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Technocity - Capitolo 3


Questa città è il mondo?

III.1 - Cambi di rotta

La città non è più in grado di opporsi alla grande pressione che viene dall'esterno e così l'esterno penetra dentro le strutture urbane che lo ingoiano, lo formattano e ripropongono al loro interno le divisioni (di classe). Cambia di conseguenza la concezione del setting urbano nelle opere fantascientifiche. Se nella fantascienza sociologica degli anni '40-'50 ci viene proposta molto spesso una città irregimentata, un luogo dove ogni cittadino occupa il suo spazio preordinato, la sua nicchia ben definita, nella fantascienza che segue - quella di autori come Ballard, Harryson - la città si trasforma spesso in un lurido agglomerato di baracche e slums erosi dalla sporcizia e dalla povertà. Oppure mette l'accento sulla città come ambiente urbano alienante, totalmente automatizzato anticipando i temi del postmodernismo cyberpunk.

Molto spesso le descrizioni urbane della Golden Age (1) hanno come modello, nel bene e nel male, New York che riassume in maniera perfetta l'istanza tecnologica e il mito della terra promessa. Ma negli anni '60 New York entra in crisi, tanto che dovette intervenire il banchiere Felix Rohatyn per sanare i bilanci municipali ed evitare la bancarotta. Da allora la Grande Mela ha attraversato molte crisi cicliche strettamente legate agli andamenti della borsa di Wall Street. I difficili momenti del 1987 e 1989 hanno provocato la perdita di 40.000 posti di lavoro mettendo in ginocchio la città. E la crisi di New York si può vedere non appena si supera la parte chic che si affaccia sull'East River, dove la città non ha più le mille luci del film Wall Street, ma somiglia molto alla Gotham City di Batman. È la città del post-capitalismo, un misto di povertà rumena e degrado nigeriano.


III.2 - Un condomino maledetto

"Vivere in un grattacielo richiedeva un tipo particolare di comportamento: acquiescente, controllato, forse un po' folle."

Il grattacielo de Il condominio (1975) di James G. Ballard è uno psicotopo che nel suo particolare riassume l'universale della città. Più che un building è diventato una mini-metropoli autarchica che nega la città, con le sue piscine, i ristoranti, le divisioni sociali, i confini tra i tre ambienti-classe che lo compongono: i proletari, la middle-class, l'oligarchia economica. Dice Marco d'Eramo "Per quanto siano i simboli delle metropoli americane, i grattacieli mettono in crisi e infine negano la città, se per essa s'intende quel luogo dove ci si mischia, dove si fondono individui, culture, attività. Il grattacielo come abitazione nega la città perché è esso stesso una città chiusa, autonoma" (2)

"Il centro commerciale del decimo piano costituiva un chiaro confine tra i nove piani più bassi, con il loro proletariato (...) i due terzi centrali del condominio formavano la sua borghesia sopra di loro, ai cinque ultimi piani del grattacielo, c'era la classe superiore"

Nel romanzo di Ballard chi sta sotto ambisce solo a salire, chi sta sopra detta i ritmi della città-palazzo che durante la narrazione "impazzisce" quasi senza un motivo scatenante, fino a degenerare nel caos. E così il paradiso tecnologico della metropoli-in-miniatura diventa un vero e proprio inferno, un ritorno al medioevo (prossimo futuro) molto simile a quello di La morte di Megalopoli, in cui si formano minuscole enclave da cui poi però risorgerà un nuovo assetto sociale:

"Come si ripeteva spesso, la presente crisi del grattacielo poteva segnare l'inizio del successo invece che del fallimento. Senza rendersene conto, aveva dato a quella gente una via di fuga verso una vita nuova, e un modello di organizzazione sociale che sarebbe divenuto un paradigma di tutti i futuri grattacieli."

