Recensione di Ilaria Biondi a "Philip K. Dick e il cinema"
Il volume edito da Fanucci, sulla scia del dilagare di film ispirati all'opera di Philip K. Dick, non da ultimo Minority Report, un fotogramma del quale è riprodotto in copertina, si propone lo scopo di indagare l'influenza dello scrittore americano sull'immaginario contemporaneo, e in particolare sulla produzione cinematografica.
Il volume si apre con il bel saggio di Franco La Polla, docente di letteratura angloamericana presso l'Università di Bologna, intitolato Philip K. Dick a Hollywood, ovvero: la quadratura del cerchio. Lo studioso elenca dapprima le riduzioni filmiche delle opere dickiane (Blade Runner di Ridley Scott, Atto di forza di Paul Verhoeven, Screamers: urla dallo spazio di Christian Duguay, il francese Confessions d'un barjo di Jerome Boivin, il telefilm italiano di Andrea e Antonio Frazzi L'impostore, infine il nuovo Impostor e Minority Report), per poi precisare che l'attenzione sarà focalizzata sostanzialmente su Atto di forza e Screamers, tratti entrambi da due racconti piuttosto brevi e per questo suscettibili di essere ampliati e trasformati dal cinema hollywoodiano, per definizione basato sulla spettacolarità. Atto di forza, che pur trasforma la speculativa e raffinata avventura mentale narrata in "We Can Remember It For You Wholesale" (1966) in un'avventura "largamente" politica che mette in scena la tradizionale contrapposizione tra tirannici cattivi e buoni repressi, offre secondo La Polla delle felici trovate, in particolare il gioco di specchi mnemonico (inventato da Dick), quale metafora della crisi e della frammentazione del soggetto, supportato a livello visivo da un sapiente uso degli effetti speciali. Lo studio so non manca però anche di misurare la differenza che sussiste tra il regista (Verhoeven) e lo scrittore (Dick): mentre il primo è appieno un uomo del suo tempo, giacché il tema della crisi dell'individuo attraversa il cinema hollywoodiano da alcuni anni ormai (dalla fine degli anni Settanta, per essere maggiormente precisi), Dick si rivela invece un precursore dato che, all'epoca in cui egli compone le opere qui esaminate, tale crisi viene soltanto vagamente presentita. Dick infatti, per dirla con le parole di La Polla, "aveva presentito che il nostro corpo non ci appartiene più, che è territorio di mutamenti imprevedibili e talvolta atroci, che di conseguenza è la struttura della macchina a garantirgli paradossalmente maggiore identità e definibilità" (p. 15). Nel film di Verhoeven si riscontrano inoltre un'ironia d’immagini, dovuta per gran parte all'eccesso di taluni effetti speciali, che non è di Philip K. Dick, nonché l'introduzione di personaggi assenti invece nel racconto dello scrittore, come ad esempio il tassista-robot (inventati però seguendo lo spirito dickiano). Lo studioso passa poi ad esaminare Screamers (ispirato al testo dickiano "Second Variety") definendolo senza mezzi termini un film non bello, caratteristica questa che La Polla ascrive sia alla difficoltà di trarre una sceneggiatura da un testo breve (il racconto non offre spazio per un lungometraggio, perciò la sceneggiatura è costretta "ad indugiare, a tergiversare, ad allargare quello che non ne aveva alcun bisogno", p. 18) sia a ragioni prettamente economiche (la produzione avrebbe infatti sofferto di ingenti restrizioni a livello di budget). Nel film La Polla individua numerose divergenze rispetto alla fonte letteraria, come l'ambientazione non terrestre, l'attribuzione della guerra ad una rivolta di minatori (l'originaria opposizione USA-URSS doveva probabilmente apparire obsoleta in un film girato dopo la caduta del muro di Berlino), ma anche meno evidenti eppur significativi dettagli (la giovane protagonista ad esempio, che nel racconto è il secondo di quattro androidi sempre più perfezionati, diventa invece nel film il tipo più perfezionato).
