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La fantascienza di Philip K. Dick in un saggio di Francesca Rispoli


di Ilaria Biondi


Il brillante studio di Francesca Rispoli (Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick, Milano, Mondadori, 2001) si inserisce, come la stessa autrice precisa nel capitolo d'apertura, nel recente movimento di scoperta dell'opera dickiana che si registra nel nostro paese, testimoniato dalle riedizioni italiane dei suoi scritti (nuove traduzioni e introduzioni critiche), dalla pubblicazione di inediti e dall'organizzazione di un Convegno internazionale interamente dedicate a Dick, tenutosi nel 2000 presso l'Università di Macerata.

Tale impresa è da ascriversi in massima parte a Carlo Pagetti, vero pioniere degli studi su Dick in Italia.

Quest'opera ha il grande merito di ricostruire, con chiarezza espositiva, esaustività e dovizia di particolari la produzione dickiana, con un occhio sempre attento ai moventi personali che ad essa sono strettamente connessi; si cercherà di dare conto di questo testo fornendo qui di seguito una sintesi delle varie sezioni di cui e composto.


La formazione culturale di Dick: filosofia e teologia

Il saggio esordisce con un capitolo a carattere biografico, che rintraccia gli eventi salienti della Tormentata esistenza delle scrittore americano, mettendo in luce in articolare la difficile situazione familiare, come risultante della morte prematura della sorella gemella, del divorzio dei genitori e della conseguente perdita di contatti con la figura paterna, l'insorgere di disturbi psicosomatici, poi trasformatisi in vere e proprie fobie, la poliedrica e asistematica formazione culturale, in cui la filosofia e la teologia costituiscono una costante, la precoce passione per la scrittura, probabilmente alimentata dalla madre, grande amante della letteratura. La studiosa rileva inoltre giustamente quanto sia stato lento e difficoltoso il processo di consacrazione dell'opera dickiana nel panorama letterario americano, mettendo in evidenza lo scarto temporale che sussiste tra l'inizio della sua carriera artistica (Dick diventa scrittore di professione nel 1951 e comincia a pubblicare a metà degli anni cinquanta) e i riconoscimenti ricevuti da parte della critica (il primo dei quali è rappresentato dal numero monografico che "Science Fiction Studies", la più importante rivista americana di critica letteraria dedicata alla Sf, riserva nel 1975 alla sua produzione e alla sua poetica).

Il secondo capitolo, come recita il titolo (Il sogno della realtà oggettiva e l'ineludibile natura soggettiva di qualsiasi realtà: la fantascienza di Philip K. Dick) si occupa invece della definizione della fantascienza dickiana, il cui fulcro risiederebbe, secondo l'autrice, nella dicotomia tra il sogno e il desiderio di una realtà oggettiva, logica, razionale, ordinata e stabile e l'inevitabile amara presa di coscienza della natura soggettiva di qualsivoglia realtà. I personaggi che si muovono nei romanzi e racconti di Dick sono puri simulacri, attori inconsapevoli di uno spettacolo che essi concepiscono erroneamente come vita autentica, vittime di un'allucinazione collettiva che viene imposta loro da singoli individui o da gruppi di potere (quelli che la Rispoli, con felice espressione, definisce i "creatori di pseudouniversi"). Questa loro illusione è però destinata ad infrangersi e ad essere sostituita dalla lucida e dolorosa consapevolezza della frammentarietà, della mutabilità e del caos della realtà, in cui ogni coordinata e ogni chiaro punto di riferimento vengono meno; ecco allora che l'universo in cui vivono comincia a "cadere a pezzi", sgretolato inesorabilmente dalla forza entropica. Il personaggio cui va la simpatia di Dick e che ai suoi occhi incarna l'essere umano "autentico" è quello che, a prezzo di enormi sforzi, riesce a mantenersi in precario equilibrio, evitando sia di soccombere alla frantumazione e alla dissoluzione del reale che di cedere all'impulso di creare universi alternativi e psicotici.

La complessità delle trame è sorretta da una struttura narrativa attentamente sorvegliata, in cui emergono soprattutto due artifici formali: la molteplicità dei punti di vista, che rende evidente il sovrapporsi dei numerosi universi paralleli e alternativi generati dai diversi personaggi, e il finale "aperto", che esprime la volontà dello scrittore di astenersi dal pronunciare un giudizio definitivo sulla realtà, atteggiamento che lo configura come un "cercatore" eternamente insoddisfatto. La Rispoli evidenzia infine come Dick, la cui concezione della società come cumulo di realtà artificiali anticipa e precorre il dibattito post-modernista, si discosti invece da un punto di vista strettamente formale dal post-modernismo stesso: la sua è infatti una Sf che, per quanto rinnovata e trasformata, continua a privilegiare scenari tradizionali e rinuncia ad ogni decostruzione e sperimentalismo linguistici.