Il grattacielo è inconcepibile senza le innovazioni tecnologiche di fine ottocento, innovazioni che trasformano un edificio da oggetto a meccanismo tecnologico complesso. Insomma se la città è il trionfo della civiltà, il grattacielo è l'apoteosi della tecnologia, che però può trasformarsi in un inferno di cristallo o essere messo in crisi profonda da incidenti anche di lieve entità: "L'aria condizionata aveva smesso di funzionare e l'assenza del vago, familiare ronzio (...) rendeva Royal inquieto." (3)

Nonostante la loro perfezione tecnologica, appena i grattacieli vengono lasciati a sé stessi il degrado è fulmineo: è questo il motivo, dice d'Eramo, perché alcuni quartieri americani sembrano appena usciti dal bombardamento di Dresda. Nel momento che la tecnologia smette di "servire" il grattacielo, l'uomo si trova di fronte ai mille problemi di una costruzione senza senso:

"Quell'immenso edificio che aveva contribuito a progettare era moribondo, le sue funzioni vitali svanivano una dopo l'altra: la pressione dell'acqua diminuiva per il vacillate delle pompe, le sottostazioni elettriche ai piani si spegnevano da sole, gli ascensori si erano arenati nelle loro colonne." (4)

E l'abbassamento del livello tecnologico porta ad un inevitabile scatenarsi della violenza. Nel condominio maledetto si scatena la guerra. "Dietro l'apparente razionalità, i grattacieli esprimono una follia prometeica, lo sfidare le leggi della gravità ... " (5)

Ne La morte di Megalopoli, il "Mile-Hi Building" è realmente il simbolo della città-verticale:

"(...) questo fabbricato è una vera e propria città. Oltre centomila persone potranno viverci o lavorarci dentro. Ascensori velocissimi permetteranno di salire dalla strada alla cima dell'edificio in meno di un minuto e mezzo (...) Nel Mile-Hi Building saranno installati 40,000 apparecchi telefonici e si potranno svolgere anche 40.000 telefonate contemporaneamente".

Come già messo in evidenza in Il condominio, l'organizzazione dello spazio modifica la struttura sociale.

Lo stesso concetto si ritrova in questo romanzo:

"(...) il Mile-Hi Building - il grattacielo alto un miglio. Si sentivano uniti. Sentivano le parole del presidente davano significato al lavoro. Sentivano con intuizione sicura che il Mile-Hi Building - torreggiante su Manhattan e rispetto al quale scomparivano l'Empire State Building e il World Commercial Center - sarebbe divenuto il primo simbolo di una società nuova."

E poi ancora, nelle parole del presidente Vernon:

"La nostra generazione di americani ha deciso che vuole portare un ordine nuovo negli Stati Uniti d'America e, quindi, nel mondo. Vogliamo un ordine nuovo, stabile e duraturo – Novus Ordo Seclorum: un nuovo ordine di secoli. Sappiamo che non c'è ordine dove non c'è comunicazione (...)"


III.3 - Le città automatizzate

Molti scrittori hanno descritto le meraviglie tecnologiche delle città future. Si tratta spesso di un meccanicismo "folle e incontrollabile" come dice Francesco Mei nel suo saggio La giungla del futuro (1977), una tecnodipendenza che potrebbe trasformarci tutti in manichini.

È quello che succede a Guy Burkhardt ne "Il tunnel sotto il mondo" (1955) di Frederik Pohl. Intorno a lui la gente riproduce le azioni del giorno prima inconsapevole di averle già vissute. Burkhardt scopre che la città dove abitava è stata distrutta dall'esplosione di una fabbrica e il proprietario si è impossessato dei loro cervelli per fare delle indagini di mercato. Lui è l'unico sopravvissuto: gli "altri" sono solo dei robot e l'intera città serve solo per delle indagini di mercato. Fugge, ma davanti si trova solo lo spazio vuoto e delle ombre gigantesche: la città è stata ricostruita in scala ridotta su un tavolo. Il costo del lavoro ha imposto la logica del risparmio.

Brian Aldiss in Senza privilegio (1964) descrive graficamente la città completamente automatizzata.

All'angolo di ogni strada è possibile inserire una carta di credito e subito arriva un robot servitore che è in grado di provvedere a qualsiasi richiesta. A volte la città diventa addirittura un organismo tecnologico vivente: in "Chicago" (1973) di Thomas Monteleone la struttura urbana ha come braccio Pignone - un robot che la serve - e tiene gli uomini ibernati in contenitori di vetro, mentre ne "La città premurosa" di Robert Sheckley, la città è rimasta completamente vuota perché, come afferma essa stessa "C'è stato uno screzio nelle relazioni tra città e comunità".

