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Ubik come sublimazione dell'autonomia


di Domenico Cammarota


"I superstiti della vecchia generazione non hanno bisogno di note per comprendere." (Alberto Consiglio, "Crudeli cieli")


Anni di piombo, tempi duri, stato di guerra e senso della morte. È così! La consapevolezza che qualunque ideazione si riduca sempre a prodotto mercificato, alieno dalla originaria matrice creativa, estraneo alla vicenda del mondo, produce nei settori non ancora defunti della cultura contemporanea un profondo senso di vertigine, un estremo dolore masochista per la dimenticanza del SENSO del proprio essere. La storia più recente dell’Ubikuità si è mossa e continua a muoversi nella consapevolezza di questo dissenso.

Mancanza di moralismo (in senso nicciano), di dettagli rassicuranti, un darsi direttamente senza mediazioni parlamentaristiche o televisive, un rifiuto della realtà per un allargamento percettivo sui materiali che si sottopongono ai nostri sensi, una "immensificazione" (tipo guerra retrò Argentina - Inghilterra) cosciente del proprio stato emotivo, una necessità di essere piuttosto che spiegare o dare delle risposte alle classi disagiate in lotta.

Ecco allora il cinema di Wenders ed Herzog, le frigiderizzazioni dei ""Magazzini Criminali" la gestualità di Woytila, la proiezione all’esterno di situazioni inconsce (Berlinguer), mnemoniche (Craxi), fantastiche (Almirante…), il linguaggio DURO dell'azione, il "ritorno" alla natura degli ecologisti, il "gioco" di Quintet, azioni tutte svolte a creare un altro sé da sé, in cui rispecchiarsi o riconoscersi per un ampliamento gnoseologico non più su questi materiali "packed", sui mass media, sulle strutture sociologiche e kulturali, ma sull'individuo, o meglio, sull'individeo (l’Io portante della tecnologia post-moderna).

L'eversione visiva ha il problema lampante di OPERARE in base ad un niente affatto scontato procedimento "progressista-scientifico" del pensiero liberal-capitalistico. E opera una critica ed una "selezione" altrettanto scontate e prevedibili nei riguardi dell'industria culturale e dei suoi prodotti, creando nuovi strumenti di pensiero cibernetico che forniscono emozioni più forti, più profonde, più drastiche sul valore della vita, il tutto, di fatto, in una cornice di realtà (e l'ultimo conflitto nelle Falkland è stato condotto proprio come un vero e proprio torneo di Wargames).

Il Movimento Ubikuo, recuperando un'area inesistente, tenta quindi di creare una improduttiva alternativa allo strapotere della ragione, di quella ragione che, entropizzandosi, ha pianificato la realtà.

L’Ubikuità costituisce, perciò, un antidoto anfetaminico alla patologica crisi dell'immaginario.

Ma, ancora una volta, il "software" delle strutture neocapitalistiche e dell'industria culturale o post-moderna, hanno fagocitato ed assimilato le incursioni tentate. L'Ubikuità, infatti, proprio per il suo essere dovunque e in nessun luogo, nel momento in cui si oggettiva, in cui, ponendosi, si fa oggetto, inesorabilmente diventa una parte dell’ingranaggio, merce, oggetto di scambio, e perde la sua efficacia distruttiva.

Si è quindi, in senso critico, invertita la rotta; l'interesse si è spostato dall’oggetto al produttore, dal prodotto all'operatore culturale. Si è creduto, così, di sottrarre all'alienazione l’OPERA, il "prodotto artistico" (!). Allo spostamento dell’asse direzionale, naturalmente, non può che accompagnarsi il disprezzo globale dell'apparato tecnologico: rifiutiamo i suoi sistemi, le ideologie in adorazione, le immagini consacrate, per una ostentata volontà di randomizzazione.

È il caso delle Frequenze Barbare effettuate la primavera scorsa. Le Frequenze Barbare hanno drammaticamente marcato la circostanza che non è possibile un’autentica esperienza ubikua finché essa è esibita durevolmente alla fruizione. Il suo persistere, che dovrebbe assicurare la "partecipazione" e la comunicazione, è paradossalmente la sua morte. La sua temporalità (ubikua) è la sua contraddizione, appunto: l'oggetto artistico lentamente entra nella ragnatela della-domanda-e-della-offerta. L'unica alternativa, è dunque il "tempo corto", i tre o quattro minuti della performance. Al "tempo lungo" (talvolta si è parlato di immanenza) è subentrato l'effimero.

