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Steinbeck nella selva di Napoli apocalittica


di Stefania Ulivi


Un uomo ammattisce se non ha qualcuno. Non importa chi è con lui, purchè ci sia». Arriva dalla California agra dei braccianti stagionali di John Steinbeck di Uomini e topi l'embrione del nuovo film di animazione di Alessandro Rak - Yaya e Lennie. The Walking Liberty - in anteprima alla 74ª edizione del Locarno Film Festival, in programma dal 4 al 14 agosto. Terzo capitolo - dopo L'arte della felicità (Best European Animated Film agli European Film Awards 2014) e Gatta Cenerentola, due David di Donatello - della collaborazione tra il regista napoletano e Mad Entertainment, realtà che nell'arco di una decina d'anni ha consolidato un'inedita via partenopea all'animazione.

In realtà, il terzo lungometraggio avrebbe dovuto essere un altro, racconta Rak. «Dopo Gatta Cenerentola, stavamo lavorando a un progetto che prendeva le mosse da una mia vecchia graphic novel, A Skeleton Story, su una bambina che capitava nel regno dei morti e si imbatteva in un investigatore che l'aiutava a tornare nel suo mondo. Ma è uscito Coco e, viste le somiglianze, abbiamo preferito lasciar perdere, poteva sembrare un'assonanza.

Ci siamo detti: inventiamoci una storia.

Mi è tornato in mente il romanzo di Steinbeck. Mi ha sempre emozionato il racconto di questi due personaggi della periferia umana dentro un'America dissestata dal disastro economico». George Milton e Lennie Small. «Mi commuoveva lo sforzo fallimentare di George di trovare un posto nel mondo a Lennie».

Stesso nome, stesse smisurate stazza e forza fisica, stessa mente da bambino per uno dei due protagonisti del nuovo film, scritto da Alessandro Rak a partire dal soggetto realizzato con Marino Guarnieri, Dario Sansone e Francesco Filippini. La sua compagna di avventure è Yaya (a cui dona la voce la giovane Fabiola Balestriere), una ragazzina sanguigna e malmostosa che non si arrende all'inevitabile, dopo che in seguito a uno sconvolgimento di cui non vengono spiegate le cause, il mondo, così come lo conosciamo è finito e la natura s'è rimpossessata degli spazi prima abitati dall'uomo.

Yaya cerca, al fianco di Lennie (Ciro Priello), una sua strada, tra l’Istituzione che sta operando per ripristinare un ordine costituito per controllare il popolo della giungla e i dissidenti che sognano la rivoluzione. Una storia popolata da personaggi fantastici: Zia Claire, Rospoleón, Capitano Lux, Zio Giò, ovvero Lina Sastri, Francesco Pannofino, Massimiliano Gallo, Tommaso Ragno.

«Un'avventura fantascientifica, ecologista e post-apocalittica come un incrocio fra Mad Max e Blues Metropolitano», nelle parole del direttore di Locarno, Giona Nazzaro. A guardare bene, infatti, dal fitto della giungla spuntano le vestigia di Napoli. La cupola di San Gennaro, il Duomo. «Abbiamo immaginato i nostri luoghi in chiave apocalittica», spiega Rak. Il cuore è il legame tra i due protagonisti. Semplice e solido. «Quando Lennie ha paura c'è Yaya, quando Yaya ha bisogno Lennie c'è». Non un legame alla pari, chiarisce il regista. «Piuttosto di interdipendenza. È qualcosa che oggi viene descritta con un'accezione negativa, per me invece è alla base della mia idea di società. Non mi appassiona il mito dell'indipendenza, chi dice: "Non devo niente a nessuno", Credo, invece, nella riconoscenza, nell'attenzione alle esigenze dell'altro.» L'interdipendenza come principio salvifico. «Nel film aleggia una domanda: che società vogliamo costruire sulle macerie di quella vecchia? Su quali valori?».

Oltre tre anni di lavoro, un budget «tra 2.200.000 euro e 2.400.000», di gran lunga inferiore a progetti internazionali analoghi, spiega Luciano Stella, fondatore con Carolina Terzi della casa di produzione Mad. Di necessità, virtù è una regola della casa. «Il tassista protagonista de L'arte della Felicità - ricorda Terzi - fu scelto perché non avevamo i soldi per farlo camminare. Altrove, per esempio in Francia, opere simili costerebbero 10 milioni, una città con le caratteristiche creative e operative dl Napoli ci consente dl farlo a modo e a costi diversi». Ma i paragoni con altre realtà hanno un senso relativo. «L'animazione è una strada accidentata - continua Stella -. Il terzo film è testimonianza della continuità dello studio Mad, per niente scontata.

Una factory artistica di talenti che ha sviluppato una sua tecnica, con un leader, Alessandro, che firma il film con i nomi di tutti, perché quella comunità è reale».

Partito come esercente e operatore culturale, con il festival di parola «Arte della felicità», da cui è derivato il primo film, Stella non pensava all'animazione.