Tuttavia lo studioso ritiene che l'opera di Duguay, pur nei suoi evidenti limiti, rispetti nel complesso lo spirito e le intenzioni dello scrittore, se si esclude il finale, che fa il paio con quello aperto e piuttosto ottimista di Blade Runner (La Polla precisa che tale mancata aderenza al testa dickiano è strettamente connessa in entrambi i casi con la tradizione del lieto fine tipicamente hollywoodiana, che impone la vittoria del protagonista umano sull'entità artificiale). Nell'ultima parte del saggio, lo studioso evidenzia infine come l'intero cinema americano (non solo quindi i film tratti dalle opere di Dick e, più in generale, il cinema di Sf) sia nel suo complesso debitore nei confronti dello scrittore, poiché "obbedisce ad alcune componenti fondamentali dell'universo di Dick" (p. 20). Si pensi anzitutto alla rinnovata concezione del robot,' non più rappresentato semplicemente come fonte di sorriso o di paura bensì come creatura complessa e sofisticata, dotata di personalità e/o volontà propria (Terminator 2) o quantomeno portatrice di un atteggiamento problematico circa la propria identità (Robocop e il Data della seconda serie di Star Trek). Altro esempio interessante è offerto dal tema del viaggio: il cinema contemporaneo, in contrapposizione a quello del passato che concepiva il trasferimento in un mondo futuro o passato in modo semplicistico e antropocentrico (focalizzando l'attenzione esclusivamente sul problema dell' adattamento dei personaggi al nuovo contesto), è in linea invece con la visione dickiana, sovrappone spazio e tempo eliminando così "ogni comparazione storicistica fra [...] la dimensione d'appartenenza e quella di arrivo" (p. 22), come ci mostra Matrix. Queste dunque, in sintesi, alcune delle idee portanti della narrativa dickiana che il cinema avrebbe assorbito: il mutamento, la crisi dell'antropocentrismo, la nuova episteme della frammentazione e la nuova poetica dell'innesto fra organico e inorganico. La Polla conclude il suo fine ed acuto intervento menzionando alcuni film che secondo lui sono tributari della rivoluzione epistemica anticipata da Dick e che, badiamo bene, non appartengono al genere Sf: Ricomincio da capo, The Mask, Multiplicity, Chi ha incastrato Roger Rabbit?
Il secondo saggio (Da Truman Show al Grande Fratello. L'eredita di Philip K. Dick), a cura di Peter Fitting, direttore del dipartimento di Cinema all'Università di Toronto, è come il precedente tratto dagli atti del convegno P2KD: Philip K. Dick at the Millenium, convegno che si è tenuto presso l'Università di Macerata dal 5 al 7 ottobre 2000. Lo studioso presenta in questo suo stimolante lavoro alcuni film recenti di marca americana nel tentativo di dimostrare (in linea dunque con il saggio di La Polla) quanto l'influenza dickiana non si eserciti esclusivamente sulla produzione cinematografica ispirata, più o meno direttamente, alla sua opera, bensì riguardi da vicino tanto cinema contemporaneo e non solo (Fitting accenna infatti, come anticipa il titolo del suo intervento, al fenomeno dilagante della Real TV, assumendo come esempi gli spettacoli televisivi Survivor e il Grande Fratello e a quello, altrettanto popolare, delle webcam dal vivo e delle telecamere di sorveglianza nascoste). Eredi della narrativa di Dick sono dunque tutti quei film che mettono in scena realtà illusorie e artefatte, abitate da persone che vengono deliberatamente tenute all'oscuro dell'artificialità della loro esistenza e che cercano di lottare contro di essa o di sottrarsene con la fuga. Come ci ricorda Fitting, il nucleo centrale dell'opera di Dick è costituito, per l'appunto, dal "problema della realtà": nei suoi romanzi e racconti "la presenza [...] di realtà mutevoli che si disgregano, [e la] ricerca di una realtà "vera" che si trova "dietro tutto questo"" (p. 28) fungono costantemente da tema e dispositivo fondamentale della trama. I film che Fitting prende a modello per illustrare la propria tesi sono, nell'ordine: Truman Show, Dark City, Matrix e Pleasantville. Truman Show, che secondo Fitting è tra i quattro succitati quello che maggiormente ricorda ed evoca la narrativa di Dick, e in particolare il romanzo Tempo fuori luogo, narra la vicenda di un uomo (il Truman del titolo) che vive, fin dalla nascita e senza esserne al corrente, in una realtà artificiale, quale eroe inconsapevole di un programma televisivo, "realtà" in cui tutti i presenti (amici, vicini e la moglie stessa) altro non sono che attori impegnati a recitare un rigido copione. Lo studioso non manca però di rimarcare acutamente le rilevanti differenze tra il film e il romanzo di Dick cui si è fatto poc’anzi cenno: in entrambe le opere l'inganno è ordito ai danni di una sola persona (Truman nel film, Ragle Gumm nel testo dickiano), però il romanzo si apre ad una più ampia prospettiva politica, che è invece del tutto assente nel film; in Truman Show inoltre la scoperta da parte del protagonista di vivere in un mondo artefatto non è seguita da alcun tentativo di comprensione più profondo (prova ne siano le sue puerili discussioni con l'amico Marlon). La fuga di Truman infine è puramente individuale (e non è supportata da una lucida e chiara consapevolezza circa le inadeguatezze del mondo che si accinge a lasciare), laddove il Ragle Gumm dickiano evade per prendere parte alla lotta collettiva dei coloni lunari.
