La questione della verità in due celebri romanzi di Ph. K. Dick
di Marcello Landi
Philip Kindred Dick (1928-1982) è un noto scrittore di fantascienza che sta godendo, anche ai giorni nostri, di fama crescente. Tra i suoi temi, fondamentale è quello della difficile ricerca della verità in un mondo di apparenze. La conoscenza della verità, peraltro, è, per tutti gli esseri umani, una delle esigenze fondamentali della vita (insieme con quella di amare ed essere amati): come dice Aristotele, "Tutti gli uomini per natura aspirano al sapere" (1). Esemplari per comprendere la posizione di Dick sono i romanzi La penultima verità (The Penultimate Truth, 1964), pubblicato dall'editrice Nord di Milano nel 1981, e Deus Irae (1976), edito con lo stesso titolo dell'edizione originale da Fanucci (Roma, 2001), che ci pare possano utilmente essere letti insieme.
Cominceremo il nostro studio dal primo di essi.
La penultima verità è un romanzo che, fin da subito, delinea una riproposizione del platonico mito della caverna (2): ci presenta, infatti, la maggioranza degli uomini costretta a vivere in enormi rifugi sotterranei, ciascuno ospitante una (quasi) autosufficiente comunità che potrebbe far pensare ad un falansterio alla Fourier, se non fosse sottoposta al controllo di un commissario politico inviato dal governo centrale. Quindici anni prima dell'azione del romanzo, cosi si viene a sapere, è cominciato un devastante conflitto, che ha costretto l'umanità a cercare scampo sotto terra. Solamente pochi individui sono rimasti all'aperto. In realtà, la guerra si è conclusa dopo un paio d'anni, ma le persone che guidano il mondo non lo hanno rivelato alle masse rinchiuse nei cosiddetti "formicai". Anzi, le potenze ex-nemiche sono ormai alleate nel simulare la prosecuzione della guerra per mantenere nell'inganno il popolo e meglio sfruttarne il lavoro.
I riferimenti alla cultura germanica
Appare abbastanza evidente, tra l'altro, un richiamo alla divisione della società in un mondo di sopra, dove vivono i signori, e un mondo di sotto, abitato dagli operai-schiavi, presentata in Metropolis di Fritz Lang (1927). Se consideriamo il profondo interesse di Dick verso la cultura tedesca, oltre all'importanza del film in sé, possiamo essere certi che il nostro autore lo conoscesse.
La sua scrittura, in effetti, non rifugge dal citare parole in altre lingue: vuoi classiche, come le espressioni latine dominus e Dies Irae o il greco omphalos, vuoi moderne, come il tedesco Festung: il che rivela indirettamente in quali ambiti culturali andare a cercare le fonti ispiratrici dell'opera. Per quanto riguarda la Germania, anche in questo libro, come in altri dello stesso autore, la sua "presenza" è molto rilevante; infatti: sono di produzione tedesca i due automi umanoidi, uno per gli Stati Occidentali e uno per quelli Orientali, mostrati agli abitanti dei formicai come affidabili capi politici dalla propaganda televisiva; è tedesco il regista Gottlieb Fischer sui cui finti documentari tutto il castello di fandonie è costruito: Fischer, inoltre, è descritto come "erede della UFA, la vecchia società cinematografica del Reich" (p. 68) (3).
A Berlino ha sede l'importante istituto psichiatrico a cui, esplicitamente o implicitamente, in varie occasioni ci si richiama; è di fabbricazione tedesca perfino il robot assassino che appare in scena nel capitolo XVIII: si tratta di una macchina chiamata Gestalt-macher (produttrice di forma), in grado sia di uccidere senza inutili sofferenze - Dick non resiste alla tentazione di introdurre un commento pungente: "il che, per una mente tedesca, rende l'omicidio moralmente accettabile" (p. 168) - sia di lasciare una serie di false tracce per depistare le indagini, caratteristica, quest'ulti.ma, a cui il dispositivo deve il suo nome: la macchina, anzi, produce indizi e prove in quantità esagerata, ma quella "era la mentalità tedesca, l'amore per il Gestalt" (4), il quadro complessivo" (p, 139). Per quanto riguarda il mondo classico, molti autori sono nominati nel testo come modelli ispiratori sia per gli aspetti formali sia per i contenuti e i valori.
Non mancano, infine, richiami alla Bibbia, come l'allusione al peccato originale (pp. 95 e 183).
