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Dubito, ergo sum, ovvero: due parole su P.K. Dick


di Luca Colombo


Ed ecco finalmente realizzata l'idea che da parecchio mi frullava nella scatola cranica: consumare un po' di corrente, un po' di nastro della stampante ed un altro po' di tempo per uno scopo finalmente nobile.

Lo scopo suddetto sarebbe quello di fare quattro chiacchiere amichevoli, tanto per introdurvi nel mondo schizofrenico ed alienante di quello che a mio modesto parere è uno dei pochi scrittori di Sf che abbia scritto nel nostro campo delle pagine davvero degne di entrare nel Gotha della letteratura in assoluto.

Cominciamo, come fanno i risvolti delle sovraccoperte, dalle notizie anagrafiche: il Nostro nasce a Chicago nel '28 (la K. nel nome sta per Kindred) e muore non so dove (in California?) - chiedo venia, sto andando a memoria - nel 1982 con alle spalle una vita travagliata, disordinata, spericolata.

Matrimoni, figli, droga, un lungo periodo di miseria, persino la militanza temporanea in un gruppo filocomunista (un'impresa non male, per essere in pieno periodo maccartista, quando tutti quelli che non proclamavano meglio morti che rossi erano pedinati dall'FBI (1)...), la conversione alla Chiesa Episcopale ed un successo come scrittore che arriva tardi, ad una decina di anni dall'esordio.

Prima di cominciare a parlare delle opere di Dick è meglio però mettere le mani avanti un chilometro e ricordare che l'Autore (ebbene sì, ci metto tanto di maiuscola!) scriveva per vivere, dove per vivere non intento aggiungere il dodicesimo zero al canto in banca, ma comprarsi della carne trita per cani da mangiarsi a cena, come lui stesso racconta.

Quindi abbiamo a che fare con una produzione tanto sterminata in quantità quanto difforme in qualità: ci sono in circolazione tanti di quei romanzi e racconti di Dick che non pretendo nemmeno di aver mai sentito nominare, pubblicati da tutte le parti, spesso mal tradotti e/o tagliati...

Tuttavia in questo mare magno (opere talvolta insipide al cospetto dei massimi capolavori dickiani, certo, ma mai banali) spiccano un buon numero di testi assolutamente eccezionali, espressioni di una mente genialmente allucinata, sempre in bilico sull'orlo di una domanda che in Dick si fa angosciante: dove comincia la realtà? Dove finisce la finzione, l'apparenza, l’inganno cosmico?

Tutta la produzione dickiana si fonda infatti su questo interrogativo, sempre presente e sempre irrisolto, che lo stesso Autore ha sintetizzato con una citazione nientepopodimeno che da Eraclito: è nella natura delle cose mascherare la propria essenza (frammento 54).

E le cose mascherano talmente bene la propria realtà che paradossalmente l'unica certezza che otteniamo da Dick è quella del dubbio (non il dubbio socratico, quello costruttivo del so di non sapere, ma un dubbio assoluto, negativo, che ci preclude la possibilità di ancorarci ad un qualsiasi appiglio).

Non dimentichiamo infatti che il miglior Dick opera negli anni '60, a confronto con un'America che conosce un periodo di straordinaria evoluzione: da una parte la corsa allo spazio, dall'altro l'ineluttabile coinvolgimento nella sventura vietnamita; da una parte il progressivo affermarsi dei diritti civili, dall'altro l'insoddisfazione giovanile che condurrò a Woodstock. I valori tradizionali perdono di significato, quelli nuovi si agitano confusi e contraddittori...

Ed ecco nel '62 The man In the high castle (La svastica sui sole, Cosmo Oro Nord 57) che conduce Dick al prima successo di pubblico e soprattutto di critica, tanto da vincere meritatamente l'Hugo per il miglior romanzo: una vicenda intricata e disordinata, ricca di colpi di scena e di ribaltamenti, dove tutti i personaggi attraversano una complessa evoluzione politica e psicologica; forse il capolavoro assoluto di Dick.