Dark City, a differenza di Truman Show, che è ambientato in un presente utopico ma falso, si svolge invece in una "strana metropoli da film noir degli anni quaranta", la quale si rivela essere altro dà ciò che sembra. In modo analogo a quanto avviene nella produzione di Dick, anche in quest'opera sono i tentativi di comprensione del protagonista, il suo curioso e ostinato interrogarsi su ciò che sta succedendo ad assicurare la messa in moto della macchina narrativa. Nel film si ravvisa inoltre il tema tipicamente dickiano dei "ricordi impiantati". Anche Dark City come Truman Show si conclude con la fuga del protagonista (Murdoch) da una realtà falsa e soffocante verso un altro mondo artificiale da lui stesso creato, verso cioè "un mondo di fantasia personale" (p. 36). Matrix presenta invece una realtà molto simile al nostro presente attuale, realtà che si rivela essere, ad un'indagine più accurata, "una terra futura dove gli uomini stanno solo sognando di essere svegli e di vivere nel XX secolo, perché in effetti sono tutti connessi via cavo a una realtà virtuale programmata da computer che li gestisce come fonti di energia a favore delle macchine che ora controllano il pianeta" (p. 35). Tale scenario ricorda - a dire di Fitting - quello del dickiano Labirinto di morte (1970), nel quale "un computer genera realtà immaginarie collettive [...] per consentire ai passeggeri di un'astronave arenata nello spazio di passare il tempo" (p. 35). La lotta collettiva (e non individuale come in Truman Show e in Dark City) contro le macchine si svolge in una dimensione sospesa in bilico tra un presente falso e un futuro in guerra, proprio come nel già citato Tempo fuori luogo. Pleasantville infine narra di due adolescenti provenienti dal nostro presente, che vengono trasportati in un mondo in bianco e nero, una piccola città immaginaria degli anni Cinquanta la cui immagine contiene esplicite allusioni a serie televisive di quegli anni (come Ozzie and Harriet o Father Knows Best). Questo film, diversamente dai precedenti, "offre una critica della fantasia ideologica dell'America dei piccoli centri anni '50" (p. 37), come dimostra la scelta coraggiosa del protagonista Bud, che lentamente matura la decisione di abbandonare il mondo fantastico di Pleasantville e impara ad accettare il presente, pur essendo consapevole del terrore e dei rischi che lo caratterizzano. Fitting conclude la sua esauriente analisi evidenziando uno scarto significativo tra la succitata filmografia e l'opera di Dick: mentre infatti nei film qui esaminati al mondo artificiale si contrappone una sola vera realtà, nei romanzi delle scrittore americano non sempre lo svelamento della realtà artefatta è seguito dal ritorno alla realtà autentica, anzi la maggior parte degli stessi, con i loro finali ambigui e aperti, "rifiutano di risolvere i nostri dubbi su cosa sia reale" (p. 40); esemplari a tal proposito sono soprattutto Le tre stimmate di Palmer Eldritch e Ubik. Fitting richiama infine l'attenzione su una questione cruciale, ovvero sulla necessità di rinunciare a fornire "un'interpretazione complessiva e globale dell'opera di Dick, che risulta invece criticamente valida (nonché di stretta attualità nel contesto storico in cui viviamo noi oggi) proprio per l'atteggiamento ambiguo con cui tratta il tema del "problema della realtà".
