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Dick e l'incubo del reale


di Giangiacomo Gandolfi


"Don Juan mi disse che per uno stregone il mondo della vita quotidiana non è reale, o qui intorno a noi, come crediamo. Per lo stregone la realtà, o il mondo che noi tutti conosciamo, è solo una descrizione." Carlos Castaneda, Journey to Ixtlan


La ristampa di quel testo fondamentale della letteratura fantastica che è Ubik, realizzata con gran cura e competenza in una edizione piacevole, anche se purtroppo non cartonata (Il libro d'oro della fantascienza: Philip K. Dick, Ubik, Fanucci Editore, Roma 1989. L. 20.000), può essere un'ottima occasione per riscoprire ed analizzare uno dei grandi capolavori della fantascienza, che è generalmente considerato il trasparente manifesto dell'estetica dickiana.

Le precedenti pubblicazioni, su un numero di "Galassia" del 1972 e su "Bigalassia" nel 1980 sono praticamente introvabili e sprovviste di un apparato critico e bibliografico così interessante come quello di questa nuova edizione. Dick è un autore che sta conoscendo in questi anni un nuovo, straordinario successo, anche grazie ad un classico della cinematografia fantastica come Blade Runner, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? che è del 1968. Ubik è stato pubblicato l'anno successivo, ultima, delirante opera prima di un silenzio durato tre anni, durante i quali Dick visse in prima persona la tragica esperienza della droga. Il romanzo è in realtà l'angosciosa descrizione di un'allucinante discesa agli inferi, continuamente oscillante tra classici moduli science fiction e terrificanti intuizioni puramente "horror", condotta con straordinaria maestria narrativa, sempre sul filo di una suspence lucida e trascinante.

Ritroviamo qui, mirabilmente esemplificati, alcuni dei "topoi" dell'opera dickiana: la frantumazione dei punti di vista, la tecnica del flusso di coscienza e il crescendo di eventi inspiegabili, fino alla brusca, catartica rivelazione finale. È in fondo, questo, uno dei motivi più ricorrenti nei racconti e nei romanzi di Dick; la disperata coscienza della natura illusoria del mondo fenomenico vissuta totalmente dall' Autore, sentita a fondo, non solo descritta. C'à un'insaziabile ansia di assoluto e un inappagato desiderio di Dio negli scritti di questo maestro, che li rende inimitabili e inconfondibili; la frattura con il reale totale, non rimarginabile, e si riflette in una lunghissima serie di mondi simulacro (cfr. L'occhio nel cielo, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, L' uomo dei giochi a premio, ed altri), come nell'agghiacciante labilità dei rapporti interpersonali (vedi a questo proposito il rapporto uomo-androide nel già citato Do androids dream of electric sheep, oppure quello uomo-uomo, in Noi marziani ed Episodio temporale, o perfino quello uomo-s in Scrutare nel buio). La metafisica coesistenza di un'incredibile varietà di livelli di interpretazione del mondo reale diventa una certezza ossessiva, capace di far cadere in pezzi qualunque abitudinaria convinzione, qualsiasi illusione di solidità: "[...] se la realtà è diversa da persona a persona, possiamo parlare di realtà al singolare, o non dovremmo parlare di realtà al plurale? E se esistono alcune realtà plurali, alcune sono più vere (più reali) di altre? Com’è il mondo di uno schizofrenico? Forse è reale quanto il nostro [...] Il problema, allora è che se i mondi soggettivi vengono percepiti in modo troppo diverso, si verifica un'interruzione della comunicazione... ed è questa la vera malattia.” ( da "Come costruire un universo che non cada in pezzi in due giorni) Il mondo della semivita di Ubik, in cui i morti, opportunamente ibernati, possono ancora contattare verbalmente i vivi (chiara l'ispirazione taoista: la visione dell'aldilà ricorda fortemente quella del Libro tibetano dei morti), non è che un fulgido esempio di queste realtà parallele, e i problemi di comunicazione (le interferenze che impediscono a Ella Runciter di consigliare il marito, le enigmatiche apparizioni di Glen Runciter nel mondo incomprensibile e distorto di Joe Chip e dei dodici Inerziali) ostacolano invariabilmente l'uomo nel suo tortuoso cammino verso l'interpretazione di ciò che lo circonda, In questo senso, il catartico rovesciamento finale della situazione, beffardo ed imprevisto, ci mostra che vita e semivita non sono che due facce della stessa "moneta": l'illusione universale, totale e ineludibile.