Tali interessi, naturalmente, ritornano anche nel romanzo Deus Irae, di cui più sotto. Gli abitanti di un formicaio non hanno altro contatto col mondo esterno che un "gigantesco schermo" occupante "l'intera parete di fondo" del salone comune: "quella era la loro finestra, la loro sola finestra sul mondo: ed erano abituati a prendere sul serio ciò che vi appariva" (p. 14), descrizione che rafforza enormemente il richiamo ai prigionieri di Platone, i quali appunto prendono per vere le ombre sul fondo della caverna. Più avanti nel testo, un personaggio del mondo di sopra, Verne Lindblom, conferma la fede degli abitanti dei formicai nelle notizie, false, che arrivano dallo schermo e nella cui costruzione gli stesso ha delle responsabilità: essi, dice, "credono a ciò che noi raccontiamo loro alla TV tutti i giorni, e due volte al giorno il sabato, per buona misura" (p. 51).
Il difficile rapporto con la verità è ben espresso dal correlativo oggettivo della nebbia, la quale entra in scena già alla prima riga del romanzo, per poi ritornare ricorrentemente. In particolare, questo simbolo è legato al personaggio di Joseph Adams, che la descrive come "quella nebbia interiore ed esteriore, che tutto avvolge e tutto divora, che mi sottrae la vita" (pp. 189-190). Adams fa il logografo (5), in quanto è uno degli scrittori dei discorsi che pronuncia Talbot Yancy, l'automa antropomorfo presentato alle masse come colui che governa l'Occidente col titolo di Protettore (6).
Adams, quindi, è, così come Lindblom, uno dei cosiddetti uomini-Yance, gli uomini che, con compiti diversi, lavorano per tenere in piedi la messa in scena che inganna il popolo.
Mi pare significativo notare l'assonanza dell'espressione inglese Yance-men con Yes-men, gli uomini che dicono sempre si; si tratta, infatti, di uomini dell’apparato, funzionali al potere, assuefatti a mettere a tacere la coscienza: La banalità del male di Hannah Arendt è uscito nel 1963, ossia l'anno precedente la pubblicazione del romanzo di Dick, il quale in effetti non tralascia un giudizio morale sui suoi personaggi, rilevando che gli uomini-Yance "erano egoisti... a spese di milioni di abitanti dei formicai" (p. 53) e che, in definitiva "servivano un cattivo padrone: e lo sapevano" (p. 65). Il potere è un cattivo padrone, certamente, ma si può facilmente capire che anche l'egoismo non ci spinge verso un padrone buono: noi non siamo dei buoni padroni di noi stessi.
Un lettore italiano, a questo punto, può facilmente pensare ad una famosa pagina de I promessi sposi, alla fine del capitolo XXIII, quando l'Innominato, che ormai si è accorto di aver lavorato per un pessimo padrone, cioè sé stesso, si rivolge a don Abbondio con la convinzione che almeno lui lavori per "Uno che paga bene"! Al di là dell'ironia della situazione manzoniana, ci valga questo come esortazione a cercarci un Padrone buono, visto che noi non lo siamo, un Padrone che non ci chieda di sacrificare la nostra vita per i suoi interessi (come avviene nel libro di Dick), ma che, al contrario, si riveli disposto a dare la sua vita per noi, come fa il Buon Pastore!
Adams si rende conto dell'ingiustizia in cui e di cui vive; e ne prova disagio, sentendosi assediato e perfino interiormente invaso dalla nebbia: la nebbia della non-verità.
Tuttavia, fatica a fare scelte conseguenti. Intanto, un grave problema, la necessità di cercare un organo artificiale per uno dei suoi collaboratori, unita a forti pressioni da parte dei suoi uomini (che giungono anche alle minacce) spinge Nicholas St. James, in qualità di presidente di un formicaio, a decidere di uscire all'aperto, vincendo le paure della guerra, delle violenze e delle malattie. Si tratta, ancora una volta, di un richiamo alla situazione descritta da Platone, nella quale colui che sale fino ad uscire all'esterno della caverna non esce volontariamente, ma forzatamente e con sofferenza.
La ricerca della verità
È interessante notare che una dottoressa in cui St. James ha molta fiducia esprime perplessità nei confronti di ciò che lo schermo propina a tutti loro: nel presentarne il personaggio, Dick cita esplicitamente il tema della verità: "lei, e questa era una dote molto rara, riusciva a capire sempre la verità... viveva della verità" (p. 11). I suoi sospetti sono quindi indizi molto importanti. Ha ormai preso a dipanarsi, a questo punto, un racconto in parte avventuroso in parte investigativo, in cui la ricerca della verità si snoda attraverso più livelli, anche a causa, come abbiamo parzialmente visto, di un accumulo di falsificazioni su falsificazioni: i discorsi di Yancy non sono veramente suoi; la guerra non c'è più, e Yancy mente su di essa commentando le artefatte distruzioni di città mostrate sullo schermo a chi vive nei formicai; Yancy stesso non esiste realmente, in quanto è solo un automa umanoide presentato in TV come capo politico... Nel prosieguo del testo, emergerà un'ulteriore piega della vicenda, che qui non mette conto ricordare, ma che s'impernia su un giovane e misterioso uomo-Yance, David Lantano, fino al classico topos letterario del riconoscimento.
