiglia poco all'immagine che ci è stata consegnata dalla tradizione horror soprattutto anglosassone.

I temi del delirio e dell'ansia motivata, conseguente a eventi vitali, non gli appartengono.

Il suo linguaggio, le sue strutture comportamentali, affondano le loro radici negli elementi friabili ed essenziali caratteristici di ogni colloquio col mondo che si dimostra incapace di articolare un contatto effettivo con gli altri, essendo la "pratica vampirica" l’evidente dimostrazione della temeraria passione per l'approvazione delle esperienze interiori vissute dagli altri - da noi, per l'immedesimazione nelle incenerite passioni che costituiscono la sostanza del mondo.

Ma - al di là delle articolazioni diverse - quel che più colpisce nel vampiro di Blade è il nocciolo di irrazionalità, o forse meglio di oltrerazionalità, che fa rientrare il loro mestiere nella sfera di quanto sfugge alla problematicità di ogni atteggiamento riducibile a criteri rigidamente scientifici.

È radicale l'estraneità del vampiro agli orizzonti aperti e dialettici che ci consentono di vivere esperienze condivise e come vissute dagli altri: in una circolarità di sentimenti che oltrepassano la distanza creata dal tempo e dagli spazi, i sentieri ambigui e strazianti che percorre mostrano di ricapitolare non esperienze portatrici di significati e di emozioni, ma arcane e misteriose risonanze che nascono all'interno di una crepuscolare angoscia esistenziale.

Per questo appare irrilevante, del tutto irrisolta, la figura del "diurno" (Wesley Snipes), l'"ammazzavampiri" impegnato in una pressochè solitaria crociata contra il morbo capace di togliere alla poesia ogni terrestrità, di annullare una vertiginosa contemplazione della vita e della morte.

Le grandi e vaghe immagini che lo muovono si riducono alla nostalgia di un linguaggio fatto di trasparenze abbaglianti e di singolari risonanze: un linguaggio - a ben vedere - che non è altro che traduzione del desiderio di un mondo perduto, o forse soltanto sognato.


BELFAGOR - IL FANTASMA DEL LOUVRE

Belphégor - Francia, 1965

Regia di Claude Barma, con Yves Rénier, Christine Delaroche, Juliette Gréco, François Chaumette, René Dary, Sylvie, Paul Crauchet

Distribuzione Yamato Video (3 cassette da 100' ciascuna)

Alcuni spettatori rimarranno forse sorpresi dalla mancanza di tensione all’interno dell'opera che del "senso of wonder", dell'attrazione - repulsione di fronte allo svanire della percezione della continuità all'interno di un mondo in continua trasformazione, inafferrabile, soggetto a continui spostamenti di senso, diventa scelta di stile e metodo interpretativo.

Ma non c'è ragione di stupirsi.

L'appartenenza dei personaggi al valore della storia genera la relatività di una visione del mondo dove l'esistenza di sette, complotti, delitti misteri da decifrare oscilla tra la "teorizzazione" legata al mondo della vita e la scelta di un "piano di fondazione" più incerto, carico di tensione interna, di singolare riflessività, che vuole porsi come "esperienza dell'esperienza".

A questo punto poco importa la volontà di privilegiare l'indagine del commissario Menardier, del tutto conseguente, che tenta di superare la relatività di ogni visione del mondo e di ogni giudizio storico o la nuova dimensione di domande e di risposte, la filosofia legata al "mondo dell'esistenza" che permea l'indagine di Colette, la figlia del commissario e del giornalista André Bellegarde, centrata sull'agire in rapporto a sé stessi e agli altri.

Il paradosso del singolare connubio di suspense e colpi di scena, di feulleton e di poliziesco moderno non si pone come scontro di opposte visioni del mondo, ma come punto di vista esistenziale che giustifica, allo stesso tempo, l'appartenenza dei personaggi ad universi finzionali apparentemente contrastanti.

Il gusto tutto esoterico per la costitutività trascendentale diventa così appropriazione del metodo fenomenologico e l'ironia che permea lo sguardo dell’autore e le reazioni dei personaggi, la volontà di creare un mondo che offra la possibilità di parlare di leggi e di connessioni logiche (penso alla vera e propria ossessione per il caso e le coincidenze) si precisa nei termini di un nuovo punto di vista conoscitivo, teoretico, inteso come rifiuto della possibilità di parlare di leggi e connessioni logiche pure, come ritorno alle "cose stesse".






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