L'ostinazione indomabile dell'uomo nel puntellare questo universo che si sfalda inesorabilmente è evidente: l'Ubik, apparente deus-ex-machina, panacea universale e acuta parodia dello sfrenato consumismo moderno, che rivela in sé un bisogno di trascendenza al tempo stesso tragico e ridicolo, è il risultato dello sforzo congiunto dei semivivi nel contrastare il caos e la dissoluzione crescenti.

Riuscirà il commovente tentativo di ripristinare l'ordine e la logica per mezzo di questo strumento incredibile, la cui realizzazione è descritta con una pseudo - scientificità che stride ironicamente con la religiosità e con il metafisico scontro tra Bene e Male? (cfr. a questo proposito La città sostituita) Su questo punto Dick non ci illumina molto, ci lascia piuttosto nel dubbio, ma con una tragicità di fondo innegabile, schiacciante: per un mondo che si ordina un altro crolla nel caos, come ha modo di scoprire Glen Runciter, figura di grande peso nell'economia del libro, sempre a cavallo tra il "capitalista" arrogante ed una bonaria immagine paternalistica. "Ebbe una intuizione agghiacciante... E quello era soltanto l'inizio. Poi l'incubo iniziò" (da Ubik - 1969) Le tecniche che Dick usa per portare il lettore a "vivere" la frattura con il mondo reale sono varie e tutte efficacissime; lo straniamento è l'espediente principale: i personaggi sono come marionette impazzite, mosse da un fato cieco e contorto, ed hanno uno spessore psicologico contemporaneamente artificioso e dolorosamente credibile, sempre oppressi da una tetra sensazione di impotenza.

L'accumulazione di eventi inquietanti ed inspiegabili è un altro mezzo per comunicare angoscia esistenziale e ci ricorda la vastità tenebrosa dell'ignoto che si estende intorno a noi. Che questa indagine sul tessuto della realtà non sia solo legata a contingenze storiche e alla specificità del caso americano (siamo negli anni della contestazione, dell'irrequieta ricerca del nuovo e dell’utopico, testimoniata dalle esperienze allucinogene e dalla nascita del movimento hippy), lo dimostra tutta la produzione letteraria di Dick, fin dagli anni cinquanta pervasa da questo senso di drammatica alienità, che ci spinge a considerarlo un cantore dell'inquietudine profonda e spesso pessimistica dell'uomo nella società moderna.

Per questo motivo si è spesso paragonato Dick a Pirandello, a Lovecraft, a Kafka (o addirittura a Joyce per l'uso dello "Stream of consciousness', e la relativizzazione dei punti di vista), ma non si è mai pensato ad un autore enigmatico ed influente, anche se non in campo narrativo, come Carlos Castaneda, che pubblicava il suo primo libro nel 1968, un anno prima di Ubik. Sotto quale categoria si possa catalogare l'opera di questo antropologo, che da quasi trent'anni vive esperienze ai confini del reale in un mondo stregonesco, quello degli indiani Yaqui, dotato di una coerenza interna e filosofica solidissima, è a tutt'oggi una questione aperta.

Se si tratta di fantasia come sostengono i suoi detrattori, il ciclo, che descrive l'apprendistato di Castaneda sotto la guida di Don Juan, è comunque da considerarsi un capolavoro della letteratura fantastica per l'incredibile capacità di proiettare il lettore in una nuova, affascinante dimensione, con una semplicità linguistica e una profondità di idee sconcertanti. Lo straniamento è il procedimento fondamentale che usa Castaneda, al pari di Dick; e sebbene la tecnica con cui vi giunge, nel corso dei suoi otto libri, sia fondamentalmente diversa (il lettore CREDE all'illusorietà del reale nel momento in cui legge, mentre in Dick non si perde mai il senso di artificialità, ciò che, paradossalmente, rende ancora più struggenti i suoi romanzi), il risultato è lo stesso: il grado di coinvolgimento è altissimo, la lettura si impone, avvincente, ricca di suggestioni.