L’effimero è visto come "sublimazione del consumo" (Dada docet). Ha detto Baudrillard che non si tratta più di cambiare le forme lasciando intatto il sistema, ma di portare le forme intatte fuori dal sistema.

E con questa dolorosa consapevolezza, si parla di esibire progetti che non saranno mai realizzati, modelli di un comportamento ubikuo.

Si tratta in effetti di un'Ubikuità su Carta svincolata dai dettagli tecnici, senza compromessi coi capricci dei lettori, e libera delle esigenze dell'economia, della morale e del senso.

Tali progetti visionari offrono all’Ubikuità una opportunità di ricostruire il mondo come dovrebbe essere, e l’ubikuo è il mondo che l'Ubikuità - randomizzata o meno -realmente desidera cambiare.

Un’Ubikuità su carta, un'arte su carta, l’effimero: sembrano l’ultima possibilità per continuare ad esercitare la propria (limitatissima) libertà nei confronti delle strutture socio-economiche che anche noi contribuiamo a mantenere in vita. Una società in cui l'individuo è normalmente alienato, per il fatto di agire più o meno come tutti gli altri, è presa per sana. Le altre forme di alienazione che non stanno al passo con lo Stato di Alienazione predominante sono quelle che vengono etichettate dalla maggioranza normale come nocive e sovversive. Uno Stato che difende con le leggi e con le armi la sua "malattia" come alibi alla alienazione delle sue condizioni disumane.

L'Ubikuità, la randomizzazione intensiva e più in generale l’ipotesi di una autonomia che rompa l'involucro che la tiene a freno e espandendosi fino ad annullare il diaframma tra inner space ed outer space, sono tutti segni non casuali della profonda esigenza di stringere patti più duraturi ed agganci più saldi con l'immaginario, con il flusso linfatico caldo e denso dello spurgo che altri chiamano "umanità".

Il recupero dell'effimero e quindi, perciò, dell'ESTETICO, comune tra l'altro alla più spiazzata pseudoavanguardia musicale, soccorre ed alimenta lo sforzo escrementizio che sostiene il discorso ubikuo per andare oltre il totalitarismo della ragione.

In questa prospettiva speculare l'Ubikuità, così come il buddismo (con mezzi e percorsi diversi, ovvio), assume il ruolo decisivo nel mondo moderno: il ruolo della negazione, del rifiuto: del linguaggio dei fatti, che il potere esibisce come unicum reale per lo status quo dei suoi lager.

Ubikuità significa dunque un VIOLENTO DISSENSO verso il pratico ed il politico. Non una realtà come rappresentazione, non la rappresentazione come realtà, ma l'Ubikuità come randomizzazione di una società asociale. Il ruolo dell’Ubikuità non è quello di trasformare l'immanenza e rovesciare quindi la realtà, immediatamente, Questo, semmai, è il compito del "lumpenariato". E tuttavia l’Ubikuità fiancheggia l'azione rivoluzionaria, tenendo viva, e nascostamente alimentando, la mentalità del dissenso.

Ed in questa ottica globale, si inserisce anche la nostra critica alla fantascienza intesa come tale ed evulsa dal crogiuolo del fantasticare. È in atto un generale processo di superamento della fantascienza come si era andato creando nelle punte più fredde e perciò esemplari della New Wave, dove la fantascienza travalicava la precisione della forma e la "chiarezza" della sua nozione. Nella New wave la nozione fantascientifica assieme alla sua forma viene subordinata in vista del significato, che è inquadrato in quanto relazione, cioè appartenenza ad una serie. Non conta in questo settore d'avanguardia né la nozione né la forma presi nella loro singolarità, me la serialità del "genere" con le sue varianti sincroniche, che creano quasi una perdita di senso.

