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Un esploratore dello spazio tra la vita e la morte


di Ugo Leonzio


C'è una zona crepuscolare, minacciosa, nella realtà che attira alcuni scrittori, a volte grandi, quasi sempre isolati e mal compresi. Questa zona è una terra di nessuno, tra la vita e la morte, tra la realtà e l'immaginazione, dove l'unica regola è che i ruoli devono essere assai spesso scambiati. È il regno degli schizoidi, dei depressi, dei paranoidi ai quali, in virtù della loro grandezza o capacità di convinzione (che è la stessa cosa) noi, se fossimo saggi, dovremmo credere.

In questa zona crepuscolare, essi dedicano la loro vita ad ascoltare i messaggi spesso incomprensibili che germinano in altri messaggi, fino a invadere tutto lo spazio concesso da una mente normale. A questo punto, tali segnali si manifestano come luoghi, personaggi, rivelazioni che hanno il dono di rendere irrilevante tutto ciò che non proviene da quella zona d'ombra, compresa la cosiddetta arte. Anzi, in questa zona d' ombra che alcuni chiamano abisso, altri illusione e altri ancora Dio, la letteratura in particolare si presenta come un supporto provvisorio, scadente e comunque periferico, rispetto a qualsiasi altra manifestazione dello spirito.

Prima che si manifesti una forma più o meno malata di illuminazione, questi scrittori (come Dick, Lovecraft o Poe) passano attraverso la losca iniziazione del lutto, della depressione, del fallimento. In genere si sentono "scritti" più che scrittori, come se la loro attività (spesso frenetica) fosse una sorta di incontro con altre forme di vita, sulla cui identità si possono azzardare infinite ipotesi finché non si rivelano in tutto il loro orrore.

Questo orrore non si manifesta mai direttamente, ma con segnali ambigui, bassi: scritte sui cessi, miracolosi ritrovamenti dentro bidoni della spazzatura, o una canzone dei Beatles ispirata dall'Lsd. Le droghe, gli psicofarmaci, l'alcool sono i veicoli privilegiati per mettere il cervello nella giusta condizione per decodificare i messaggi dell'"altra parte", una specie di specchio che - una volta attraversato - rivela l'inganno cosmico di infinite dimensioni di cui non siamo che cloni, giochi, replicanti, aborti cibernetici dentro un programma ordito e gestito da psicotici e indemoniati, che non sanno più come portarlo a termine, dargli un senso.

La zona d'ombra da cui è sorto Philip K. Dick, il 16 dicembre 1928, nell'area di Chicago, assieme alla sorella Jane, è caratterizzata dalla morte. La bambina morì per denutrizione dopo cinque settimane. Fu sepolta nel cimitero di Fort Morgan, Colorado, da dove proveniva la famiglia paterna. Sulla tomba, accanto al suo nome, fecero incidere anche quello del fratello che era sopravvissuto, con la data di nascita, un trattino, e uno spazio vuoto. Lo spazio dell'attesa, lo spazio della morte.

Emmanuel Carrère, nella sua magistrale biografia Je suis vivant et vous etes morts (pubblicata da Theoria), ha situato la "carriera" di Philip K. Dick in quello spazio vuoto, in quell'attesa. Da quello spazio, la piccola Jane non ha mai smesso di attira suo fratello Philip, di parlargli, mostrargli i segreti, i prodigi, le metamorfosi e gli inganni della zona oscura. Al punto di convincerlo a scambiarsi i ruoli: Philip nella zona della morte, e Jane in quella dei vivi.

Ma forse non ce n’era bisogno: Philip K. Dick ha sempre creduto che noi vivi siamo in realtà i veri morti. Per non spaventarci, il Grande Programmatore ci ha circondato di una pseudo-realtà, un "programma vita" che ci illude di essere vivi. Ci illude, appunto...

Nella mente di Philip K. Dick, questi messaggi si sono fatti strada pian piano, come impercettibili fessure attraverso cui si poteva verificare in tutta la sua inconsistenza il simulacro di realtà dentro cui ciascuno di noi vive, ed è convinto di vivere. È questo il segreto, scoperto Dick e da sua sorella Jane, dietro il visibile, sotto le sabbie mobili del tempo: noi siamo morti, quel che ci tiene in vita è un gioco da cui qualsiasi Dio è assente.

Un mondo di frequenze elettroniche, di micro-chip alla deriva in un cosmo elettronico, frullato in una quantità indefinita di dimensioni, esattamente come i sogni di un idiota o gli incubi di uno schizofrenico, o di un androide dentro il quale è stato installato il «programma coscienza» o il «programma dolore, o il "programma arte, religione, Dio, emozione, bellezza, bruttezza, salvezza" eccetera eccetera ...

Nessuno di noi osa crederlo, ma questa, dice Dick, è la tipica reazione di un replicante in cui è stato installato il «programma incredulità»!

Pessimismo? Ma non dice la stessa cosa anche Shakespeare nel Macbeth? La vita come il sogno di un idiota, il borborigmo di un ubriaco? E non dicevano la stessa cosa gli gnostici, Basilide, Valentino?... Il mondo è una prigione, un'illusione. Philip K. Dick ha popolato questa illusione, ne ha dilatato le pareti, moltiplicandole all'infinito e rimpicciolendole all'infinito, ma con una visione, se possibile, ancora più disperata: tutto e programmato è programmabile. Fuori dal programma, c'è il nulla, e la sua virtualità incontrollabile.

E Dio? Dio non esiste, per Dick, come per Dostoevskij o Heidegger, se non come enigma. Non come dubbio. Fuori dal «programma Dio» niente esiste, ma naturalmente questo rende il tutto ancora più inquietante.

Già prima che il film di Ridley Scott Blade Runner lo rendesse celebre, esisteva già un culto, una chiesa e forse anche un'eresia dedicati a Dick. Cosa amano i devoti di questo culto? Quale dote particolare intuiscono in questo scrittore, profeta, medium che ha reso obsoleta ogni forma di letteratura alta, retrodatandola di almeno un secolo con gli stupendi inganni della fantascienza generalmente considerata spazzatura?

Dick ha insegnato a scrutare la cosiddetta realtà come se fosse un sintomo di cui ha voluto, sotto la guida della sua fantasmatica sorella, fare ogni esperienza; e di questa esperienza, ha stilato un referto.

Documentando gli universi della parte oscura che avevano preso stabile asilo nella sua mente, spiando attraverso le anguste fessure della sua (e nostra) prigione, Dick ha reso inutile qualsiasi estetica, riducendola a una pietosa favola per bambini.

I libri di Dick non sono belli.

Sono evidenti, inquietanti come il trattino e lo spazio vuoto lasciati sulla sua tomba. Una metafora di cui ha forse spiegato l'inganno, e di cui i suoi devoti gli saranno debitori per un'improbabile eternità.






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