Nel simulacro Yancy, è certamente scoperta l'allusione ai politici-fantoccio di cui è disseminata la storia... Ma questo non esaurisce il tema affrontato da Dick. L'impressione che prova lo stesso Adams di fronte alle macchinazioni che il suo superiore, il potente ministro degli Interni Stanton Brose, va ulteriormente tramando, è di avere a che fare con una specie di serie di scatole cinesi. “Uscivi da una porta solo per entrare in un ambiente nuovo" (p. 36). Risulta abbastanza evidente che, su un piano puramente politico, romanzi di questo genere possono avere un effetto deleterio sul pubblico, alimentando e fortificando una mentalità complottista, propensa a spiegare tutti gli avvenimenti importanti come esiti di falsificazioni e imbrogli più o meno ben confezionati da parte di pochi potenti a danno della maggioranza. Ma è altresì evidente che Dick insiste sul fatto che le falsificazioni non sono mai perfette: l'errore alla fine è ineliminabile, e la speranza quindi rimane sempre.
Inoltre, cosa ancor più importante, l'interpretazione puramente politico-sociale non è quella definitiva: il romanzo si accampa su una problematica ben più profonda, che riguarda il piano ontologico e gnoseologico. Anche nell'epistemologia platonica, peraltro, vi sono più livelli di realtà e (rispettivamente) di conoscenza, di cui due attengono alla sfera dell'opinione e due a quella della scienza. Qui, però, si ha l'impressione che i livelli tendano a moltiplicarsi, rendendo impervia la scalata verso la luce e la verità ultima: ogni volta che ci si libera di una falsificazione o si evita un depistaggio e si crede di aver trovato la verità, si scopre di non aver ancora raggiunto una conoscenza definitiva: manca ancora sempre un ulteriore passaggio. Rimane così la domanda: dato che il romanzo si intitola La penultima verità, la verità ultima dov'è?
Possiamo rimandare momentaneamente la trattazione di questo punto, per considerare che il contrasto verità-apparenza è ben attestato nella fantascienza: certamente si può citare il romanzo Città delle illusioni di Ursula Le Guin, uscito originalmente nel 1967, ma ci si può volgere anche al cinema, pensando a pellicole quali Matrix dei fratelli Wachowski o eXistenZ di David Cronenberg, entrambi del 1999, oppure Inception di Christopher Nolan, del 2010. D'altronde, un po' tutta l'età moderna si è interrogata su questo tema: si pensi all'Orlando furioso di Ludovico Ariosto, in particolare all'episodio dell'isola di Alcina, oppure si pensi, in Shakespeare, alla visione del mondo come teatro, o anche, in Calderon de la Barca, alla vita come sogno.
L'illusorietà e la precarietà di tutto ciò che ci circonda è bene espressa, inoltre, dalla pittura di nature morte che inizia ad imporsi in età barocca: una per tutte, citiamo solo l'opera di un autore ancora non identificato con sicurezza, quella Fiasca con fiori che Antonio Paolucci, allora direttore dei Musei Vaticani, ha definite "il quadro più bello del mondo" (7). Orbene, anche Dick, per il quale, infatti, si è parlato di neobarocco (8), nel riferirci di un investigatore che sta per entrare sul luogo di un omicidio non rinuncia a farlo fermare un attimo a riflettere "sulla vanita della vita, sul fatto che la carne torna sempre cenere" (p. 134).
Ma torniamo alla domanda sulla verità ultima: se c'è una verità penultima, evidentemente ne deve esistere anche una definitiva, ultima. Ma nel romanzo non se ne parla mai: a dirla con franchezza, non si parla neanche, esplicitamente, di verità penultima!
Per cui, benché gli avvenimenti giungano, in qualche modo, a scioglimento, si ha come l'impressione che l'esigenza espressa implicitamente dal titolo non risulti del tutto soddisfatta. Se fossimo, insomma, in una quaestio medioevale sulla verità, potremmo dire che qui si chiude solamente il primo articolo della questione stessa, perché ancora il tema non è stato completamente sviscerato: occorrerà dunque che la questione presenti un secondo articolo, che, nel nostro caso è costituito da un secondo romanzo di Philip Dick, Deus Irae, scritto in collaborazione con Roger Zelazny (9).