Più o meno gli stessi argomenti sono il tema di "Servocittà" (1952) di Waiter Miller jr. e di Single Combat (1955) di Robert Abernanthy. "Servocittà" ci propone ancora una volta una città vuota ma intatta nelle sue funzioni vitali, nonostante i suoi abitanti l'abbiano abbandonata durante una guerra nucleare perché spazio pericoloso. Un sofisticato sistema cibernetico regola tutte le sue funzioni e continua ad impartire gli stessi ordini:

"(...) le macchine erano vuote, guidate automaticamente. I loro percorsi erano ancora quelli che un tempo seguivano quotidianamente, portando regolari passeggeri umani: (...)"

Le macchine, anche le più perfette possono incepparsi ed andare contro l'interesse del suo creatore. Sta all'uomo correggerle.

Single Combat invece ci racconta di un uomo che ha collocato una bomba nucleare nel cuore della città nel tentativo di distruggerla. Ma mentre lui fugge verso la periferia nel tentativo di salvarsi, la città lo "ostacola" assumendo una vita propria e servendosi di auto prive del controllo dei conducenti, di cartelloni pubblicitari che cadono e di qualsiasi altra cosa abbia a disposizione, riuscendoci alla fine. Anche la bomba viene disinnescata.

Un altro esempio di città automatizzata è Cybernia (1972) di Lou Cameron, dove la città omonima e costruita - quasi si trattasse di una sfida - accanto a New York. Cybernia non è una megalopoli, ma un insediamento modello; autosufficiente, progettato nei minimi particolari da un gruppo di scienziati, che l'hanno recintata con una rete. ad alta tensione. Una Macchina provvede a gestire tutti i servizi in maniera impeccabile; e il tentativo di costruire qualcosa di diverso dai soliti dormitori suburbani, di riproporre un'utopia meccanicizzata, con case in stile coloniale, prati, erbetta, dispositivi istallati sotto il manto stradale per tenerla pulita da foglie e neve. Ma un giorno la Macchina inizia a sbagliare e comincia a mettere in pericolo la vita dei propri abitanti.

Ne Gli orrori di Omega (1967) di Robert Sheckley troviamo un'altra città falsamente felice. A dir la verità i setting del romanzo sono due: Omega e Wilmington. Omega è una colonia penale dove vengono deportati i prigionieri: una vera e propria città-interno, dove l'individualità è spinta all'estremo. I non conformisti vivono nei cunicoli sotterranei di Tetrahyde ed hanno somatizzato le loro caratteristiche psicologiche diventando dei mutanti.

Ma le sorprese sono sulla Terra. Quando Barrent, il protagonista, riesce a fuggire da Omega e a tornare a Wilmington non trova nessun controllo allo spazioporto. Perché non c'è sorveglianza in un punto così importante? Si rende conto che c'è qualcosa che non va: la città sembra essere quasi addormentata.

Nel momento che Barrent si accinge a pernottare nel Forestdale National Park sente una voce che lo saluta e gli comunica la temperatura, l'umidità: è "Oaky, la tua quercia amica". Subito dopo dall'albero si apre un pannello ed esce un thermos, cibo, un'amaca. Se negli anni '40-'50 il pericolo era rappresentato dalla natura (selvaggia) che premeva sulla città, ora la metropoli ha fagocitato l'esterno appiattendone tutte le istanze destabilizzanti. Il parco, luogo degli orrori in molti romanzi e cartina tornasole di quella bestialità celata nella psicologia umana, ora offre cibo ed augura la buona notte.

Così Barrent scoprirà che Wilmington è una città appiattita, sinonimo di uno status sociale in preda ad un processo entropico: "Oggi, visto che siamo tutti uguali, non esiste che una classe." Il ceto medio: nell'ipotesi di Sheckley la città futura è priva di scontri di classe.

Non esiste più nessuna differenza, né a livello sociale, né a livello architettonico. Tutte le città si sono uniformate ad un unico standard: Roma è uguale a Washington o a Wilmington. Camminando per la città Barrent si rende conto che tutti i cottage sono identici. È una genteel sameness che lo deprime e quasi gli fa rimpiangere le durezze degli edifici di Omega.