Dick è sempre stato affascinato dai sistemi filosofici e religiosi; prima ateo, poi taoista, membro della Chiesa Episcopale, gnostico: il suo cammino verso la trascendenza fu tormentato e variegato, ma mai conclusivo e non ci è dato di sapere quanto lo influenzarono le opere di Castaneda, con le loro implicazioni mistiche ed esistenziali (ne fa cenno esplicitamente, sia pure in modo superficiale, solo in un'intervista degli anni settanta, pubblicata su "Galassia"). L'evoluzione dei suoi romanzi, dagli anni '50 all'ultima fase della sua produzione (il 1982 è l'anno della morte), evidenzia un passaggio non nettamente definito, ma chiaramente percepibile, da problematiche sociali ad un misticismo cosmico e sovrannaturale. Spesso, però, i due temi si sovrappongono e si rafforzano reciprocamente, come avviene appunto in Ubik. C'è, in questo caso, una netta separazione dei due temi. La prima parte, dedicata alle peripezie di Joe Chip e Glen Runciter, alla caccia di un telepate pericoloso e destabilizzante per la società (i due fanno parte di un'organizzazione creata per contrastare i mutanti dalle qualità E.S.P.), dipinge con grande economia di mezzi, ma inestimabile efficacia, il mondo "futuro" del 1992, che ormai è ridotto ad "inferno tecnologico", completamente mercificato ed in mano ai monopoli capitalistici. Nella seconda parte la realtà comincia a dissolversi per i protagonisti, lasciandoli in una incertezza totale e da incubo, in un disfacimento che è al tempo stesso fisico e psicologico, in una situazione apparentemente senza speranza, in cui si dibattono freneticamente, ciecamente.

Il nodo della questione: chi è il responsabile di queste alterazioni? Chi manovra il mondo da palcoscenico che si sbriciola fra le mani di Chip e dei suoi compagni? La risposta centrale per un'interpretazione del romanzo che si ponga su vari livelli: fisicamente è Jory, un semivivo, che manipola la realtà; metaforicamente è il Male, che divora le sue vittime non per sadismo, ma per cieco ed avido istinto di sopravvivenza. Una forza malvagia in quanto umana, cosciente, un Satana che con la sua presenza cancella d'un sol colpo le ipotesi spionistiche delle sue vittime inconsapevoli, la caccia al traditore, e ricorda assai da vicino l'Aquila, la cosmogonica entità divoratrice delle coscienze che rappresenta il centro della oscura mitologia castanediana. Il significato del libro muta a questo punto totalmente, lasciando spiazzato il lettore e aprendo la strada alla bellissima metafora dell'Ubik, la miracolosa bomboletta spray. La rivelazione lascia come un senso di smarrimento, un'impressione di confusione che è, in realtà, solo apparente: ad una attenta rilettura tutto diventa logico e coerente, frutto di un disegno accurato e visionario. Ubik, è comunque, un'opera complessa e di difficile interpretazione, feconda di idee ed appassionante. In breve tempo accade di tutto e viene toccato un gran numero di situazioni classiche della Sf: i poteri E.S.P., l'ibernazione, la meccanizzazione e l'automazione diffuse ad ogni livello, il viaggio spaziale, in particolare verso la luna; ognuno di questi argomenti, apparentemente stereotipati, viene rivitalizzato e trattato con sguardo ironico e divertito, molto personale.

Ma, al fondo di questo sorriso scanzonato, si avverte una invincibile punta di amarezza e di sgomento per le vicende tragicomiche di tutti i personaggi. Se la morte è un incubo kitsch, sembra dirci Dick, cosa dobbiamo pensare della realtà? Forse è meglio sorriderne, senza cinismo, ricordando le amare e sarcastiche parabole di un altro grande della Sf, Kurt Vonnegut, il cui agghiacciante umorismo nasce dalla lucida consapevolezza del "[...] crudele paradosso del pensiero..., la straziante necessità di mentire sulla realtà e la straziante impossibilità di mentire." ("Ghiaccio nove" - 1963).






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