È di nuovo la città del miracoloso De Sica
di Maurizio Porro
Settant'anni dopo sono tornati i barboni che presero il volo in sella alle scope, sorvolando il Duomo, un giorno del 1950, uno di quelli in cui «Buongiorno vuol dire veramente buon giorno», come ripetevano Cesare Zavattini e Vittorio De Sica, e Dario Fo con Alik Cavaliere preparavano i calchi dei volti dei pupazzi da mandare in cielo. Il film era Miracolo a Milano del cinquantenne De Sica che aveva vinto già due Oscar e il suo film in realtà sembrava, con, quella sfilata sottoproletaria di locch (in milanese), una pro va dell'Opera da tre soldi brechtiana, compreso il finale fantasy che di lì a poco avrebbe trionfato al Piccolo con Strehler.
Il film dispiacque a destra e a sinistra e qualcuno, senza humour, disse che gli spazzini erano i comunisti. Dall'8 febbraio 1951, quando debuttò all'Odeon, la pellicola incassò in Italia poco più di 27 milioni (180 di oggi) anche se la parola miracolo nel titolo faceva sperare il pubblico devoto e le sale parrocchiali, ma gli spettatori le preferivano, ricorda Paolo Mereghetti, Anna di Lattuada, dove la Mangano cantava El Negro zumbon. Però il capolavoro incassò premi e lucida gli occhi in tutto il mondo, vinse a Cannes, commosse e influenzò García Marquez, Coppola e Spielberg (che nel finale di E. T. ne fa una macroscopica citazione).
Si riparla del film perché su di lui e su Milano (considerata poco fotogenica) esce nella collana Tracce edita da Euro-Milano un ricco libro che esamina l'opera in divenire. Un omaggio a un film e a una città: dice il curatore Gianni Biondillo che ha «scritturato» 21 collaboratori, ciascuno con la storia del «suo Miracolo».
Non è infatti solo la cronistoria di una lavorazione, con il villaggio dei diseredati scoperto tra le nebbie storiche di Lambrate e l'Ortica, zona di romanzi popolari, ma la storia del rapporto con una città: non a caso la presentazione avverrà a BookCity il 20 novembre alle 16 presso l'Auditorium Stefano Cerri in via Valvassori Peroni 56, dove furono girate molte scene. Ne parleranno il curatore con Gianni Canova e Valentina Fortichiari, autrice di un saggio su Zavattini, che aveva vissuto un decennio milanese e di cui La nave di Teseo pubblicherà il 25 novembre La pace, scritti inediti di lotta contro la guerra. E un libro, Miracolo a Milano. Un omaggio a un film e a una città, che racconta il film e, appunto, la città che l'ha generato e ospitato, osservando destini architettonici, sociali, cinematografici a partire dalla macere del dopoguerra.
Chi ne parla, in queste 220 pagine ricchissime di immagini, è ovviamente innamorato del film, non un flirt di una sola visione, ma una cotta che continua, tanto che lo stesso Biondillo confessa di averlo rivisto un anno fa e di avere riscoperto le sue eterne radici fantastiche da Aladino ad Amleto. Così nasce la bell’idea di farlo scoprire anche a noi in mille angolazioni, compresa la corsa verso la periferia che spaventava tanto Gadda.
Già il titolo era uno e trino: Totò il buono si chiamava il racconto di Zavattini (fan delle riviste di Totò), I poveri disturbano fu il titolo mediano, ma poi vinse Miracolo a Milano. La questione era sempre il neorealismo en plein air, irriconoscibile, eppure reale fino nei fili d'erba, nei mattoni delle case, nei terrapieni ferroviari, paesaggi della desolazione che sono quelli di oggi, quando una notte del febbraio 1918 furono contate 2.608 persone senza fissa dimora: è eternità, non attualità. Eppure lo stesso Visconti parlava di poveri in stile fiabesco E aveva dubbi sulla commistione di realtà e romanticismo, querelle che poi ricadde sulle spalle di due suoi capolavori, Senso e Rocco e i suoi fratelli.
Qui c'è la Milano periferica della Ghisolfa che stava esplorando nei primi libri di racconti Giovanni Testori, cui dobbiamo un gioco di prestigio poetico su questi personaggi, ambienti e territori con la Gilda del Mac Mahon, la Mana Brasca, l'Arialda, fino a raccontare di un ragazzo che si droga sui gradini della stazione, punto di osservazione anche di un documentario di Giuseppe Bertolucci.
Rivedere il film di De Sica vuol dire anche pensare a cosa sarebbe successo dopo con il miracolo economico, la Milano da bere, con Bianciardi che nella Vita agra vuole far saltare il Pirellone (e Lizzani ne trae un bel film con Tognazzi), con la metropoli frequentata dal cinema: non solo Rocco, anche Olmi, Antonioni, Risi, Comencini, Monicelli, Soldini, Lattuada e Nichetti erede del fantastico zavattiniano. E ancora De Sica gira con la Loren, la Bolkan, perché era affezionato a Milano, dove laggiù negli anni Trenta fu protagonista di bestseller sentimentali di Camerini (Gli uomini che mascalzoni, Grandi magazzini) ed ebbe dopo la guerra memorabili serate teatrali, metti Il matrimonio di Figaro diretto da Visconti.
Impossibile riflettere tutte le suggestioni del libro: Gualtiero De Santi scrive di come il Berliner Ensemble, attratto dal sottoproletariato, mise in scena una vera riduzione del film, mentre Giorgio Tacconi racconta la discendenza linguistica e letteraria della parola barbone; così si analizzano le mutazioni geografiche dei luoghi (Paola Gasparri), le metamorfosi della periferia (Bianchi e Sassi), le ripercussioni nelle canzoni (Alessio Lega) dal Celentano che rimpiange la sua via Gluck a Gaber e Iannacci che raccontano dal vivo lo spirito della città. In Piazza Duomo troveremo in colbacco Totò e Peppino, ma non volano via, c'è perfino un vigile che controlla.
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