«Quando ho visto Valzer con Bashir di Ari Folman ho avuto un'illuminazione. Ho incrociato Rak e Carolina, e siamo partiti con la lucida follia di Mad e senza pianificazione, passo dopo passo». Allora erano quattordici, la base si trovava «sopra il mio cinema Modernissimo. Ora siamo una quarantina, la sede è a palazzo Pandola, nell'appartamento de L'oro di Napoli e Matrimonio all'italiana di piazza del Gesù. È un luogo a cui teniamo, è genius locis, tradizione torna in ogni cosa che facciamo. In questo ci sentiamo vicini allo Studio Ghibli, che da sempre racconta un Giappone così legato alle sue radici da diventare universale». L'identità, sostengono Stella e Terzi, viaggia e fa ritorno, l'ambizione è continuare a crescere (oltre all'animazione, Mad produce documentari, come Rione Sanità, la certezza dei sogni di Massimo Ferrari, e film di finzione come Il buco in testa di Antonio Capuano) senza perderla. «Culturalmente Napoli è una nazione, si sente l'orgoglio di appartenenza, anche nel pubblico. I napoletani consumano il loro teatro, il loro cinema, la loro musica. Per noi è stato facile trovare talenti, questo è un territorio-distretto, c'è contaminazione tra le arti, la musica, la grande scuola attoriale, anche realtà innovative come i Jackal. Ci si rispetta e si dialoga»,

Le musiche, ovviamente, giocano un ruolo centrale. Le firmano in tre - Dario Sansone, Enzo Foniciello e lo stesso Rak.

«Il reperto maggiore che emerge dalla giungla è legato ai suoni - racconta-, un retaggio acustico e sentimentale.

Sempre un omaggio alla città in cui operiamo». Oltre che uno strumento di lavoro. «Abbiamo bisogno di molto lavorio musicale, accumuliamo tanto materiale per provarlo durante la lavorazione dell'animazione».

Tra le suggestioni di partenza, oltre a Steinbeck, dall'America ne arrivano altre due. Una moneta, la Walking Liberty del titolo, il mezzo dollaro emesso nel 1916, e Il grande dittatore di Charlie Chaplin. «Il mezzo dollaro uscì fuori corso molto presto, come altre monete fuse con metalli preziosi. L'idea è venuta a Marino Guarnieri, ci ha colpito quell'immagine, l'incisione di una donna in cammino, la libertà che cammina con il sole che sorge sullo sfondo ci è sembrata perfetta per intitolare la storia».

È stato invece Sansone a suggerire di inserire uno spezzone del celebre monologo de Il grande dittatore. «Tutti noi, esseri umani, dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicita del prossimo, non odiarci e disprezzarci l'un l'altro»: quello in cui ammetteva di non voler fare l'imperatore, né governare o conquistare nessuno.

«Se fai un film post-apocalittico e sulla convivenza civile, quel discorso all'umanità, scritto dopo tempi atroci, continua a risuonare attualissimo». Con un significato in più. «È una scena ambientata nel villaggio nato sulle rovine di quello che poteva essere una multisala o un museo dei cinema. Legato all'idea dell'impermanenza del cinema che di questi tempi rischia di scomparire e che noi speriamo continui a esistere».

Quando Yaya e Lennie è stato pensato, la pandemia era materia di fiction. Guardandolo viene in mente la cronaca.

«Non si tratta certo di preveggenza, ma di sapere ascoltare la realtà. Una potenziale pandemia è stata paventata più volte, con l'aviaria per esempio. Ci siamo trovati a viverla, con la mascherina che rappresenta in maniera chiara il rapporto inquinato dell'uomo con ambiente: l'idea che si debba filtrare l’aria, qualcosa che pensi di dover fare magari andando a colonizzare un pianeta nuovo, non nel tuo. È negazione del rapporto naturale con il tuo ambiente».

L'impegno maggiore di tutto lo staff degli animatori, oltre all'ideazione dei personaggi, è stato inventare la giungla.

«Un lavoro certosino. Abbiamo costruito in maniera tridimensionale alberi di tutti i tipi, piante, fiori; ora che siamo alla fine abbiamo accumulato così tanto materiale che potremmo continuare a riprodurla, quella giungla». Dopo tre anni passati nella nave di Gatta Cenerentola, dicono, è stata una sorta di liberazione.

«Sentivamo il bisogno di immergerci nella natura - conclude Rak -, che ha una sua forza anche pericolosa. Tradizionalmente l'uomo cerca di negare il selvaggio, in nome della sicurezza. Spero che anziché timore possa ispirare bellezza. Il film è un inno alla libertà e alle sue contraddizioni, perché la libertà è la premessa di ogni sana scelta di vincolo amoroso oltre che l'unica via che non porti all'ovvio e all'inesorabile. Un inno al passeggio, al viaggio, al paesaggio, che sono il respiro di ogni pensiero sano. Un inno al verde, che è vita e speranza».






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