Dick-Lo scrittore dell'altro mondo
di Sandro Modeo
Dopo che si è finalmente individuato in lui uno scrittore-cerniera tra generazioni di lettori, forse il modo migliore per tornare a Philip Dick è partire dai romanzi mainstream degli anni giovanili.
Stese in clima maccartista da un autore antimaccartista al punto da subire le visite dell'Fbi, queste narrazioni filmano un'America prototecnologica in cui alienanti sono sia gli esterni (i paesaggi), sia gli interni, che presentano situazioni familiari sfibrate da nevrosi di gruppo ottuse e seriali.
Tali fiction «realistiche» (come Confessioni di un artista di merda, scritto tra il '55 e il '59, e L'uomo dai denti tutti uguali) stanno a quelle «cosmologico-teologiche» della maturità come il corredo genico alla morfologia dell'organismo: ma il nesso causale è in realtà un'osmosi tra le due polarità, dato che le opere mainstream hanno già tratti «fantastici» e quelle fantascientifiche, in una sorta di feedback, sembrano risposte parossistiche alle domande delle mainstream. Non solo: l'espansione dell'alienazione sociale a quella «galattica» deve passare per il livello intermedio della Storia.
Nella Svastica sul sole ('62) viene infatti immaginato che l'ultimo conflitto sia stato vinto, in una dimensione parallela alla nostra, dalle forze dell'Asse. Il quadro che ne deriva – la Soluzione Finale estesa all'Africa e i popoli slavi sottoposti a una diaspora euroasiatica - permette a Dick di sviluppare da un lato una potente metafora sull'impossibile rimozione del nazismo a livello di inconscio sociale, dall'altro una prefigurazione letterale di «lunga durata» sulla subalternità delle etnie non occidentali.
In questa prospettiva, i libri-vertice degli anni Sessanta diventano molto più che capolavori di genere.
In Noi marziani (‘64) Manfred, il quindicenne schizofrenico protagonista, invade col proprio marasma mentale l'intera «realtà», fino a che tutti i personaggi parlano coi suoi grugniti e ogni cosa viene sottoposta a metamorfosi martorianti e distruttive. In Le tre stimmate di Palmer Eldricht (‘65) una nuova droga introdotta sul mercato fagocita i consumatori in un mondo da cui - una volta entrati e diventati cloni di Palmer Eldricht, che è anche il monopolistico distributore del prodotto - è impossibile uscire.
In Ubik ('68) la mente di un bambino (Jory), tenuto in semi-vita tra le bare criogeniche di un Moratorium di Zurigo, assorbe con la propria esuberanza neuronale, distruggendolo, il mondo poliencefalico – l’«allucinazione condivisa» - degli altri semi-vivi. In Labirinto di morte ('70) un'altra allucinazione condivisa è il pianeta Dalmak-0, ritenuto dagli alienati che lo sognano un'alternativa alla Terra terminale, Anche da questa sintesi emergono tutte le ossessioni dickiane primarie: il rapporto tra le psicosi e il gubble, la decomposizione del mondo esterno, assimilabile all'entropia; l'ambiguità prodotta da questa ibridazione tra idealismo e materialismo (le realtà sovrapposte «come tante trasparenze cinematografiche»); le mille matrioske ontologiche a loro volta correlate a tale ambiguità; la progressiva chiusura dei piani di realtà verso un unico piano di orrore panteistico, riconducibile a demiurghi gnostici; e infine l'angoscia dei personaggi colpevoli di voler vivere in questi universi degenerativi.
Soprattutto, seguendo il nostro discorso, emerge con chiarezza proprio l’osmosi feedback tra sociale e cosmico. Come non cogliere infatti nelle sconnessioni psichiche e nelle mutazioni fantabiologiche alla Giger - che esprimono l'impazzimento della materia e la fine della comunicazione - l'esasperazione, ma anche la metaforica spiegazione, della psicopatologia domestica degli esordi? O nel meccanismo economico interplanetario un contagio partito dagli arricchiti della provincia californiana, ma anche il trionfo di un'ideologia che li presuppone? E infine della tendenza alla disgregazione e alla morte di tutti i mondi possibili un principio germinato dalla - ma anche gravante sulla - disgregazione del nostro mondo affettivo?
Questa razionalizzazione «politica» dei testi dickiani non addomestica comunque il perturbante che li attraversa, come non lo addomestica nessun'altra razionalizzazione. Noi sappiamo infatti che tutto dipende da alterazioni neuropsicologiche; che tali alterazioni liquidino le categorie logiche (identità e non-contraddizione) e quelle biologiche (vita/morte e sonno/veglia); che gli universi paralleli sono esplicati dalla fisica quantistica; che il gubble è incanalato in architetture simmetriche come fughe bachiane.
Eppure la lettura disturba fino a richiedere a volte l’interruzione. Questo avviene perché in Dick il talamo prevale sulla corteccia, il cervello pulsionale su quello cognitivo. Meglio: perché quelle torsioni ontologiche sono narrate per visioni, gli strati di realtà divelti da stati emotivi onninvadenti. Basta vedere, nelle Tre stimmate, i crescendo in cui il soggetto capisce di non poter «rientrare» nella realtà. Come quando Barney scorge nell'ascensore sei Palmer Eldricht con le stimmate (occhi a fessura artificiali, cyberbraccio, denti d'acciaio) o si accorge a letto che anche la mano di Anne termina in dita artificiali. O basta vedere, in Ubik, come tale visionarietà si estenda al piano stilistico, ad esempio proprio attraverso il riverberarsi dell'ibridazione biotecnologica su campi metaforici «sintetici» (voci come alveari «di api metalliche»).
L'ultima parola d Dick sembra essere una società-cosmo claustrofobica anche se aperta, statica nel suo incessante movimento: uno spazio concentrazionario con false uscite e accessi obbligati. Eppure, nelle Tre stimmate, c'è una chiave: «E in alto il cielo azzurro e freddo fece la sua comparsa, intatto».
Vero o sintetico, reale o allucinatorio, nella nostra o in un'altra mente, quel cielo è un varco emotivo prima che una responsabilità etica: in qualche luogo, in qualche tempo, fuori dal capitale, dalla storia come degenerazione e dall'universo come sottoprodotto di un, dio sadico - le tre cose coincidono - forse la vita può ancora vivere.
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