Altra città-civiltà cloroformizzata è quella descritta da Mark Adler nella trilogia Interface (1971), Volteface (1972) e Multiface (1973). Il setting stavolta è un'ipotetica Inghilterra del futuro dove la popolazione vive in comunità chiuse controllate dai dirigenti dell'enorme organizzazione Stahlex. La trilogia inizia descrivendo la popolazione come una massa unica di consumatori che non avrebbe motivo di essere infelice. Ma man mano che la trilogia prosegue, i dirigenti si rendono conto che il dissenso della città è provocato da qualcosa che manca nella vita degli abitanti e così sono costretti a ricorre ad un nuovo concetto per quella società: fornire un lavoro alla gente.

Ma non sempre la città, monoblocco autarchico, è sinonimo di piattezza, staticità mentale, entropia. È il caso di due romanzi che invece sono simboli di dinamismo e libertà: Imboscata alla città (1969) di Mack Reynolds e la serie di Cities in flight (1970) di James Blish, entrambi influenzati dalla cultura hippy e dal mito americano dell'on-the-road (negazione della cultura urbana-irregimentata). In imboscata alla città, New Woodstock, una città americana media, si muove ad una velocità di 100 Km/h spostandosi da un capo all'altro degli Stati Uniti, mentre in Cities in flight le città si sono dotate di cupole e si sono staccate dalla Terra mediante dei sistemi antigravitazionali che le hanno rese simbolo di fuga e libertà.

"Ero arrivato all'età di 1000 chilometri". Nel mondo bizzarro de Il mondo invertito (1973) di Christopher Priest a comandare è la Corporazione dei Topografi del Futuro che ordina alla Corporazione delle Strade la direzione corretta dove devono essere posti i binari planetari. Una megalopoli chiamata Terra avanza su questi binari per raggiungere un punto chiamato Optimum: la città diventa un immenso autoveicolo.


III.4 - Ancora più in basso

Qualcosa di grosso, di pesante si aggira "Nelle fogne di Chicago" (1908), un racconto di George Dauton.

Le fogne, "l'intestino del Leviatano" come le chiamava Victor Hugo, sono sinonimo di labirinto, un luogo connesso con le metafore del basso, del dentro. Leggende metropolitane - o forse è verità? - dicono che le fogne di New York siano abitate da alligatori resi ciechi dall'oscurità: sono quelli che i Vip tenevano nelle piscine perché faceva trend e che poi hanno gettato negli scarichi per liberarsene quando erano cresciuti.

L'anonimo narratore del racconto di Dauton rimane allibito quando dalla bocca della fogna sotto il marciapiede vede uscire qualcosa: "Ciò che seguì fu così fulmineo da ridursi a due sole immagini: quella dell'uomo avviluppato da lunghe, grosse spire nerastre; e poi quella strada di nuovo vuota, silenziosa, come se niente fosse accaduto e il marinaio non fosse mai esistito fuorchè nella mia immaginazione."

Una creatura mostruosa si annida silenziosa sotto Chicago, colpisce e fugge silenziosa di nuovo negli abissi.

Sotto la città c'è un vero e proprio inferno:

Stretti gradini ci condussero in un lungo budello di cemento, da cui finimmo per sbucare in un canale di scolo. Un fetido ruscello scorreva ai nostri piedi (...) Al gorgoglio degli scarichi, infatti, mi sembrava che si aggiungessero ogni tanto dei tonfi e a volte una specie di fischio stridulo. Quando improvvisamente mi guizzò tra le gambe, strappandomi quasi un urlo.

Ratti - disse Hood senza voltarsi. - Ce ne sono di enormi."

Il narratore e Mr. Hood si avventureranno sotto le fogne alla ricerca della "cosa" per ucciderla.

Nell'assoluta fisicità dei sotterranei sconosciuti, ogni movimento, ogni suono, si amplifica, generando il terrore: "Aspettammo col fiato sospeso, nel buio. Tra un tonfo e l'altro si udiva adesso, sempre piò vicino, il rumore di qualcosa che diguazzava nella melma (...)"

Alla fine del racconto, il mostro generato dal lago e da lì risalito nella fogna, sarà sconfitto.

"L'importante era che non sarebbe risalito mai più.

A meno che ... altri mostri...

No. Sono passati anni da allora, e benchè naturalmente a Chicago, come in ogni altra città, la gente ogni tanto sparisca, nulla autorizza a pensare che sparisca o sparirà mai più nelle fogne."