Nei cinque capitoli successivi vengono analizzati i diversi tipi di universi che "cadono a pezzi", come evidenziano suggestivamente anche i titoli degli stessi. Il terzo capitolo (L 'universo caduto a pezzi. La realtà che non esiste ovvero l'illusione del reale) mira a chiarire, attraverso l'analisi di alcuni romanzi, come si delinea la pseudorealtà messa in scena dall'autore, la quale altro non è se non la rappresentazione metaforica e straniata dell'ambiente empirico di partenza, ovvero la società contemporanea. La Rispoli si concentra in modo particolare su Ubik, romanzo del 1966 che ruota attorno alla rappresentazione della forza entropica della legge di mercato, della globalizzazione, del capitalismo (tematica che Dick, con spirito anticipatore, affronta già un decennio prima, nel 1954, all'interno del romanzo Solar Lottery). Quello descritto è un mondo vittima di un inarrestabile deterioramento, in cui gli uomini si dibattono inutilmente nel vano tentativo di comprendere i motivi di tale progressiva distruzione, e in cui lo stesso creatore, il supremo Ubik, grottesca e patetica metafora della divinità, e incapace di fare fronte a tale processo di decadimento ed è sottoposto alle rigide leggi di mercato al pari di qualsiasi altro individuo (esso si manifesta infatti attraverso uno slogan pubblicitario e agisce sotto forma di bomboletta spray!). Il romanzo decreta dunque la "morte di Dio" e con esso anche quella di un principio razionale che regoli l'universo. Nemmeno la fuga su un altro pianeta sembra poter rappresentare per Dick una forma di salvezza, un mezzo per sottrarsi ad un tale ambiente caotico, disumanizzante e alienante, come ci insegna Martian Time-Slip (1964), in cui il capitalismo che avanza è destinato a creare anche su Marte la stessa atmosfera irrespirabile che ha avvelenato la Terra. Doctor Bloodnsoney (1963), pur mettendo in scena la catastrofe che fa seguito allo scoppio di un terzo conflitto mondiale, è invece animato da una flebile speranza: il romanzo, che racconta il difficile adattamento di alcuni sopravvissuti a un mondo che è mutato drasticamente e tragicamente, focalizza l'attenzione soprattutto sullo slancio solidale che anima questo gruppo (in contrasto con il doloroso isolamento di un astronauta che, ormai impossibilitato a tomare sulla Terra, è costretto a vagolare eternamente nell'universo, emblema e vittima di una tecnologia sofisticata eppure inutile).


L'arte come demistificazione del reale

Nel quarto capitolo (Universi che cadono a pezzi. L'illusione del potere) l'autrice indaga un particolare tipo di pseudouniverso, quello generato dai gruppi di potere.

Il primo romanzo preso in considerazione è il rappresentativo The Man in the High Castle (1961), che narra di un universo alternativo, in mano ai nazisti e ai giapponesi, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, i quali impongono con durezza e violenza alla massa inerme il loro sistema ideologico totalizzante, che si prefigge di creare un ordine assoluto nel mondo. In questo romanzo la tecnica della prospettiva multifocale raggiunge esiti straordinari, dando vita ad un vero e proprio racconto corale, in cui ogni personaggio esprime la sua personale (dunque relativa) visione del mondo. Il romanzo è particolarmente esemplificativo perché, oltre a riflettere sul potere di creare la realtà (il potere, incarnato da nazisti e giapponesi, che impone la sua rigida visione sulla realtà), si occupa altresì del potere che sta alla base della creazione artistica, "intesa come potenziale mezzo di demistificazione del reale." (p. 59) Tutti i personaggi, occupati e occupanti, leggono un romanzo di fantascienza (scritto da un certo Abendsen) che descrive un presente alternativo, non dominato dagli attuali vincitori bensì dagli Usa, che grazie al sodalizio tra potere politico e tecnologia sono riusciti ad imporre la loro cultura a tutto il globo; quello descritto in questo "romanzo nel romanzo" non è un mondo ideale, bensì un mondo alienante e angoscioso. Tale libro, in quanto appunto romanzo di finzione, è nella fattispecie di science fiction, non racconta la realtà eppure riesce a metterne in luce alcuni aspetti determinanti; in particolare esso mette in evidenza che "la realtà è un'illusione finché non se ne accetta la natura relativa, e [che] in qualsiasi universo immaginato dalla mente umana, ogni scelta individuale non può essere compiuta senza difficolta e sofferenza" (p. 61). Il racconto di Abendsen è dunque "reale", perché rivela che la natura più vera e più profonda delle forze che agiscono nel suo romanzo è simile alla natura delle forze che agiscono nel mondo esterno (la Terra in mano a nazisti e giapponesi), per quanto esteriormente e superficialmente i due mondi appaiano così diseguali. The Man in the High Castle è dunque un metaromanzo, che riflette sottilmente sul romanzo di Sf come potente strumento cognitivo, come mezzo di esplorazione e rappresentazione "realistica" della società contemporanea. Il romanzo di Abendsen fa inoltre uscire allo scoperto una scomoda e inaccettabile verità: anche un governo apparentemente democratico come quello americano è in realtà fondato su metodi dittatoriali (l'America qui tratteggiata è infatti uno stato di polizia a tutti gli effetti, in cui ogni individuo è sottomesso a sua insaputa al più rigido controllo).

