Quando Philip Dick era no global
di Carlo Formenti
Trentacinquesimo dei quarantacinque volumi previsti dalla Collana Dick di Fanucci (lo storico editore romano di fantascienza detiene i diritti esclusivi per l’Italia sulle opere di Philip K. Dick, delle quali è ormai prossimo a completare l'edizione critica), Voci dalla strada non è un romanzo di genere, ma appartiene alla schiera delle opere mainstream rifiutate dagli editori quando il grande scrittore americano era ancora in vita, che vengono oggi «riscoperte» sull'onda del suo crescente successo «postumo».
Con Voci dalla strada, tuttavia, ci troviamo di fronte a un vero e proprio caso letterario, a un lavoro singolare che si discosta decisamente da altri tentativi del giovane Dick di accreditarsi come scrittore «serio», Scritto fra il '52 e il '53, quando l'autore aveva solo venticinque anni, il romanzo - pubblicato per la prima volta l'anno scorso da una piccola casa editrice di New York - appare molto diverso anche da Il paradiso maoista, un lavoro praticamente coevo «ripescato» qualche anno fa, nel quale già si possono trovare molti presagi del Dick «visionario» degli anni Sessanta e Settanta, inesauribile fonte di ispirazione per il grande cinema, di fantascienza Come mette in rilievo Carlo Pagetti nella introduzione, qui siamo piuttosto in presenza di un'opera di ispirazione realista, se non addirittura «naturalista», caratterizzata da descrizioni ossessive, al limite del maniacale, di oggetti, vestiti, arredi, paesaggi e stati d'animo dell'America degli anni Cinquanta; una galleria di appunti gelidamente analitici che, volendoli tradurre in immagini, richiamano le atmosfere di certi quadri di Edward Hopper.
Uno stile tutt'altro che «facile», insomma, per non dire scostante, che, unitamente alle dimensioni del testo (che sfiora le cinquecento pagine, dimensione insolita per un autore che non sarebbe mai più stato così prodigo) e a certi "peccati di gioventù", come le frequenti ripetizioni, può rendere faticosa la lettura a chi ami i ritmi sincopati della fiction contemporanea, e forse anche a molti fan del Dick «maturo». Se quest'ultimi avranno nondimeno la pazienza di sopportare certe lungaggini, saranno premiati dalle numerose «pepite» che affiorano qua e là, aprendo squarci sul Dick a venire.
Troveranno già, per esempio, molti dei grandi motivi del Dick «politico»: come la inarrestabile avanzata delle grandi catene commerciali che minacciano di schiacciare i dettaglianti (destino che minaccia il negozio di apparecchi radio e televisivi in cui lavora il protagonista Hadley, che rivela così la sua natura di «alter ego» di Dick il quale svolgeva a quei tempi la stessa attività): oppure come il pericoloso scivolare di un'America intrisa di razzismo e anticomunismo viscerali (sono gli anni della Guerra di Corea e di McCarthy) verso regimi autoritari (un tema che troverà pieno dispiegamento nel romanzo-capolavoro La svastica sul sole); o infine come il proliferare di profezie millenariste che tentano di dare senso a un mondo angosciato dagli incubi di un futuro carico di incertezze (la setta del reverendo Beckheim, un nero che, mentre annuncia l'imminente apocalisse nucleare, la descrive paradossalmente come un'occasione di palingenesi religiosa, evoca il derisorio culto del «Mercerismo» che verrà descritto nel più famoso romanzo di Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). Ne mancano significative anticipazioni di alcune ossessioni tipiche della psicologia (o meglio, della patologia psichica) dickiana, Succube della bellissima sorella, nella cui immagine si specchia narcisisticamente, incapace di apprezzare l'affetto e la fedeltà «mediocri» della moglie, ambiguamente attratto da una donna più vecchia di lui, una gelida intellettuale destrorsa, Hadley ha i difetti dei tipici antieroi dickiani: debole e velleitario ad un tempo, ma soprattutto incapace di coltivare un talento artistico in cui è il primo a non avere fiducia (nella frustrazione di Hadley in quanto pittore mancato, vediamo rispecchiata quella di Dick che, a mano a mano che gli editori ne respingono le opere «serie», teme di doversi rassegnare al proprio destino di scrittore di genere - di "artista di merda", come reciterà il titolo di un altro famoso romanzo).
Ma soprattutto non mancano gli squarci di follia visionaria: dal delirio paranoico che afferra il protagonista di fronte allo spettacolo di una notte stellata, spettacolo in cui crede di riconoscere la gelida indifferenza dell'universo per le umane vicende, all'atmosfera surreale di certi dialoghi, che improvvisamente «deragliano», rivelando la totale incapacità dei personaggi di ascoltarsi a vicenda, se non addirittura di condividere un linguaggio comune.
Del resto, Dick non avrebbe mai smesso di credere che la follia risieda, prima che nella mente e nel cuore degli uomini, nella struttura stessa di un universo sempre sul punto di collassare: "Tu senti - come dice una donna conversando con il protagonista – di solito senti che le cose stanno andando in pezzi?"
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