Previsione errata, dicono nella nota che segue il racconto Fruttero e Lucentini, perché dopo mezzo secolo gli abitanti di Chicago ricominciano ad essere risucchiati nelle fogne. La nota si riferisce al romanzo di Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm Dalle fogne di Chicago (1965). Stavolta la creatura mostruosa, il Clone, esce direttamente da lavandini e bagni e ingloba le vittime di turno. E non c'è da stupirsi visto che negli scarichi finisce di tutto: "cibi guasti di tutti i tipi possibili e immaginabili. Schiuma di saponi e detergenti, medicine gettate via, spezie, aromi, coloranti, inchiostri, cosmetici, sciacquature, candeggianti, resine ed enzimi (...)"

Dalle combinazioni chimiche di tutti questi elementi può nascere una nuova forma di vita che ingloba le sostanze viventi che incontra sulla sua strada: "la mano era ormai scomparsa, e così pure il polso, e parte dell'avambraccio, che erano stati sostituiti dal verdastro, luminescente tessuto uscito dal tubo di scarico, e che ora traboccava dal bordo del lavello."

Il ventre della città è una sorta di alambicco da cui può nascere qualsiasi cosa, dicono gli autori, e non vanno certo lontani da quella che è la verità se pensiamo che in Italia la legge Merli (per la tutela ambientale!) permette che gli scarichi delle industrie chimiche, farmaceutiche e conciarie finiscano interamente nelle cloache.

Le fogne, come ricorda Lewis Mumford in La città nella storia, sono un'invenzione abbastanza recente, anche se esistevano già nelle città romane. Era qui che venivano gettati i rifiuti ed anche i corpi degli schiavi morti a migliaia, tanto che questi ancora formano delle masse gelatinose sotto Roma. (6)

Sopra e sotto, la città e la fogna: e la tazza di porcellana - sempre lustra, immacolata - l'interfaccia fisica che collega i due mondi. La tazza è la porta sull'abisso dell'undercity, una sorta di ano domestico dove l'intestino umano si salda all'intestino della città. È "la protesi moderna che salda direttamente le fogne della città alle fognature del nostro corpo." (7)


III.5 - Il ritorno alla città

Gli elementi spaziali della città conservano la traccia del tempo. Linee rette, angoli; marciapiedi, negozi: luoghi dove si intreccia l'esperienza umana, dove è possibile "ricordare" o progettare un futuro sempre più incerto.

Le vite minime si intrecciano nella tabaccheria di Smoke e Blue in the face, dove Harvey Keitel continua a fotografare lo stesso angolo per decenni per cogliere la storia di Brooklyn. Non si può più raccontare la città: ci si deve accontentare di fotografarla per tentare di catturarne gli attimi fuggenti. Nietzsche: "Amo le brevi abitudini cittadine".

Lo spazio urbano, dice Augusto Illuminati, diventa uno spazio per la riflessione filosofica, luogo elettivo per il dispiegamento di energie dove è spazialmente visibile "anticipazione e innovazione, memoria ed entropia". La città è perciò un luogo di confronto: desiderio e legge si fronteggiano, rinviandosi reciprocamente a trasgredire o a reprimere. Come d'incanto nelle metropoli lo spazio si fa perciò tempo, storia. I luoghi "ricordano" qualcosa. Tornare alla città significa riappropriarsi del passato. (8)

La città, afferma Calvino, "non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole."

By the Waters of Babylon (1937) di Stephen Vincent parla proprio dell'esplorazione di una città abbandonata. Il romanzo è la storia di un viaggio nella città proibita dove si dice vivano gli dèi. La città è New York, dove il protagonista scoprirà i resti di un dirigente d'affari morto ormai da secoli, mummificato nel suo ufficio, e si rende conto che i cosiddetti dèi erano solo degli uomini.

La "città perduta" sfuma la sua storia in leggende, miti, fiabe, credenze religiose. Leggiamo City di Clifford Simak:

"Queste sono le storie che i Cani raccontano quando le fiamme bruciano alte e il vento soffia dal nord. Allora ogni famiglia si riunisce intorno al focolare, e i cuccioli siedono muti ad ascoltare, e quando la storia è finita fanno molte domande:

"Cos'è un Uomo?"

Oppure:

"Cos'è una città?"

o anche:

"Cos'è una guerra?"

Non esiste una risposta precisa a nessuna di queste domande (...)