Un accenno al contenuto: siamo negli anni Sessanta di un mondo parallelo, simile a quello di tanta Sf da treno, come dice l'Arnaldo. Ma la trenitudine del romanzo finisce dove comincia: gli USA hanno perso la seconda guerra mondiale e le potenze dell'Asse si sono divise il territorio nordamericano in zone d'influenza. La Germania nazista sta per ultimare la bomba atomica ed attaccare il Giappone per conquistare l'egemonia mondiale. In questo scenario di pace apparente si muove uno stuolo di personaggi assillati dalle proprie nevrosi, dai propri travestimenti più o meno inconsci, tutti coinvolti dall'influenza di due libri: I Ching, ovvero la saggezza orientale degli invasori giapponesi, contrapposta alla lucida furia distruttiva dei nazisti, e The grasshopper lies heavy, ovvero l'opera rivoluzionarla di uno scrittore dissidente che descrive un mondo parallelo dove gli Stati Uniti hanno invece vinto la guerra. Ma il giaco dei travestimenti si spinge ad un punto tale che questo mondo parallelo non è il mondo reale, odierno: è una terza realtà che pare la realizzazione dei sogni maccartisti degli anni '50, con la scomparsa di tutti i regimi comunisti, e gli anglo-americani a spartirsi pacificamente il globo.

Se descrivere il background di un'opera di Dick è complesso, descriverne la trama è praticamente impossibile: limitatevi a sapere che tutti i personaggi interagiscono in un insieme molto intricato di rapporti interpersonali. In ogni caso raccontarvi per filo e per segno tutti i capovolgimenti di prospettiva che incontrerete in una qualsiasi opera del Nostro vorrebbe dire togliervi il gusto della sorpresa, per cui armatevi di buona volontà e cominciate a leggere il romanzo (fermi, fermi, non subito! Prima finite il Tarlo, poi se ne parla!).

Se in The man in the high castle il confronto primario tra realtà e finzione è giocato sul piano oggettivo (ma esiste poi una oggettività) della Storia, in The simulacra (I simulacri, Cosmo Oro Nord 42) ed in Do androids dream of electric sheep? (Cacciatore di androidi, Cosmo Oro Nord 78) si sviluppa sotto l'aspetto fisico della indistinguibilità corporea e psicologica tra simulacri artificiali ed umanità reale, come sempre coinvolta in una complessa vicenda politica nel primo caso, religiosa nel secondo (e con questo ho liquidato due capolavori in ben quattro righe, meritandomi un vigoroso cannoneggiamento nelle gengive da parte di tutte le persone con un minimo di sensibilità letteraria!).

Infine nell'altro grande romanzo dickiano, Martian time-slip (Noi marziani, Nord Narrativa d'Anticipazione 33) il collegamento tra le realtà alternative è costituito da un bambino autista, un essere che si rifiuta di uscire dal suo mondo interiore misteriosamente in contatto con un universo estraneo, forse il futuro, forse solo uno dei futuri possibili, mentre all'esterno si agita disordinata la vita della società marziana, meschina e frenetica, alienata ed alienante.

Questo per darvi una pallidissima ed inadeguatissima idea della produzione maggiore del Nostro, a proposito del quale naturalmente esiste una vastissima ed interessantissima letteratura critica, anche nazionale. In particolare veramente illuminanti ed approfondite sono le introduzioni di Carlo Pagetti alle opere pubblicate da Nord, indispensabili per comprendere a fondo le tematiche ed il linguaggio di Dick.

Questo per rimanere sul P.K. Dick maggiore, quello delle opere di maggiore impegno filosofico e linguistico (il che non significa che siano dei mattoni, anzi!), e senza neppure citare The game players of Titan, Ubik, oppure The three stigmata of Palmer Eldritch.

In realtà esiste tutta una costellazione di opere minori (alcune raccolte di racconti e un gran numero di romanzi meno ambiziosi) estremamente godibili e spesso permeate da uno humour nero che le rende inimitabili.