Il richiamo al Rinascimento Italiano
La gestazione, da un'idea del primo, fu abbastanza lunga, una dozzina d'anni; il secondo venne coinvolto in quanto più esperto di questioni teologiche. Il titolo, in latino, significa Dio dell'Ira, ma presenta una forte assonanza con Dies Irae (10), il Giorno dell'Ira: e di "Dies Irae" si parla esplicitamente nel testo (p. 35). In effetti, giochi di parole, parodie, nonché una pervasiva ironia, caratterizzano l'intero lavoro. Linguisticamente, si incontrano talvolta citazioni latine o in greco antico, ma soprattutto tedesche, tanto che alcune pagine possono essere meglio gustate da un lettore che conosca tale lingua. Si suggerisce umilmente all'editore di apporre l'avvertenza: è gradita la conoscenza del tedesco!
Le scene iniziali sono ambientate a Charlottesville, Virginia, dunque negli USA, in un mondo futuro che appare tragicamente devastato: vi è stata una grande guerra, che ha visto l'impiego di armi terrificanti e disumane, alcune delle quali, si sottolinea nel romanzo, di fabbricazione americana (pp. 34-36) (11).
L'immane conflitto ha portato alla morte miliardi di persone ed ha provocato frequenti gravi mutazioni genetiche nei sopravvissuti; ha notevolmente influito anche sulla cultura, sia sotto l'aspetto materiale, con un grave regresso tecnico, sia sotto l'aspetto spirituale, con la nascita di una nuova religione, basata sul culto di colui che era stato direttore dello statunitense "Ente per lo sviluppo e la ricerca dell'energia" (ERDA - Energy Research and Development Agency), Carleton Lufteufel, il responsabile dell'esplosione della bomba più distruttiva. Dal punto di vista lessicale, Carleton è chiaramente legato a Charlotte (primo elemento di Charlottesville), mentre Lufteufel in tedesco significa Diavolo dell'aria: la terribile bomba è appunto esplosa nell'alta atmosfera. Questo Lufteufel è visto, dai seguaci della nuova religione, i cosiddetti Servi dell'Ira (abbreviato in SOW - Servants of Wrath), come la manifestazione del loro nuovo dio, il Dio dell'Ira.
Il testo presenta a più riprese discussioni teologiche, o anche duelli verbali, tra Cristiani e Servi dell'Ira sul senso della vita, sul dolore, sulla violenza, sulla natura di Dio... Si fa anche variamente ricorso alle fonti più disparate, con citazioni, richiami o allusioni: Platone, Aristotele, la Bibbia, Tommaso d'Aquino... perfino Benito Mussolini (ricordato per la sua dottrina dell'attivismo). Tra i giochi di parole si può porre anche il fatto, forse ironico, che il pastore della Chiesa "eretica" porti il titolo di "Padre", mentre quello della Chiesa cristiana (protestante, s'intende) quello più laico di "Dottore",
L'impianto narrativo è basato sulla volontà della Chiesa del Dio dell'Ira di far preparare un affresco col ritratto di Lufteufel. Ne è incaricato l'eccellente artista Tibor McMasters, un pittore focomelico, privo di braccia e di gambe, che si sposta su un carretto trainato da una mucca e dispone di un paio di mani artificiali: per questo, potremmo definirlo un cyborg. La parola master deriva dal latino magister, maestro, mentre Tibor suona un po' come Tiber, ossia Tevere. Lo stile di Tibor, peraltro, ricorda quello dei grandi Maestri del Rinascimento italiano (p. 220). Insomma, è come se si chiamasse Tevere de Magistris: sicché sia nello stile sia nel nome è molto forte il richiamo all'Italia, in particolare ai pittori rinascimentali attivi a Roma. McMasters è, nel piccolo ambiente di Charlottesville, il pittore ufficiale della sua Chiesa, una specie di pictor papalis, come ad esempio lo fu Melozzo nella Roma del Quattrocento.
Questa ufficialità viene ulteriormente rafforzata quando a McMasters, forse capziosamente, viene fatto intendere che non semplicemente la chiesa locale lo abbia scelto per l'affresco, ma lo stesso "capo dei Servi dell'Ira" (cf. pp. 185-186). Proprio per compiere l'affresco commissionatogli, Tiber McMaster deve intraprendere un "Pellegrinaggio" allo scopo di trovare Lufteufel, coglierne al meglio il vero volto e fotografarlo.