Nelle famiglie, non pochi narratori sono stati costretti a ripiegare sull'antica spiegazione, secondo la quale le storie non sono altro che storie, e non esistono, in realtà, né un Uomo né una città (…)"

Uomo-città: un tutt'uno inscindibile. Il ritorno alla città è forse il tentativo di risalire le pieghe del tempo e recuperare i valori della civiltà che la "città della quantità" ha oscurato.

In La ricerca della sfinge (1950) di Arthur C. Clarke le strutture urbane sono uno spazio vietato e viene applicata "la legge secondo la quale nessuna comunità poteva restare nello stesso luogo per più di tre vite. L'obbedienza comportava cambiamenti, la distruzione delle tradizioni."

Opporsi alla città è perciò un tentativo di combattere il fenomeno entropico. Ma questa vive ancora nelle leggende e Shastar, la metropoli morta, sarà la prova a cui Brant si dovrà sottoporre. Brant parte e faticosamente inizia ad avvicinarsi a Shastar. Il primo impatto con la città morta è la strada. (9) Poi è la volta della Sfinge, grandiosa costruzione in pietra, che veglia sulla città e contempla il sole. Infine Shastar:

"La città catturava la luce del sole e la ributtava a lui, sfumandola di tutti i colori dei sogni dei suoi costruttori. Gli edifici spaziosi che fiancheggiavano le ampie vie non sembravano devastati dal tempo; la grande fascia di marmo che teneva a bada il mare era ancora intatta; i parchi e i giardini, sebbene da molto tempo invasi dalle erbacce, non erano ancora giungle."

Subito Brant capisce che quella che sta vivendo è un'esperienza grandiosa ed ha la sensazione "di guardare il tempo, anzichè lo spazio". L'enormità di Shastar lo sgomenta. Inizia la sua esplorazione e scopre che le abitazioni degli antichi abitanti sono sottoterra. In un mondo dove le città non esistono più, è chiaro che abbiamo un ribaltamento della dialettica dentro-fuori:

"gli abitanti di Shastar erano appartenuti alla sua stirpe. Eppure, mentre ammetteva questo, continuava a considerarli inferiori. Vivere in una città, per quanto bellissima e ingegnosamente costruita, per Brant era segno di barbarie. Sapere che un tempo era stata molto diffusa l'idea esattamente opposta lo avrebbe più divertito che irritato."

Così la città diventa l'esperienza irrinunciabile, che serve a dare "un senso di distacco" e a insegnare "i rudimenti della saggezza". Dopo Shastar, Brant non sarà più lo stesso, perché avrà capito che nella vita non c'è fine, "che ogni conclusione è solo un nuovo inizio: e così via fino alla fine del mondo."

La storia della città è la storia della civiltà. Quando Kumiko arriva a Londra - William Gibson, Monnalisa cvberpunk (1988) - si rende conto che il traffico nella città è quasi inesistente in confronto con quello di Tokio, ma soprattutto incontra la Storia: rimane impressionata dal passato che è parte viva del tessuto della città e che sembra lanciare messaggi.

"Non era come a Tokio, dove il passato, quel poco rimasto, era conservato con cura maniacale. Là, la storia era diventata una cosa rara, catalogata dall'amministrazione, protetta dalla legge e dalle sovvenzioni."


III.6 - L'auto in città

Probabilmente il destino di Megalopoli è cambiato nel 1908, l'anno in cui Henry Ford lanciava il modello T, L'automobile di massa. L'ingresso dell'auto modificò notevolmente i rapporti che il cittadino aveva con la città, e la città con i dintorni e con sé stessa. Come prima cosa la città deve essere cosparsa di parcheggi. "Il parcheggio: interrompe il tessuto urbano, crea una terrain vague che scardina la rete sociale.

Di notte i suoi spazi sono antri bui, fauci che minacciano lo scippo, percosse, stupro." (10) Le immagini dei noir americani sono piene di assalti nei parcheggi deserti.