Dopo la puntuale analisi di questo romanzo, la Rispoli propone al lettore un corpus di opere in cui l'autore non si limita a descrivere questo tipo di società bensì tenta anche di valutare quali siano le possibilità di abbattere un tale sistema attraverso l'azione di un gruppo rivoluzionario. In Counter-Clock World (1967) il rivoluzionario gruppo denominato Udi si contrappone alla Biblioteca, ente depositario di tutte le informazioni che riguardano questo atipico universo, in cui il tempo si muove in direzione contraria. I progetti messi in campo da questa associazione, che contiene diretti riferimenti all'antisistemico Black Power (negli scritti di Dick si respira spesso un'eco dell'atmosfera californiana dell’epoca, soprattutto dell'aspirazione ad una rivoluzione culturale e alla formazione di una società basata sull'uguaglianza e la fratellanza), e da Thomas Peak, il profeta da essa invocato, figura a metà strada tra Martin Luther King e Cristo, sono però destinati ad andare incontro a un pietoso fallimento; tale pessimistico epilogo denuncia implicitamente l'ambivalente nonché lucido atteggiamento di Dick nei confronti dell'idealismo rivoluzionario, che rappresenta indubitabilmente il mezzo più idoneo a produrre un cambiamento nel sistema vigente ma che, una volta applicato, è suscettibile di irrigidirsi in una visione fanatica e violenta.

Medesimo cinismo si riscontra anche in The World Jones Made (1964), romanzo che propone due diverse alternative (l'etica individualistica, che impedisce qualsiasi forma di unione fraterna, e la società totalitaria generata dall'adesione di massa ad un ideale fasullo e inconsistente) per poi negarle e ricusarle entrambe come impossibili e inadeguate. In quest'opera Dick da voce anche alla sua personale visione dell'anticomunismo: il governo americano avrebbe avuto la necessità, secondo lo scrittore, di creare un nemico comune (il comunismo, appunto) per mantenere il controllo su una società fortemente individualista e per giustificare la presenza e l'esistenza sul suo territorio di una polizia segreta. In The Zap Gun (1963) Dick si spinge oltre e arriva a rappresentare la Guerra Fredda come un gigantesco imbroglio interplanetario ordito dai governi dei due blocchi che solo apparentemente sarebbero contrapposti e nemici ma che in realtà controllerebbero il mondo insieme, di comune accordo.

Qualcosa di analogo si ravvisa in The Penultimate Truth (1964), romanzo che narra dell'ennesimo gruppo di potere che crea un'illusione di realtà per perseguire i propri biechi scopi. In questo mondo il conflitto tra i due blocchi è finito da tempo ma l'oligarchia dominante si guarda bene dal farlo sapere alla massa inconsapevole per potersi godere un pianeta sottopopolato e tranquillo, cosicché la popolazione, vittima di un'orrenda mistificazione, continua a vivere in rifugi sotterranei convinta che in superficie si stia combattendo una guerra senza quartiere. Tale pseudorealtà, che obbliga la gente a vivere sottoterra, si materializza su uno schermo televisivo: qualcosa di simile accade in The Simulacra (1963), in cui la finta realtà, mesa a punto dal governo per agire indisturbato da qualsiasi ingerenza da parte del popolo, viene "trasmessa" ogni giorno dalla televisione. In questa società sono tutti teledipendenti e considerano più reale ciò che appare sullo schermo di ciò accade nella loro vita quotidiana.