Seguono due saggi, il primo (La vita degli androidi è sogno), a cura di Carlo Pagetti, professore di letteratura inglese moderna e contemporanea presso l'Università degli studi di Milano, nonché uno dei massimi studiosi italiani di Dick, e il secondo (Paesaggio con rovine ed elettrodomestici) a cura di Gabriele Frasca, saggista, poeta, romanziere e traduttore che lavora presso l'Università per stranieri di Siena, testi che appaiono all'interno della più recente traduzione italiana di Do Androids Dream of Electric Sheep? (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, 2000), in qualità, rispettivamente, di introduzione e postfazione. Pagetti rileva in questo suo studio, con il consueto acume, non soltanto il carattere anticipatore (enfatizzato anche nel saggio di La Polla) e la vena aspramente polemica dell'opera dickiana (che "esplora criticamente l'universo instabile dell'immaginario scientifico e il suo impatto sull'Individuo, prigioniero di grandi poteri de-umanizzanti", p. 47), ma anche la forte impronta autobiografica che la contraddistingue (laddove la Sf è per tradizione un genere che si sottrae alla "tentazione autobiografica"). Proprio il vissuto tumultuoso e disordinato avrebbe, a dire di Pagetti, imprigionato tenacemente lo scrittore nelle proprie maglie, impedendogli così di imporsi e di sfondare nella cultura postmoderna, divenuta nel frattempo "sempre più fashionable" (p. 49), e costringendolo dunque a rimanere "fuori dalla porta a raccontare le sue storie atroci e visionarie" (p. 51). La "storia" qui presa in esame, Do Androids Dream of Electric Sheep?, che non trova inizialmente molti estimatori e che Dick stesso, in un'intervista del 1977, non include tra le sue opere più importanti, viene "recuperata" e rivalutata soltanto nel 1982 (l'anno della morte dello scrittore), grazie all'uscita sugli schermi del film di Ridley Scott, Blade Runner. Il romanzo dà voce a un'ossessione che abita la mente di Dick, quella dei simulacri artificiali che si erano imposti su larga scala all'immaginario americano (si pensi in particolare al parco giochi di Disneyland, non lontano dalla casa di Dick, e alla bambola Barbie, che invade il mercato americano a partire dal 1959). Questo romanzo, che secondo Patricia Warrick apparterrebbe, insieme all'apocalittico In senso inverso e Ubik, alla terza fase di Dick (il cosiddetto "periodo entropico"), rappresenterebbe un superamento di un genere Sf ben definito e si configurerebbe come "opera di ibridizzazione" in cui generi considerati marginali come il fantastico puro, il gotico e il poliziesco si mescolano sapientemente ed efficacemente. Pagetti ritiene, a ragione, che il film di Scott, pur distaccandosi in modo evidente dalla fonte dickiana (la differenza forse più clamorosa consisterebbe, secondo lo studioso, nell'avere reso totalmente umani i replicanti e nell'avere eliminato i motivi religiosi e il ruolo giocato dagli animali artificiali), è però capace di catturarne e riprodurne "la visione tragica e insieme grottesca [...] accentuando la metamorfosi del "genere" Sf in un noir cupo e metafisico" (p. 57).
In questo romanzo, che Pagetti definisce il più "cristiano" tra quelli dickiani, uomini e androidi - ormai così simili al punto da risultare indistinguibili - "sognano davvero pecore elettriche", sognano anche "una vita migliore, senza servitù. Forse talvolta sognano l'agnus Dei, l'agnello divino, reincarnatosi in una creatura artificiale, che redime dai peccati del mondo coloro che credono in lui" (p. 62).
Gabriele Frasca, autore del quarto e ultimo intervento, esordisce rilevando lo scarto evidente tra un anno così carico di "valenze utopiche e improrogabili sorti progressive" (p. 66) qual è il 1968 e la visione di mondo futuro così altamente distopica presentata dal romanzo di Dick (Do Androids Dream of Electric Sheep?), pubblicato proprio in quell'anno. Del resto, come ben ci ricorda lo studioso, Dick crea nelle sue pagine universi futuri o paralleli per "consentire al sempre ipocrita lettore di perforare l'eterna festa disneylandese dell'''asilo globale" " (p. 67). Mettendo a confronto testo letterario e rilettura filmica (confronto che già abbiamo incontrato nei saggi di La Polla e di Pagetti), Frasca individua una differenza sostanziale: i due sceneggiatori, Hampton Fancher e David Peoples, avrebbero infatti accentuato l'ansia di liberazione e di "rivoltai' degli androidi dalla loro "origine" umana (insita nella programmazione dei loro circuiti, da attribuirsi per l'appunto agli uomini), rivolta che assume la connotazione di "una discesa agl'inferi edipica e titanica" (p. 75). Se nel romanzo l'interdetto sessuale (tra Rick Deckard e l'androide Rachel Rosen) dà vita ad alcune pagine di rara intensità, esso viene invece rimosso ed abolito completamente nella versione filmica di Scott, in cui "l'amore per le proprie protesi mediali" assume un tono idillico e suona come una sfida alla morte e all'inorganico. L'amore per/con l'inanimato simboleggia nel romanzo la complessiva degenerazione e dissoluzione di un intero universo, processo che vede coinvolti tanto gli androidi quanto gli umani. In questo desolante paesaggio con rovine tutto è irrimediabilmente inautentico, non da ultimi gli stessi sentimenti, ivi compresa la passione per i pochi animali sopravvissuti. Gli animali sono infatti un mero status symbol e "la loro vita è per gli uomini che li posseggono tanto preziosa quanto la loro quotazione sul Catalogo Sidney" (p. 78).
Il volume contiene inoltre una ricca bibliografia critica curata da Carlo Pagetti, la filmografia dickiana, una breve nota bio-bibliografica dei quattro autori e alcune foto tratte dai film Atto di forza, Screamers, Impostor e Blade Runner.
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