Per arrivare in città con l'auto c'è bisogno di arterie a scorrimento veloce. E quando queste arterie penetrano dentro il corpo urbano degradano e distruggono i quartieri, proprio come la ferrovia ha fatto nell'ottocento. "Quando si opera all'interno della metropoli, ci si deve aprire un varco con una scure di carne." (11)

Auto e strada sono due entità legate a doppio filo. Non esisterebbero auto se non ci fossero strade, ma l'auto vuole strade fatte a sua immagine e somiglianza. Nei paesi, le vie e le piazze erano il luogo dove si incontravano i compaesani. La strada, il viale, sono invece luoghi di passaggio: nasce il lirismo del passante, dell'attimo, "la strada come luogo della solitudine che immagina incontri, li fantastica." (12)

Ciò che l'auto ci chiede è strade dove non ci siano "passanti" che attraversano, che si interpongono come ostacoli per il raggiungimento della nostra meta. Ed è così che le città americane adottano la gridiron, la struttura a graticola fatta di vie parallele che si incrociano perpendicolarmente. La gridiron facilita la circolazione permettendo una visuale più ampia, evitando incroci non razionali. La campagna è curva, i suoi tratti addolciti dai clivi delle colline: la città è retta, netta, definitiva.

Sono molti i romanzi in cui le auto ed il traffico diventano un vero e proprio incubo. In "Tiro al piccione" del duo Cozzi-Malaguti, le auto ferme bloccano tutte le strade della città. Una situazione molto simile c'è in La morte di Megalopoli di Roberto Vacca (1974) in cui le auto diventano un vero e proprio incubo:

"Mentre parlavano il rombo del traffico, accompagnato da suoni di clacson e di trombe, era cresciuto continuamente. Chandler disse:

"Chiuditi la finestra, Bernie. Non senti che baccano viene da fuori? È incredibile che arrivi così forte fino al quarantacinquesimo piano."

Bernie scosse la testa.

"È chiusa bene, Al, e ha pure i vetri doppi. Lì fuori ci deve essere un ingorgo di traffico proprio kingsize. Qui diventa sempre peggio (...)""

A Tokyo hanno risolto la situazione in maniera singolare:

"Dalla settimana scorsa a Tokyo fanno tutto in tre turni di otto ore. Fabbriche, uffici, negozi.

Non riuscivano più neanche a muoversi in tutta Tokyohama. Dice qui che ieri hanno fucilato un po' di negozianti e di industriali che tenevano aperto fuori turno."

La soluzione di dividere la vita attiva della città era stata ipotizzata anche da Asimov in Abissi d'acciaio, ma questa possibilità era stata scartata, e lo stesso problema è al centro della serie di Dayworld di Philip J. Farmer.


(1) I critici chiamano gli anni '40-'50 la Golden Age della fantascienza a causa dell'enorme produzione che si verificò in quegli anni soprattutto sui pulp-magazine, riviste popolari che si vendevano nelle edicole. Per quanto riguarda New York, Lawrence Watt-Evans nell'antologia dal titolo Newer York, afferma "Il mondo è pieno di città, ma New York è la Città, l'unica che non pretende di essere null'altro. Non è la più grande del mondo (...) o la più vecchia, o la più recente, ma è la più urbana, un puro esempio di forma."

(2) Marco D'Eramo, Il maiale e il grattacielo, cit.

(3) James G. Ballard, High-Rise, 1975, Il condominio, Anabasi, Piacenza 1975

(4) Idem

(5) Marco D'Eramo, Il maiale e il grattacielo, cit.

(6) Mumford cita un resoconto fatto da Rodolfo Lanciani sugli scavi del 1892. Queste informazioni sono riportate in Daniele Barbieri, "L'immaginario nel tombino: dagli escrementi nascono mostri", in il Manifesto, 11 aprile 1991

(7) Domenico Starnone, "Interni d'uomo, viscere di città", in il Manifesto, 11 aprile 1991

(8) Augusto Illuminati, La città e il desiderio, cit.

(9) "La strada incominciava bruscamente - proprio così - con l'estremità nettamente tagliata e levigata come le spallette che correvano a fianco delle strade più normali" Un'autostrada di cemento, gridano Nelson e il suo assistente Mackenzie in "La strada impossibile" (1940), un racconto di Oscar Friend. "Grazie a Dio, adesso potremo tornare al mondo civile" dice quest'ultimo "chi ha mai sentito di una strada, anche abbandonata, che non porti almeno a una casa o a una baracca?" La metafora è molto semplice: la strada significa civiltà o città, ma anche mistero.

(10) Marco D'Eramo, Il maiale e il grattacielo, cit.

(11) Dichiarazione di Robert Meses, sindaco di New York nel passato

(12) Marco D'Eramo, Il maiale e il grattacielo, cit.


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