Come in The Man in the High Castle, anche in questo romanzo spetta all'arte il delicato compito di svelare la natura artificiale e fittizia della realtà (l'esecuzione musicale alla Casa Bianca, ad opera di due umili quanto inconsapevoli musicisti e di un pianista con poteri paranormali, provocherà una rivolta popolare che distruggerà definitivamente il governo al potere). La conclusione amara alla quale si giunge leggendo questi romanzi, come rileva Francesca Rispoli, è che questi universi totalitari artificiali possono essere distrutti e abbattuti ma non possono essere sostituiti da nessuna forma di universo stabile e razionale.


La meccanizzazione della nostra società

Nel quinto capitolo (Universi che cadono a pezzi. Quando l'universo dei propri sogni diventa un incubo) viene messo in luce come anche il privato cittadino, se costretto a vivere in un mondo caotico, instabile e indifferente, possa essere animato dalla stessa smania di controllo che contraddistingue i gruppi di potere, smania che si estrinseca nella creazione di pseudouniversi, quale manifestazione concreta di un'individuale allucinazione psicotica (destinata però a coinvolgere, loro malgrado, anche altri esseri umani). In Eye in the Sky (1955) - ad esempio, si sovrappongono quattro mondi alternativi, ognuno dei quali, avente una propria struttura socio-politica, ideologica e culturale, è un perfetto modello di distopia.

Questi quattro universi creati dalla mente, all'interno dei quali il creatore gode di un potere assoluto e illimitato, metaforizzano la tendenza tipicamente umana ad imporre agli altri, spesso con la forza e la violenza, il proprio punto di vista, la propria personale visione del mondo. Anche in Time Out of Joint, romanzo del 1958, Dick mette a nudo la fragilità e precarietà di un universo (il tranquillo e familiare scenario descritto nell'incipit) che altro non è se non la proiezione illusoria della mente, e descrive il suo inevitabile e ineluttabile "cadere a pezzi".

Francesca Rispoli ha però anche cura di rimarcare l'atipicità di questo romanzo, uno dei pochi nel panorama della produzione dickiana in cui l'allucinazione diventa paradossalmente strumento di demistificazione e conoscenza del reale. In Maze of Death (1968) non è presente la tecnica della narrazione multifocale, tipica di molti romanzi dickiani a partire dagli anni Sessanta, tuttavia il racconto costruisce una realtà strutturata attraverso più punti di vista (espediente formale che simboleggia l'impossibilità per i personaggi di stabilire una comunicazione autentica e profonda fra loro, essendo ognuno arroccato sulle proprie posizioni).

Il romanzo, uno dei più cupi e pessimistici di Dick, sancisce infatti il fallimento di un insieme di individui, che si rivelano incapaci di costruire una società fraterna e solidale, poiché rimangono caparbiamente prigionieri del proprio mondo privato, alieni da qualsiasi forma di contatto e interazione con l'esterno.