Quindi oltre a quanto segnalato prima, che costituisce il Dick che ogni appassionato di Sf e di buone letture in generale dovrebbe custodire in fondo al cuore ed in cima al comodino, vi consiglio qualcosa di più leggero: si tratta delle belle raccolte di racconti pubblicate in Italia da Fanucci (incredibile! Un redattore del Tarlo che consiglia i libri di Fanucci! Dove andremo a finire di questo passo?) e da Mondadori sotto i titoli Le voci di dopo (Fanucci, Futuro 26) e Ricordi di domani (Urania 1068).

Sono un gran numero di opere generalmente molto brevi, tutte sviluppate con una maestria incredibile applicando ai luoghi comuni della fantascienza pulp la tematica fondamentale del rapporto tra realtà e finzione. Difficilmente in un altro autore (e qui la maiuscola non ce la metto, appunto perché è un altro) si trova una produzione così omogenea dal punto di vista intellettuale, dal raccontino per F & SF fino al romanzo vincitore dell'Hugo.

Tanto per finire la sbrodolata, due paroline su come scriveva Dick: il Nostro è unanimemente definito come lo stilista per eccellenza della Science-Fiction (2). La sua prosa è veloce, scorrevole, ma sempre fortemente evocativa sul piano emotivo e psicologico più che su quello visuale: i personaggi dickiani sono sempre dubbiosi, incerti, preoccupati, vittime delle proprie meschinità umane oppure ingranaggi inconsapevoli di meccanismi troppo più grandi di loro. Il punto di vista si sposta rapidamente dall'uno all'altro, negando l'esistenza di un osservatorio privilegiato: oppressori ed oppressi, originali e replicanti sono ugualmente coinvolti nel colossale gioco della vita, perennemente alla ricerca di una Verità alla quale aggrapparsi.

Lo stesso Dick non si fa scrupolo di esporre la propria tematica in uno dei suoi più pazzamente lucidi articoli autobiografici dal titolo Come costruire un universo che non cada a pezzi n due giorni (lo trovate nell'Urania citato sopra) che vado a saccheggiare senza pietà né vergogna: i due argomenti di base che mi affascinano sono cos'è la realtà? e Cosa costituisce il vero essere umano? (..) Io ci ho pensato su ed ho detto La realtà è quello che non se ne va se smetti di crederci (…) Comunque, vi svelerò un segreto: a me piace costruire universi che cadono a pezzi. Mi piace vedere che si sfaldano, e mi piace vedere come i personaggi del romanzo affrontano il problema. Nutro un amore segreto per il caos. (...) finiamo con falsi esseri umani che inventano realtà false e poi le spacciano ad altri umani falsi. È solo una versione molto in grande di Disneyland.

Avendo perfino citato il Maestro posso passare tranquillamente alla chiusa, con il consiglio di provare almeno a leggere qualcosa di Dick: non pretendo di contagiarvi con il mio entusiasmo, però... ne vale la pena, se di pena si tratta.

Parola di Giovane Marmotta.

P.S. Il perfido Accomazzi, schiavista e negriero, al cui confronto il capitano Bligh pare Madre Teresa di Calcutta, ci raccomanda in continuazione di evitare per quanto possibile le virgolette e le parentesi. Rileggendo il pezzo mi parrebbe proprio di averne seminati in abbondanza... anche per oggi ho compiuto la cattiva azione quotidiana. (3)


(1) In effetti lo stesso Dick narra di un infiltrato dell'FBI in questa cellula, e spiega, molto dickianamente, come tutti conoscevano costui come un poliziotto, e come l'agente stesso sapeva dl essere stato riconosciuto... ma nonostante ciò tutti si comportavano come se niente fosse in un grottesco gioco di travestimenti, dando un altro esempio di come realtà e finzione possano mescolarsi indissolubilmente.

(2) Veramente, l'etichetta di stilista della Sf normalmente è prerogativa di John Vance (Nota di Marcolla)

3) Quale modestia! Colo, in verità, ha anche messo qualche spazio bianco in inizio paragrafo, cosa noiosissima di scoprire e rimuovere. Comunque, delle sue 16, dico 16, virgolette, ho tatto giustizia sommaria. (NdAkko)






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