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Intervista a Nicoletta Vallorani


di Roberto Sturm


Eva è un romanzo duro, crudo. Le prospettive del nostro mondo, leggendo ciò che hai scritto, non sembrano sicuramente rosee. Un futuro segnato pesantemente da conflitti etnici reali (la guerra nella ex-Jugoslavia) e da recrudescenze di guerre politico-religiose attuali. Una società dove il solco tra ricchezza e povertà è ancora più profondo, dove la diversità è vista sempre più come deformità da relegare in appositi ghetti. Il quadro che tracci è inquietante. Ciò che racconti in Eva fa parte della tua reale percezione del futuro che ci aspetta?

Forse bisogna intendersi sull'uso del termine reale. Non essendo in alcun modo versata nelle ricerche sociologiche, il mio quadro del futuro non è scientificamente attendibile. Però sì, è questo che sento, e che tuttavia, a mio modo di vedere, è ancora un rischio che possiamo arginare. Non mi sono spinta molto in là con le previsioni, e ho adottato un procedimento che non ha niente di nuovo. L'extrapolation come cardine della speculazione fantascientifica è ben presente in tutte le trattazioni teoriche sull'argomento, a cominciare da quelle di Darko Suvin. Il punto vero, però, è come rendere visibile qualcosa che viene normalmente rimosso nella nostra quotidianità, qualcosa che temiamo o con cui non sappiamo rapportarci o che semplicemente subiamo per pigrizia, eccesso di lavoro, abitudine a non usare il cervello come macchina pensante. Non ho la presunzione di vedere più in là degli altri. Semplicemente, vedo delle cose. Non so quanto siano attendibili, ma per capirlo non c'è altro modo se non farle vedere ai lettori e confrontarsi su questo.

Nell'anno in cui si svolge il romanzo, il 2023, descrivi una Milano tetra, perennemente nebbiosa e piovigginosa dove tutte le caratteristiche peggiori della grande metropoli si sono amplificate. Anche in questo caso hai espresso alcune dei tuoi timori?

Milano si vergogna di essere quello che è, già adesso. È un patchwork interessante, dove le tracce della planimetria originaria sono andate perdute nella nebbia, e la cultura dichiarata è infinitamente peggiore di quella esistente. Non ho modificato di molto la polis, voglio dire la comunità sociale e culturale: nel senso che mi pare che concettualmente Milano sia già molto simile a quella che io descrivo. Le architetture urbane sono poco familiari, ma poi, anche questo non è del tutto vero. C'è qualche esagerazione e qualche compiacimento alla Blade Runner, ma tant'è. Tecnicamente, Eva ha molto poco di fantascientifico. Sospetto che molti lettori abituali di fantascienza non abbiano amato il mio romanzo esattamente per questo. La fantascienza ha regole che sono ampiamente disattese in Eva, ma per quanto mi riguarda le regole sono lì per essere violate: altrimenti non avrebbero senso di essere.

Tu che hai vissuto sia la realtà della piccola che della grande città, quali ritieni siano i pregi e difetti di ciascuna delle due?

La persona che ero, quella che viveva in una piccola città, era talmente diversa dalla persona che sono ora che francamente non so cosa rispondere.

Posso solo dire che l'aspetto che adoro delle grandi città è la possibilità di perdersi, di essere nessuno. Da lì, quando sei invisibile al mondo, tracci una linea e ricominci. Forse è proprio questo il punto: la città grande ti consente prove di invisibilità che sono impossibili nei centri piccoli. A qualcuno questa cosa piace e a qualcuno no.

Nigredo, il protagonista del romanzo, è un investigatore privato, apparentemente intorno alla cinquantina, con un passato di terrorista, che per campare collabora con i servizi della Polizia. A parte le caratteristiche del personaggio, hai avuto problemi a narrare la storia da un punto di vista maschile?

Prima di Eva, non avrei mai pensato di scegliere un uomo come voce narrante di una mia storia. La scrittura non è un mestiere per me. Faccio quello che mi viene di fare, quando ho voglia di farlo. E scrivo/parlo se ho qualcosa da dire. Altrimenti sto zitta. Nella maggior parte dei casi, accade che i personaggi che ho in mente comincino a parlare e si facciano avanti sgomitando nel mio immaginario. Nigredo è stato più determinate di altri, ed era cosi prima ancora di cominciare a raccontarmi la sua storia. Detto questo, nei fatti, ho corretto molte concordanze al femminile riferite a Nigredo, in fase di editing. La donna che è in me... bè, insomma, suppongo che la cosa più giusta da dire sia che non è importante il genere sessuale di un personaggio, ma la sua capacità di funzionare. Uomo o donna non importa.

