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L'uomo che cambiò il cinema


di Mario Sesti


Oltre quaranta romanzi, più di 200 racconti, cinque mogli, tre figli e due film in arrivo tratti dalle sue opere: Philip K. Dick, lo scrittore morto vent'anni fa, proprio quando il grande schermo stava per portarlo alla ribalta del grande pubblico con "Blade Runner" (fece in tempo a vedere solo qualche sequenza e le prove degli effetti speciali), è destinato a tornarvi dalla porta principale: Steven Spielberg ha ultimato un film ispirato da un suo racconto ("Minority Report") e in America è uscito da qualche mese un altro film, "Impostor", tratto anch'esso dalla sua opera.

«Sarà il film più cinico che abbia mai girato», ha dichiarato Spielberg a "The Guardian" durante le riprese del film che uscirà negli Usa in estate e da noi in autunno.

Ma Dick, in realtà, dal cinema non se ne è mai andato. non solo perché con "Atto di forza", tratto ancora da un suo racconto, ha alimentato un altro grande successo di fantascienza, e perché "Truman Show", secondo molti, è stato ispirato da un suo romanzo ("Time out of Joint"), ma perché alcune sue ossessioni sono migrate nel sistema nervoso del cinema contemporaneo. Una, più di tutte le altre: come facciamo a essere sicuri che ciò che chiamiamo realtà non sia un'illusione?

Da "The Matrix" fino a "Vanilla Sky", quest'idea è diventata un motivo ricorrente dell'immaginario cinematografico.

Ma quando Dick iniziò a modularla in una serie sterminata di novelle e romanzi, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, il cinema si baloccava ancora con marziani catatonici come funzionari comunisti o alieni dalla faccia di ragno.

Sia "Impostor" che "Minority Report" sono tratti da suoi racconti di quegli anni. Nel primo, un famoso scienziato che ha inventato l'arma decisiva per ottenere la vittoria contro una razza aliena, viene accusato di essere egli stesso un extraterrestre: e il dubbio inizia ad assalire anche lui. In "Minority Report", con Tom Cruise, la polizia, nel 2080, è in grado di arrestare gli assassini prima che commettano gli omicidi. Cosa succede quando lo stesso sistema indica uno dei capi della polizia come futuro omicida?

Come ha scritto un noto studioso di cinema, la fantascienza classica, in cui le forme extraterrestri si impossessavano della coscienza degli uomini, trasmetteva al pubblico il dubbio di quanto sia difficile continuare a essere umani. Dick trasforma questa angoscia in qualcosa di più radicale e abissale: che cosa significa "essere umani"? Da "Noi marziani" a "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?", suoi romanzi più apprezzati, pubblicati in Italia dalla Fanucci -la casa che dal prossimo anno gestirà i diritti di Dick in Italia e che riproporrà tra qualche mese in volume il racconto da cui è tratto il film di Spielberg - sono popolati da freak di ogni tipo: idioti "precognitivi", sopravvissuti nucleari mutanti, esseri umani artificiali. Francesca Rispoli ne ha fatto un'analisi dettagliatissima in "Universi che cadono a pezzi", il suo saggio su Dick pubblicato da Bruno Mondadori.

Dick, che era tormentato da numerose fobie sin dall'infanzia, di allucinazioni era un collezionista. Dopo aver fatto un intenso uso di anfetamine e acidi, scrisse di una incredibile esperienza visiva che per più di otto ore l'aveva sottoposto alla percezione di forme a metà tra fuochi d'artificio e quadri di Kandinskij: un'allucinazione in cui s'intravede la definitiva affermazione di una schizofrenia che egli stesso si era diagnosticato molti anni prima. Ma, folle o meno, sono sempre di più gli studiosi che ritengono la sua reclusione nel genere della fantascienza come una riduzione inaccettabile per un autore capace di esplorare l'immaginazione, l'ansia, l'incubo, con la stessa intensità di autori come Poe, Lovecraft o Burroughs.






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