Siamo quindi davanti alla parodia della ricerca del volto di Dio. Leggiamo nel libro dei Salmi: "L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente. Quando potrò venire a contemplare il volto di Dio?" (42/43, 3). Il diavolo spesso scimmiotta la verità, come sappiamo. Anche per una persona sana il viaggio sarebbe assai rischioso, ma lo è oltremodo per un focomelico. Tuttavia Tibor, sia pure dopo qualche esitazione che lo porta perfino a considerare di cambiare Chiesa e farsi cristiano per sfuggire al dovere di compierlo, parte ugualmente. Fra i pericoli, grave è quello, poco fuori Charlottesville, del "Grande C", un enorme computer prebellico con qualche problema di funzionamento, le cui estensioni mobili, umanoidi, fermano i passanti, ai quali chiedono di porre tre domande a cui il Grande C possa rispondere, per poi trascinarli all'interno dei locali dell'elaboratore allo scopo di ucciderli. Sono evidenti i richiami, ironici e parodistici, a miti greci come quello della Sfinge col suo indovinello. Altrettanto evidente è la diffidenza di Dick per le macchine, tendenzialmente portatrici di morte (12), una diffidenza già presente anche ne La penultima verità, se pensiamo ad esempio alla macchina assassina Gestalt-macher (di cui sopra), o anche al fatto che, quando la vita di St. James dipende dalla valutazione di due robot, questi, nell'impossibilita momentanea dl consultare il loro padrone, decidono di ucciderlo (in realtà non ci riescono perché vengono essi stessi distrutti prima) (13).
Il Grande C, peraltro, è anche il titolo di un racconto di Dick, uscito nel 1953 a cui i relativi episodi del romanzo si ispirano largamente; inoltre, non si può escludere un rapporto tra l'espressione "il Grande C" e la scelta di Charlottesville come teatro dell'azione, dato che l'abbreviazione popolare per Charlottesville è appunto Cville, o C'ville, la città di C. Va anche aggiunto, però, che la sorella gemella di Dick, la quale morì poco dopo la nascita, si chiamava Jane Charlotte. Il che rimanda l'interpretazione alle difficoltà familiari incontrate dal giovane Philip.
Il richiamo all'Alice di Lewis Carroll
Un secondo grave pericolo a cui Tibor sfugge è quello di un grande verme, sedicente custode di un preteso "bene preziosissimo", in realtà costituito da materiale da discarica: la bestia assale McMasters, che riesce ad ucciderla. Qui siamo di fronte alla parodia dei miti nordici relativi al drago custode di tesori (14). L'aver toccato il verme conferisce a Tibor la possibilità di capire il canto di un uccello mutante, giocosamente definito un "teilhard de chardin2 (15), che per un po' gli fa da guida, verso New Brunswick, Ohio. Si coglie, qui, un ulteriore richiamo alla Germania, dove infatti sorge la Brunswick originale; peraltro, anche la mucca di Tibor è una Holstein, o Frisona (cioè appartiene ad una razza originaria della Germania), e sovente nel racconto si citano ditte tedesche... Si tratta di indizi che vieppiù confermano il fascino che Dick avvertiva nei confronti della cultura germanica...
Quando Tibor è ancora lontano dall'abitato, si stacca una ruota del carretto, ed il pittore è così bloccato. L'uccello lo lascia per cercare aiuto, ma non lo si vedrà più (16)…
Solo il cagnolino Toby giunge a consolare il povero pittore che teme ormai di morire di inedia, bloccato e abbandonato. La scoperta allusione, in questo caso, è al cane di cui si parla nel biblico libro di Tobia (17), con la variante che nel romanzo il cane non accompagna Tobia e l'angelo, ma si chiama esso stesso Tobia. Inoltre, Tibor è quasi un anagramma di Tobit o Tobias, che è il titolo inglese (di derivazione greca e latina) del libro. In questo frangente, si colloca uno dei momenti mistici del romanzo: a Tibor si manifesta non l'arcangelo Raffaele, ma una strana apparizione del Dio dell'Ira, al termine della quale, però, la situazione rimane immutata: il pittore è ancora solo, senza la foto di cui aveva bisogno e sempre col carretto rotto.
Di altre apparizioni mistiche ha fatto esperienza anche il giovane cristiano Peter Sands, detto Pete. A parte l'ovvio richiamo a San Pietro, si noti però che "sand" vuol dire sabbia. E un nome come Pietro Sabbie sembra proprio un ossimoro (18): l'ironia continua ad attraversare il racconto... Le visioni di Sands, va detto, sono provocate dall'uso di droghe, a cui Pete fatica a rinunciare. Purtroppo, vediamo qui un richiamo allo stesso Dick, che conobbe gravi problemi proprio per la sua tossicodipendenza.