Nel sesto capitolo (Individui che cadono a pezzi. L'uomo-macchina) la Rispoli si concentra ora su quei romanzi che descrivono una società talmente artificiale e meccanica (quale esito ultimo di una completa globalizzazione capitalistica) in cui gli individui, ridotti allo stato di uomini-macchina, sono soggetti ad una forte sofferenza psichica, che degenera sovente in schizofrenia. In questo tipo di romanzi e racconti a "cadere a pezzi" non è la realtà alternativa, il mondo esterno, bensì la psiche umana, nel momento in cui l'individuo viene posto di fronte all'aberrante possibilità di essere una creatura artificiale. In Second Variety (1953) ad esempio è alquanto problematico e difficoltoso, tanto per i personaggi quanto per il lettore, distinguere tra umano e artificiale poiché il punto di. vista degli androidi è posto sul medesimo piano di quello degli uomini. The Electric Ant (1969) dal canto suo descrive il tragico cammino di Garson Poole, dal momento in cui questi prende coscienza di essere un androide (rivelazione che gli viene fatta dai medici che lo hanno operato, dopo che lui è stato vittima di un grave incidente), al momento in cui egli decide coraggiosamente di togliersi la vita, per evitare di continuare a condurre un'esistenza di finzione, dimostrando in questo modo che una libera scelta, per quanto estrema e radicale, è ancora possibile. Do Androids Dream of Electric Sheep? (1966) gli androidi sono rappresentati invece come creature gelide, totalmente prive di emozioni e sentimenti. Un elemento fondamentale accomuna però questo romanzo con il precedente: anche in questo scenario cupo, vittima dell'entropia, androidi ed esseri umani non sono facilmente distinguibili, poiché il processo di alienazione ha portato gli uomini a diventare progressivamente delle creature sempre più artificiali. L'incontro con gli androidi è in certa misura "salutare" perché consente agli uomini di aprire gli occhi e di rendersi conto di quanto la loro vita, lungi dall'essere libera, è invece guidata da scelte obbligate. A tale presa di coscienza può fare seguito una duplice reazione: il difficile e doloroso adattamento allo stato di co se oppure il rifiuto radicale dell'inaccettabile verità, destinato a condurre l'individuo alla scissione schizofrenica. In Martian Time-Slip; cui si è già precedentemente accennato, gli androidi fungono da metafora dell'elevato processo di meccanizzazione della nostra società, avente come diretto corollario la negazione totale della vita, laddove in We Can Build You (1972) essi si distinguono per il loro atteggiamento schiettamente umano, contrapponendosi così agli esseri umani (rappresentati da Pris Frauenzimmer), che si comportano invece in modo meccanico e distaccato (in questo romanzo si ribalta dunque la situazione: paradossalmente sono gli androidi ad essere i "veri" uomini e gli uomini le "vere" creature artificiali).

Il settimo capitolo (Individui che cadono a pezzi. Droghe allucinogene e schizofrenia) illustra quella parte della produzione dickiana che si interroga su un particolare tipo di incapacità dell'individuo a distinguere tra realtà e illusione: non quella cioè che deriva, come nei casi precedentemente visti, dall'esposizione a un ambiente rigido e alienante, bensì quella che costituisce la "normale" condizione esistenziale di chi vaga nell'universo allucinato prodotto dall’assunzione di sostanze chimiche. La Rispoli si sofferma in modo particolare su The Three Stigmata of Palmer Eldritch, sottolineando come il romanzo abbia più di ogni altro contribuito a consolidare il mito del Dick scrittore che compone sotto l'effetto di sostanze psichedeliche. La studiosa non manca però di rilevare come lo stesso Dick abbia in più occasioni condannato l'esperienza allucinatoria indotta dall'Lsd, mosso non certo da presupposti moralistici bensì dalla lucida consapevolezza circa la pericolosità della stessa (trattasi infatti di un processo che conduce l'individuo ad esperire un mondo completamente chiuso, non condivisibile, analogo al mondo degli schizofrenici più gravi). A Scanner Darkly (1975), che tratta apertamente il problema della dipendenza dalle droghe, è un romanzo che trascende il genere fantascientifico ed è fortemente legato al dato autobiografico (il romanzo è dedicato a tutti quei giovani che, agli inizi degli anni Settanta, Dick aveva ospitato in casa sua, trasformata in una sorta di comune, e che in seguito all'abuso di droga erano andati incontro ad un triste destino, di follia o di morte). L'excursus si conclude con l'accenno a Flow My Tears, the Policeman Said (1970), in cui l'universo allucinato generato da una particolare sostanza chimica viene fatto "cadere a pezzi", romanzo interessante però anche per l'acuta riflessione sul tema della sofferenza, quale strumento che trasforma in positivo il protagonista e quale riflesso del disagio esistenziale che, agli inizi degli anni settanta, pesa sullo stesso Dick come mai prima d'allora.


L'apertura ad un ordine stabile e razionale

Nel capitolo ottavo (Quando "Dio" diventa personaggio) la studiosa illustra in che modo la divinità entra nel mondo romanzesco dickiano, creando un netto discrimine tra la produzione che arriva fino agli inizi degli anni Settanta (presa in esame in questo capitolo), e quella successiva (analizzata nel capitolo nono), discrimine prodotto da una crisi personale estremamente dolorosa. Fino agli anni settanta Dick, come la Rispoli ha descritto con chiarezza nei capitoli precedenti, mette costantemente in scena un mondo caotico, frammentato in tante illusioni di realtà, in cui i personaggi si smarriscono. In questo universo alienante sembra esserci posto solamente per una divinità negativa (pensiamo a Palmer Eldritch, in The Three Stigmata of Palmer Eldritch, quale incarnazione del Male Assoluto) oppure, laddove venga concepita un'entità divina razionale, animata dal desiderio di porre rimedio al caos entropico del mondo empirico, questa è inevitabilmente raffigurata come un essere con limitato potere e con limitata capacita d'azione (si vedano Ubik, nell'omonimo romanzo, Thomas Peak in Counter-Clock World e l'alieno Glimmung in Galactic Pot-Healer, romanzo del 1968. Dick sembra dunque giungere alla conclusione che nessuna dottrina teologica, nessun sistema religioso sono in grado di applicare un ordine stabile e definitivo all'esistente, ad un mondo (il nostro) che cade inesorabilmente a pezzi. Dopo il 1974 la sofferenza psichica che tormenta Dick lo spinge a diventare lui stesso creatore di pseudouniversi, a creare una complessa teoria metafisica per reagire ad uno stato di totale incertezza in cui versa e che rischia di travolgerlo definitivamente.

