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Dick... sempre lui


di Daniele Cerchi


Spendere ancora parole in merito alle tematiche dickiane sembrerebbe quasi inutile, visto gli infiniti articoli apparsi in tutto il fandom, e dove bisogna ammetterlo Intercom ha dato un fondamentale contributo.

Qualcuno potrebbe obiettare e questo punto, cosa altro si può dire su Dick che non sia già stato scritto? In effetti, Dick pur appartenendo senza ombra di dubbio al "Gotha" della Sf, non è mai assurto a quei livelli di "popolarità" dei vari Asimov, Heinlein, Van Vogt ecc., ma, su un punto nessun collega ha superato Dick; infatti nessun altro autore di Sf è stato così analizzato, interiorizzato, psicanalizzato e criticato come lui. Per tutto questo, credo che su Dick si possa ancora scrivere costruttivamente senza ricadere nelle banalità di rito, nei necrologi iperelogiativi e senza sfoggiare linguaggi astrusi e inflazionati da -ismi e -zioni ecc..

Per questo articolo ho preso in esame un’antologia di brevi racconti di Dick, apparsa in Italia tre anni fa, che pomposamente (o per meglio dire, per i soliti motivi di cassetta) s'intitola "Il meglio di Philip Dick" (The best of Philip K. Dick, 1977).

A prescindere dal contenuto estrinseco dei racconti, l'antologia presenta validi spunti nell'introduzione scritta da un altro "big" della Sf: John Brunner ~ seppur breve non ha quei toni retorici e sperticatamente "ruffiani" (per intenderci stile Malaguti/Libra), per l'autore e, naturalmente, per l'editore.

Brunner, invece, coglie alcuni punti fondamentali della letteratura dickiana.: "… il mondo di Dick è raramente un mondo piacevole. Il più delle volte è desolato… chiamate, e vi risponderà un eco ... "; "... lui ha avuto degli imitatori, come era logico aspettarsi. Ciò che non ha è una “scuola" o dei 'colleghi', nel senso di far parte di un gruppo la cui produzione ha qualcosa in comune. Dick non è soltanto un solitario, ma anche unico…".

Altra piacevole sorpresa è il personale commento fatto da Dick ai suoi racconti.

L'antologia copre più di un ventennio di produzione, dal primo racconto pubblicato di Dick, si sale dagli anni '50 fino a racconti scritti nella metà degli anni ‘70. È certamente difficile giudicare i migliori, certo si potrebbe affermare pignolescamente che i primi: "Ora tocca al Wub", "Ruug", risentono ancora di una certa ingenuità letteraria, ma come non potrebbero esserlo?

Comunque, dovendo citarne alcuni ho optato per quelli che a mio personale giudizio sono i più rappresentativi. L’amara constatazione di una guerra sempre più tecnologizzata e quindi sempre più disumana di "Modello due", la beffarda morale di una cronaca del dopobomba di "I giorni di Perki Pat" (questo racconto e il seguente sono vivamente dedicati agli illusi fanatici dei rifugi atomici), la cristallina logica "made in U.S.A." consumistica di "Forster, sei morto", il sottile messaggio ecologico che traspare da "Autofac", ma in Dick c'è posto anche per i sentimenti, l'amore, l'umanità (nel senso più ampio del termine) non ha confini: "Umano è", il messaggio propriamente politico è in "La fede dei nostri padri" dove la cruda analisi di un "socialismo dal volto disumano" non riesce a togliere la fiducia in un mondo migliore, ma dove appare, in tutta la sua ampiezza, la "weltanshauung" dickiana è in "Le formiche elettriche":

".. la mia realtà soggettiva è tutto ciò che conta per me. La realtà oggettiva è una costruzione sintetica riguardante un'ipotetica universalizzazione di una moltitudine di realtà soggettive… "

Qui, il solipsismo dickiano è evidente. Molte sono state le analisi solipsistiche sulla realtà soggettiva/oggettiva. Berkeleye e Malebranche per conciliare il loro soggettivismo con un universo apparentemente oggettivo, ritenevano indispensabile il ricorso e di conseguenza l’esistenza, di un Dio, che "vedendo" tutto potesse allargare la realtà oggettiva a tutto l’universo.

In Descartes il solipsismo ha funzione metodologica: l'"ego" deve rifarsi alle proprie evidenze interiori per acquisire una base indubitabile da cui far scaturire poi la dimostrazione razionale dell'esistenza del mondo.

In Husserl, invece, il problema è capovolto: l'intersoggettività sarebbe originaria e fondante rispetto alla soggettività individuale (proprio tornando in sé l'io si scopre costituito dagli altri io).

Dick non analizza il suo solipsismo, lo "vive", vive un dramma, la scoperta di un trauma. Ed è significativo come sia in "Le formiche elettriche", che nel più famoso "Ubik, mio signore" non esista soluzione, né tantomeno l’hollywoodiano "happy end", ma solo un gigantesco punto interrogativo, il nulla, l'oblio o, usando le stesse parole di Dick " ... la conclusione di questa storia mi ha sempre atterrito... l'immagine del vento che sibila, il rumore del vuoto. Come se il protagonista udisse quello che sarà il destino finale del mondo stesso…".

Non a caso, ho citato, a riguardo di Dick, un discreto numero di filosofi (forse attirandomi le ire di qualcuno per questo accostamento tra il "sacro" e il "profano").

Per me, Dick è senz'altro un filosofo mancato solo per una questione di coordinate spaziotemporali. Non è difficile immaginare un universo parallelo in cui Philip K. Dick sia nato nel '700, '800, possibilmente in una cultura mitteleuropea, e di conseguenza forse in questo momento studenti su ponderosi libri di storia della filosofia stanno studiando la vita e le opere d Philip K. Dick, come non invidiarli?






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