Spielberg fa rivivere i mutanti di Philip Dick
di Carlo Formenti
Storia d'una passione a lungo respinta e infine corrisposta, ma quando era troppo tardi: Philip Dick, geniale autore di fantascienza che non ha mai amato il lieto fine, avrebbe apprezzato questa definizione del suo rapporto con il cinema. Quanto lo avessero amareggiato i rifiuti subiti negli anni '60, durante i quali scrisse diversi abbozzi di sceneggiature nell'inutile tentativo di sollecitare l'attenzione di produttori e registi, lo si intuisce, del resto, da un articolo dell'81, uscito quando il romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? era ormai vicino a trasformarsi, con il titolo Blade runner, nel film cult di Ridley Scott.
Dick si lamenta dei portentosi effetti speciali, che con il loro impatto visivo rendono superflue le trame narrative, e ironizza sulla sceneggiatura, realizzata senza il suo contributo: «il mio romanzo diventerà una livida accozzaglia di androidi in scadenza che uccidono gli umani nel mezzo di un caos mortale; al confronto, il mio libro risulta noioso». Ma in un'intervista rilasciata dopo aver assistito alla proiezione del film, il giudizio si rovescia: «È la cosa più meravigliosa che abbia mai visto», dice Dick, che poi riabilita gli effetti speciali, che evocano alla perfezione il futuro da lui immaginato, e la nuova sceneggiatura, che riesce a completare il romanzo pur ignorandone molti aspetti (le parole esatte sono che film e libro «si rinforzano a vicenda»).
L'intervista (inedita in Italia) è inserita nell'antologia Rapporto di minoranza e altri· racconti, che Fanucci si prepara a mandare in libreria parallelamente al lancio, previsto a fine mese, del film di Steven Spielberg Minority Report (tratto da un omonimo racconto del 1956), un evento che offrirà nuovi spunti di riflessione sul fecondo "rapporto postumo" fra Dick e Hollywood. Postumo perché Dick, morto nell'82, non fece in tempo a godersi il successo di Blade runner, né a vedere i successivi quattro film ispirati ad altrettanti suoi racconti: Total Recall ('90) di Paul Verhoeven, tratto da We Can Remember it For You Wholesale ('65), Screamers ('95) di Christian Duguay, tratto da Second Variety ('53), Impostor, (uscito la scorsa estate), di Gary Fleder, tratto dall'omonimo racconto del '53, e l'appena citato Minority Report che vedremo presto nelle nostre sale.
Raccogliendo in volume i racconti «cinematografici» di Dick, Fanucci regala ai fan dello scrittore l'opportunità di rileggerli e metterli a confronto con i rispettivi film, prima di vedere il nuovo lavoro di Spielberg. Un esercizio che permette di mettere in luce come il cinema abbia scommesso soprattutto su tre temi che percorrono tutta l'opera dickiana: la crescente difficoltà di distinguere fra vita naturale e vita artificiale, la pervasività di un potere politico capace di manipolare il corpo, la mente e la stessa personalità delle persone, lo sviluppo di forme di intelligenza artificiale dotate di sensibilità e coscienza tali da convincersi di essere a tutti gli effetti «umane». Dell'ultimo tema Dick andava molto fiero perché, come ribadisce nell'intervista sopra citata, lo riteneva la sola idea davvero innovativa da lui introdotta nel repertorio della fantascienza, un'idea che-appare già delineata in Impostor, un racconto del '53.
È forse soprattutto questo il motivo che indusse Dick ad amare Blade runner, visto che, fra le molte infedeltà del film nei confronti del romanzo, c'è appunto quella di accentuare a dismisura il "desiderio di umanità" dei replicanti.
E per lo stesso motivo gli sarebbe piaciuta versione cinematografica di Impostor realizzata da Gary Fleder, che descrive l'angoscioso sforzo del protagonista - un robot-bomba inviato dagli alieni per sostituire uno scienziato terrestre - di dimostrare la propria identità umana. Fra l'altro, Impostor, benché assai meno bello di Blade runner, ha il merito di non avere inventato un improbabile lieto fine, con relativo trionfo della madre patria terrestre, una scelta che, in tempi di «guerra al terrorismo», deve avere contribuito non poco all'insuccesso di pubblico (da noi è rimasto nelle sale meno di due settimane).
Meno gli sarebbero piaciuti Total Recall, nel quale Verhoeven diluisce l’idea del racconto (l'innesto di una falsa memoria subito dal protagonista) in una sorta di fumettone barocco, e Screamers, che pur essendo il più fedele al racconto originario (variante sul tema degli androidi sfuggiti al controllo umano) è decisamente un B movie. Se lo avesse visto, Dick si sarebbe forse definitivamente convinto che il matrimonio fra letteratura e cinema funziona solo se fondato fin dall'inizio sul tradimento: solo così, per usare le sue stesse parole, film e libri si rafforzano a vicenda.
All’insegna del tradimento fecondo, come avranno presto modo di verificare i lettori, si muove del resto anche Minority Report, che affronta un tema scottante in tempi di massimo allarme contro la criminalità (non a caso il film è ipercitato negli articoli dei giornali americani di area liberal, a proposito dei rischi di degenerazione poliziesca legati alle leggi antiterrorismo). La storia descrive un regime il quale, grazie al talento di tre mutanti precognitivi, arresta i criminali «prima. che essi possano commettere delitti, con genera la soddisfazione di tutti finché nascono seri dubbi in merito all'attendibilità delle previsioni.
In discussione è insomma qui l'idea stessa di libero arbitrio (per chi conosce il futuro, come insegna il mito di Edipo, nessuna libertà è possibile), sottoposta alla sfida del pessimismo ontologico di Dick: la libertà è impossibile perché non appena ci emancipiamo dalle manipolazioni del potere scopriamo che dietro a quel potere ce n'è sempre un altro, in. un infernale gioco di scatole cinesi. Il film «tradisce» Dick, lasciando intravedere una via di fuga, come avviene del resto in altri film "dickiani" benché non tratti dalle sue opere (da Essi vivono di Carpenter, ai più recenti Dark City di Proyas e Matrix dei fratelli Wachowski), ma lo scrittore ne avrebbe ugualmente apprezzato la denuncia nei confronti del cinismo del potere.
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