Pete decide di seguire MacMasters, ma la sua missione è piuttosto vaga. Chiaramente, ai Cristiani di CharlottesvilIe dispiacerebbe che i Servi dell'Ira realizzassero il loro affresco con il ritratto di Lufteufel. Ma certamente, in quanto cristiano, Pete non può né fare violenza al pittore né uccidere lo stesso Lufteufel! In realtà, Pete finisce per soccorrere Tibor e aggiustargli il carretto.
Carleton Lufteufel, che viene sempre già descritto come un'incarnazione diabolica, è effettivamente vivo, ma, a seguito di un'esplosione avvenuta durante la guerra, una quantità imprecisata di schegge gli si è conficcata nella testa: ogni tanto, una di esse riemerge, ed egli deve estrarla provocandosi grande sofferenza e abbondanti sanguinamenti. In un'occasione, ci si fa sapere che il suo volto, coperto di sangue, macchia uno straccio lasciandovi impressa un'immagine, come una Sindone o una Veronica.
Ancora una volta, il diavolo scimmiotta Dio... Lufteufel vive (né si sa perché) con una ritardata mentale di nome Alice, facendole da padre. Si può supporre un richiamo all'Alice di Lewis Carroll; in effetti, il richiamo acquista certezza morale se ricordiamo che Joseph Adams, il personaggio a cui è dedicato il primo capitolo de La penultima verità, "aveva sempre desiderato" di possedere e di poter leggere proprio "Alice nel Paese delle Meraviglie" (19). Anche ad Alice toccherà una straordinaria esperienza mistica, legata alla morte di Lufteufel.
Costui, travestito e irriconoscibile, si unisce a Pete e con lui raggiunge McMasters; ma gli uccide il fedele e amato Toby, cosa che provoca l'ira di Tibor, il quale, grazie alla forza delle sue braccia meccaniche, lo strangola, sollevandolo in alto (in alto come Cristo sulla croce?). La ricerca di Carleton prosegue, a questo punto (inconsapevolmente per Tibor, ma oggettivamente) senza più speranza, fino a che Pete, che ha capito chi Tibor abbia ucciso, riesce a presentare al pittore un povero barbone che, prezzolato, si spaccia per Lufteufel. Tibor lo fotografa, torna a casa con l'amico e compie il suo affresco. Col volto sbagliato! Nel frattempo, lo "spirito" di Carleton, guarito (senza più schegge in testa) e rasserenato, appare ad Alice, per poi dissolversi in particelle di luce. Ella non solo capisce che il suo "papà" è stato liberato dal "male" che aveva dentro ma acquista addirittura una sana facoltà di comprendere il mondo.
Il miracolo, però, non si limita alla sola Alice: anche a Charlottesville, prima ancora del ritorno del pittore pellegrino, si diffonde una "nuova vita": "Chissà come, è arrivata la bontà", pensa il pastore della Chiesa cristiana. E, ritenendo che il cambiamento sia dovuto alla missione di Tibor, riflette: "E così, [...] per mezzo di un progetto architettato dall'astuzia e dall'ambizione degli stessi Servi dell'Ira, noi Cristiani, palesemente sconfitti, trionfiamo; questo ritratto ha dato inizio al processo di deperimento del loro dio ... ". Infine prevede: "i Servi dell'Ira insisteranno sulla sua autenticità, accelerando la loro stessa caduta" (pp. 217-218).
"A diciassette anni dalla morte di Tibor", la previsione dimostra di cominciare ad avverarsi, perché "la gerarchia dei Servi dell'Ira promulgò una dichiarazione solenne di autenticità, Si trattava incontrovertibilmente del volto del Dio dell'Ira, Carleton Lufteufel. Non c'erano dubbi", ragion per cui si comminavano pene tremende a chi avesse osato sollevarne (p. 220). Ancora una volta l'ironia dilaga. Interessante, però, è che anche nella storia del mondo l'ironia è presente, non solo in letteratura: tante volte succede che chi agisce per ottenere un risultato, proprio perché ha agito, favorisce o addirittura provoca l'effetto opposto!
Il Dio gnostico di Dick
Deus Irae solleva diversi problemi interessanti, tra cui quello della verità delle religioni in generale e del Cristianesimo in particolare; e perfino quello della verità dello stesso mondo fisico: ma si tratta di questioni tra loro connesse. La visione del mondo che ne emerge, infatti, è quella di un certo gnosticismo (20), dominato dall'acosmismo, dal rifiuto del mondo materiale, visto o come una prigione o ancor più come una mera parvenza: il mondo fisico, insomma, viene considerato come irreale: la vera realtà è solo quella spirituale. Potremmo pensare ad Eraclito: "La natura ama nascondersi" (Fr. DK 123); o ancor meglio a S. Paolo: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto" (l Cor 13,12); con l'avvertenza, però, che, al contrario dello gnosticismo di Dick, S. Paolo non nega la realtà di questo mondo.