Proprio nel nono capitolo (significativamente titolato 1974-1982. Le due anime di Philip K. Dick: costruire la realtà e falsificarla) la Rispoli, dopo avere enunciato le diverse concause che hanno trascinato Dick in uno stato di prostrazione psichica intensa (la situazione socio-politica americana e personali vicende dolorose), illustra, supportando la sua analisi con molteplici citazioni tratte in particolare dall'Esegesi, la complessa cosmogonia dickiana, che risponde ad un estremo bisogno, in una fase di acuta fragilità, di credere in un ordine stabile e razionale, di "abbandonarsi alla certezza che al di là delle molteplici realtà illusorie che costituiscono l'apparente struttura del nostro mondo si nasconda la vera realtà, la realtà assoluta." (p. 132) Dick formula dunque un'ipotesi completa ed esaustiva sull'ordine dell'universo e si convince che essa rappresenti la verità, cadendo cosi, paradossalmente, "nello stesso gioco dei costruttori di pseudouniversi descritti nei romanzi." (p. 134) Egli stesso presenta l'Esegesi come il risultato dell'avvenuto contatto con la divinità. I quattro romanzi che scrive successivamente (dal 1976 in poi) sono fondati sulle teorie e riflessioni sviluppate nell'Esegesi e danno voce alla dolorosa scissione interiore che invade la sua mente a partire dal 1974, scissione narrativamente resa attraverso la presenza di due personaggi e di due voci narranti. I romanzi sono, nell' ordine: Radio Free Albemuth (1976) e la trilogia formata da Valis (1978), Divine Invasion (1980) e The Transmigration of Timothy Archer (1981).

Nel decimo e ultimo capitolo (Philip K. Dick al cinema) Francesca Rispoli ripercorre brevemente la produzione cinematografica ispirata alla produzione dickiana, dal celeberrimo Blade Runner di Ridley Scott, film che Dick non vide perché morì anzitempo ma la cui sceneggiatura, che ebbe invece modo di visionare, lo deluse profondamente per la sua estrema superficialità, ad Atto di (orza, che la studiosa giudica interessante dal punto di vista degli effetti speciali ma privo dello spessore e della complessità che caratterizza invece il racconto dickiano che lo ha ispirato (We Can Remember it for You Wholesale), fino a Screamers. Urla dallo spazio, non supportato a differenza dei precedenti da una super produzione tipicamente hollywoodiana ma degno di attenzione per lo scrupolo con cui esso segue la fonte letteraria. La Rispoli accenna infine al film francese Confessions d'un barjo (1992) di Jérôme Boivin, adattamento cinematografico del romanzo di Dick Confessions of a Crap Artist (1959), precisando che si tratta di una produzione inedita in Italia. Questo film, pur non appartenendo al genere Sf, è in perfetta consonanza con lo spirito dickiano, poiché è pervaso dalla ricerca ossessiva di un significato logico nella realtà; la Rispoli lo definisce infatti un "film magico e consolatorio [che] riesce a trasmettere la difficoltà di comunicazione tra individui chiusi all'interno del proprio universo privato, incapaci di prendere in considerazione il punto di vista di chi li circonda." (p. 179)

Il saggio è corredato da un interessante e curioso documento (la lettera che Jean-Pierre Gorin, collaboratore di Godard tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, ha scritto in risposta all'e-mail della Rispoli, per offrire la sua versione dei fatti circa il “progetto Ubik”, ovvero il progetto, poi misteriosamente abbandonato, di trarre un film dall’omonimo romanzo di Dick), e da un’accurata bibliografia, in cui figurano le opere dell’autore, ivi compresi i testi inediti, ed una nutrita letteratura critica.






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