Nei confronti del ragionevole superamento realizzato delle New Wave, il superamento che ha attuato Philip K. Dick (e quindi l'Ubikuità) si presenta piuttosto come una distruzione violenta. Ma il punto è proprio questo. L’atomica è stata usata, l’immagine del mondo è rigorosa; venuta fuori "umana", senza la certezza del robot, ma con lo sgarro del coatto, l'odiosità dello stupratore. Non si può quindi dire che alle soglie del 1984 preferiamo ad uno sporco fumetto pornografico le finissime incisioni dei maestri fiamminghi: è lapalissiano che sono i computer i grandi artisti del 2000, i custodi degli scheletri - funzionali delle scritture. Bisogna quindi inventare certezze, ricreare cose, per sfuggire alle strutture.

Non serve a nulla depistare le indagini su quanto sta accadendo. La critica può continuare a masturbarsi sui propri cadaveri, né squisiti né eccellenti, ma solo sterili. Poco o niente cambierà malgrado l’Ubikuità. Spesso è da preferire la triste consapevolezza all'ebetismo dominante.

Dominique Laporte, nel suo esemplare pamphlet Storia della Merda (Ed. Multhipla), giunge a delle conclusioni di un'attualità rivoluzionaria sconvolgente. Analizzando i rapporti societari di consumo-assimilazione-evacuazione (chi non ha mai detto che questa letteratura è una merda?), Laporte identifica sostanzialmente lo Stato con la Fogna, vivendo le loro proposizioni di comune (di)sviluppo con e sulla merda. Alla teoria marxista dei bisogni, (tanto sfruttata erratamente dopo il '68), contrappone la teoria (sadiansa? fourieriana? batailleana?) dei bisogni, intesa nella sua accezione più strettamente escrementizia e fecale.

Non sono forse riti della fecalità le pagliacciate delle guerre sotto le bandiere (tipo carta igienica) delle religioni e dei nazionalismi?

Il produrre per consumare e il consumare per produrre, non sono la ruminazione bovina delle masse irreggimentate in mandrie pronte per essere scannate a comando?

Cosa c'entra l’Ubikuità in tutto questo? A parte la facile linea critica dei padri Sade – Bataille - Bellmer & c., l'Ubikuità ha sempre sostenuto una visione del mondo (e quindi della visione) come luogo di lovecraftiane fecce innominabili, sentina di rifiuti endemici, spurgo di liquami ideologici, fogna di cascami culturali, immondizie artistiche, meteorismi musicali, aerofagie chiesistiche, materiali osceni ancorché (!) biodegradabili nella loro totale ed estrema deperibilità.

Se è il potere stesso che offende, allora perché ci si continua a girargli attorno, persino con la fabulazione, con il fantastico?!?

Che alternativa, che contropotere ci può essere nell'esercizio permesso dall'alto di una miserabile parvenza di creatività fantastica, di uno straccio di lenzuolo appartenente ad un fantasma che una volta girava per il mondo e che non osiamo più chiamare: compagno???

Una volta accertato che il sistema si avvale dell'industria culturale, per canalizzare, sfruttare ed emarginare anche il dissenso, non resta che concludere affermando che partecipare di propria volontà all'industria culturale, è un atto sostanzialmente stupido e suicida. La delega del proprio immaginario equivale in un certo senso ad un patto faustiano col diavolo per cedere la propria anima in cambio di una illusoria felicità. Tanti miti sono caduti e tanti altri cadranno, per finire sempre nello stesso posto: nella merda. La società spettacolo ha inventato il simulacro per mascherare il proprio volto di morte, per delegare le sue responsabilità umane alle macchine che non sono poi molto più fredde e disumane di chi le ha create.

L'unica spia luminosa su questo sistema analogico e digitale (anche nel senso botanico - e quindi velenoso del termine) sembra quindi essere il silenzio.

Questo silenzio che nasce come un grido nella notte dalla gola di chi ha tutto urlato e tutto pianto.

Questo silenzio che sboccia delle distese dei cadaveri inglesi, palestinesi e polacchi, morti per consentire il flusso regolatore della fogna di questo mondo di merda.

Il titolo di questo articolo è "L'Ubik come sublimazione dell’autonomia". Verrebbe quindi spontaneo chiedersi a questo punto ed in queste condizioni dove e come sia possibile praticare l’autonomia e quindi l’Ubikuità.

Io lo so, ma non lo dico... Chi prenderà quanto sopra per un gioco di simulazione?






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