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Sembra Stanley Kubrick ma è Philip Dick


di Sandro Modeo


Sei anni dopo la stesura di «Ubik», Philip Dick ne trasse una sceneggiatura (ora proposta per la prima volta da Fanucci con la fiction stessa, pagine 507, lire 12.000) che esplicitava in lui la presenza di una «forma mentis» registica sotterraneamente già delineata nella struttura e nel montaggio delle narrazioni. Lo scrupolo microorganico con cui Dick cura ogni particolare di un film rimasto per ora «in mente Dei» (dissolvenze, stacchi, primi piani, panoramiche, effetti sonori, pause, ingressi e uscite delle musiche, dalla «Missa Solemnis» di Beethoven al «Requiem» di Verdi, timbri, toni e inflessioni delle voci) rende ancora più tangibile e, se possibile, visivamente più irrimediabile l'orrore di questa estrema odissea ontologica.

Attraverso una macchina da presa kubrickiana riviviamo così la frastornante progressione del plot, le algide atmosfere tecnometafisiche (a cominciare dal moratorium svizzero con le bare dei semi-vivi) e la denuncia politica sottesa (il nome del dio panteistico Ubik, designando indifferentemente deodoranti, reggiseni e psicofarmaci, è emblema di una persuasione che induce valori alienanti più che l'acquisto di prodotti) senza che, peraltro, Dick sacrifichi mai la precisione delle sue disturbanti similitudini (le voci come «alveari di api metalliche» e gli occhi come «gioielli difettosi»). Riviviamo lo sgomento del rapporto fra soggetto e mondo esterno. Se, come ha scritto Putnam, «la mente e la realtà costruiscono insieme la mente e la realtà» qui le alterazioni dell'una e quelle dell'altra demistificano gli strati di un'apparenza che si apre su altre apparenze; e ci mostrano che ogni verità e sempre la penultima.






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