Comprendiamo adesso anche in che senso quella che si riusciva a scoprire nel romanzo del 1964 fosse solo una verità penultima: anche se demoliamo tutte le truffe e gli imbrogli che si affastellano su questo mondo e raggiungiamo la nuda verità naturale, non siamo che di fronte ad una verità non definitiva, perché questo mondo, in sé stesso, non rappresenta la verità ultima. In tal modo, il romanzo Dies Irae ci aiuta a comprendere più profondamente il messaggio de La penultima verità. Con esso, insomma, si chiude la questione sulla verità per come la intende Philip Dick: purtroppo, si chiude in maniera non del tutto priva di problemi.
Cominciamo col dire che il Cristianesimo è largamente presente nell'opera e nel pensiero di Philip Dick, ma il Cristo a cui ci si riferisce risulta quello gnostico, non quello della fede della Chiesa. Dick stesso se ne rende conto e lo dichiara, quando riflette sulla sua opera (21). Ma qui appunto sta il problema, perché la visione gnostica depotenzia l'opera stessa di Gesù. Certamente, il romanzo fa riflettere sul fatto che non sempre chi sembra umanamente sconfitto lo sia davvero; e certamente si può pensare a Gesù che, con la sua morte in croce, ha sconfitto "il principe di questo mondo" (22), quel diavolo a cui il personaggio di Lufteufel allude e che sembra possedere Carleton fino a che la morte non lo libera.
Però, il punto è che la liberazione portata da Cristo risulta vera, se la sua morte è vera; e la morte di Gesù è vera solo se questo mondo non è un'illusione, non è un'apparenza, non è irreale. "Scimus Christum surrexisse a mortuis vere", "Sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti" dice un celebre inno (23). Il "veramente" è tanto importante che, nel testo originale latino è posto a fine verso, per meglio evidenziarlo. E veramente vuol dire non allegoricamente, non simbolicamente, non apparentemente... Solo se ammettiamo la realtà del mondo, dunque, possiamo davvero concludere con la più grande ironia storico-teologica che si possa concepire: il diavolo, che è riuscito a ottenere la condanna a morte di Gesù, proprio con questa condanna provoca la propria definitiva sconfitta!
Lo sfondo gnostico, insomma, impedisce a Dick, purtroppo, di vedere la realizzazione di quella completa rivelazione e liberazione a cui così fortemente aspira.
"Dux vitae mortuus regnat vivus".
Il Signore della vita, dopo esser morto, regna vivo!
NOTE
1 Metafisica, I, 980a. Per un approfondimento filosofico-teologico sulla verità, rimando a Tommaso d'Aquino, Quaestio disputata de veritate. Una buona edizione italiana è: Le questioni disputate, I, La verità, ESD.Bologna 1992.
2 Il mito, che descrive la comune condizione umana, si può riassumere come segue. Immaginiamo degli uomini che fin da piccoli siano chiusi in una caverna e incatenati in modo da rimanere sempre immobili: possono solo vedere, proiettate sul fondo della caverna davanti a sé, le ombre degli oggetti che altri, alle loro spalle e nascosti da un muro, trasportano sulla testa; un'eco fa loro credere che le voci provengano dal fondo della caverna. Questi uomini possono solo ritenere quelle ombre come l'unica realtà, Se uno di loro fosse liberato e costretto a salire faticosamente fino all'uscita, sarebbe inizialmente disorientato. Però, una volta ben ambientatosi, proverebbe pietà per i vecchi compagni e vorrebbe liberarli, ma anche questo compito sarebbe non facile e pericoloso. V. Platone, Repubblica, VII, 514a-517a.
3 Pare interessante il fatto che l'ispirazione per la creazione sistematica di menzogne sia attribuita a un tedesco "post-nazista", se pensiamo che il responsabile dell'Agenzia Stefani durante il regime fascista, Manlio Morgagni, sosteneva esservi una fondamentale differenza fra la propaganda tedesca e quella italiana, e lo sosteneva nella prima fase della seconda guerra mondiale, quando i due Paesi erano alleati: gli Italiani sceglievano quali fatti rendere pubblici e come presentarli; i Tedeschi semplicemente e regolarmente falsificavano i fatti stessi. Questo peculiare carattere della propaganda tedesca, se anche Dick ne avesse avuto la stessa percezione di Morgagni, potrebbe essere alla base dell'assunto narrativo. Per un approfondimento sul tema, si rimanda a: R. Canosa, La voce del Duce. L'agenzia Stefani: l'arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano 2002.
4 Sic! In realtà, Gestalt in tedesco è femminile.
5 Con espressione inglese potremmo definirlo un ghostwriter.
6 Titolo che riprende quello di Lord Protettore attribuito a Oliver Cromwell (1599-1658), il quale impose la sua dittatura personale a seguito della guerra civile inglese del XVII secolo.
7 Si veda: http://www.museionline.info/musei/pinacoteca-civica-melozzo-degli-ambrogi. Una foto si trova qui: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/com-mons/9/9d/Cagnacci_Fiori.jpg. Nell'immagine non si vede molto bene, ma, nel quadrante in basso a destra, si nota un petalo che sta cadendo a terra, con effetto quasi di "animazione".
8 Cf. C. F. Conti, Dick, il tempo, il labirinto e la strategia de/la meraviglia neobarocca, che si può leggere qui: http://www.intercom.publinet.itIDick2.htm.
9 L'esperienza dei romanzi collettivi non è frequente né nella letteratura in genere né in quella fantascientifica. Un interessante esperimento italiano ebbe come risultato il romanzo Lo zar non è morto: grande romanzo d'avventure, Edizioni dei Dieci - Sapientia, Roma 1929): si tratta di un romanzo di fantapolitica la cui stesura coinvolse addirittura dieci autori, il gruppo appunto detto de "I Dieci" (Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Lucio D'Ambra, Alessandro De Stefani, Filippo Tommaso Marinetti, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Viola, Luciano Zuccoli). Per una recensione, si veda qui: http://www.fantascienza.com/7260/lo-zar-non-e-morto.
10 Come è noto, Dies irae è il titolo della famosa sequenza attribuita a Tommaso da Celano (XIII secolo).
11 La stessa pungente ironia sulle disumane armi statunitensi appare anche ne La penultima verità, cit., p. 20.
12 v. anche la Postfazione di N. Vallorani, pp. 225-226.
13 La penultima verità, cit., pp. 88-89. L'episodio viene in seguito così commentato: molti di questi robot "sono stati costruiti per uccidere... sono veterani di guerra; per loro distruggere la vita è un riflesso condizionato" (p. 106). Molte macchine, insomma, hanno un prioritario uso antiumano.
14 Si pensi, ad esempio, al poema epico Beowulf.
15 Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) è stato un noto gesuita, paleontologo filosofo e teologo francese, famoso per una sua particolare teoria evoluzionistica. Nel suo capolavoro, Il fenomeno umano (1955), presenta il punto d'arrivo trascendente dell'evoluzione, chiamandolo Punto Omega, come coincidente con il Logos cristiano.
16 Si noti che nell'Edda poetica leggiamo che anche Sigfrido, dopo aver ucciso il drago, avendone assaggiato il sangue, poté comprendere il linguaggio degli uccelli: ciò, però, a lui salvò la vita!
17 "Il giovane partì insieme con l'angelo, e anche il cane li seguì e s'avvio con loro" (Tob 6,1); "Il cane, che aveva accompagnato lui e Tobia, li seguiva." (Tob 11,4).
18 Si pensi alla parabola evangelica dell'uomo saggio che costruisce la sua casa sulla roccia e dello stolto che la costruisce sulla sabbia (Mt 7, 24-27).
19 Cfr, Ph. k. Dick, La penultima verità, cit., pp. 4-5,
20 Già ne La penultima verità, a dire il vero, si cita la "gnosis, la conoscenza segreta della realtà di quassù" (p. 182), parlando del rapporto tra il mondo dei formicai e la vita sulla superficie della Terra. È facile capire il sottinteso gradino successivo, quello del rapporto tra il nostro mondo ed un mondo segreto superiore. In Deus Irae questo rapporto emerge in maniera esplicita.
21 Si veda Ph. K. Dick, L'esegesi. 2-3-74, Fanucci, Roma 2015. I numeri nel titolo fanno riferimento ai mesi febbraio-marzo del 1974, quando Dick, a quanto riferisce, ebbe prima una rivelazione, analoga ad a1cune visioni che egli attribuisce a Peter Sands nel romanzo, e conobbe poi una specie di risveglio alla realtà, quella ''vera", ossia quella immateriale,
22 Cf. Gv 12,31; 16,11.
23 Si tratta del Victimæ paschali laudes, da cui proviene anche la successiva citazione latina.
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