Sei una delle prime autrici italiane ad aver capito, secondo me, l'importanza di una letteratura mista, di una narrativa contaminata che passasse da un genere ad un altro, senza una linea di confine ben definita. Con questa tua ultima opera continui sulla strada che avevi intrapreso fin dai tempi di Il cuore finto di DR, vincitore del Premio Urania nel 1993, dove la fantascienza e il noir erano strettamente legati. Recentemente sembra che il noir stia prendendo il sopravvento nella tua narrativa... Nicoletta Vallorani sta diventando un'autrice noir? Credi che la letteratura di genere possa essere uno strumento di indagine più incisivo rispetto a una letteratura alta, un mainstream che sembra spesso vivere di sterili auto citazioni, di schemi già visti ed abusati?

Il mio lavoro non è così ragionato. Diciamo così: la cosa che so con chiarezza è di voler scrivere narrativa di genere, che sia fantascienza o noir poco importa. A esser giusti, io credo che neanche Il cuore finto fosse fantascienza a pieno titolo, e ci sono lettori che se ne sono lamentati. Era di certo più fantascientifico di Eva, e questo spiega come mai, nonostante le mille ingenuità e la scarsa originalità complessiva, alcuni lettori monografici non troppo abituati alle contaminazioni lo considerino come un romanzo migliore di Eva. E tuttavia anche lì, come in tutto quello che scrivo, salta fuori, come dici tu, un quadro contaminato. Non è una mia scoperta, mi piacerebbe, ma non lo è. È una scelta che sta nelle cose, e che ha riguardato tutta la letteratura, italiana e non. I generi nella loro purezza hanno smesso di esistere più o meno come i milanesi purosangue, e da un bel pezzo. La questione, semmai, è che io a questa cosa conferisco più peso di altri. La prendo e ne faccio una bandiera, soprattutto perché mi piace mischiare gli ingredienti e vedere cosa salta fuori dal caos. Questo si adatta alla letteratura di massa, che è più tollerante, e che si prende meno sul serio. La capacità di ridere di sé è preziosa, specie in tempi come questi.

L'omicidio come opera d'arte, in qualche modo, come è stato riportato in molte recensioni e critiche, sembra essere uno degli elementi portanti del tuo romanzo. Sembra un modo per sottolineare, se non addirittura accusare, una società dove i notiziari puntano al sensazionalismo, dove crimini efferati sono diventati cronaca di routine, dove i sentimenti sono relegati in secondo piano. Il serial killer di Eva sembra volersi elevare, dal punto di vista dell'orrore, rispetto agli altri criminali, e per questo - appunto - cerca di fare qualcosa di più, di spettacolarizzare i propri omicidi per svegliare le coscienze intorpidite della gente...

Non ho alcuna competenza specifica nel campo dell'arte, ma mi occupo di media studies abbastanza da capire - come del resto qualunque utente assiduo dei media - che i processi di comunicazione hanno un codice che è stato letteralmente riscritto dalla modifica dei canali di comunicazione. Non è stata una trovata geniale: l'avrebbe capito anche uno scemo che stiamo andando in questa direzione. Semmai il mio problema è stato quello di pensare una storia che stesse in piedi da sola e che parlasse di questo. Non volevo scrivere un saggio su come la spettacolarizzazione del WTC abbia abolito in modo definitivo il confine tra finzione e realtà, erodendo la tragedia reale fino a convertirla in uno show televisivo.

Non volevo - e non voglio - fare prediche. Volevo che Nigredo fosse una voce dissonante rispetto a questo processo, ma mi pareva che la dissonanza dovesse nascere da una profonda consapevolezza del processo medesimo, e non dalla volontà di estraniarsi da esso. Perciò Nigredo non è un puro, non vive fuori dal mondo, non è estraneo alle pulsioni e ai meccanismi che producono gli omicidi. Nigredo è un Kurtz che è tornato indietro dal Congo: invece di morire in mezzo ai selvaggi, si è rimesso abiti civili ed è tornato nel mondo. Con quale consapevolezza di dove il mondo stia andando non so. Non spetta a me dirlo.

La situazione interna attuale, la realtà politica mondiale, la globalizzazione, l'omologazione dell'informazione, le nuove icone televisive. Quanto hanno contato questi fattori, se hanno avuto un effettivo ruolo, nella stesura del tuo romanzo?

Hanno un ruolo nella mia vita, quindi hanno un ruolo in quello che scrivo. Rischio molto con questa omologia: è come essere senza pelle, e dire al lettore "questo è esattamente quello che sento, e non ve lo mando a dire". Ma tant'è. Non m'interessa mediare nella scrittura, non mi riesce di farlo nella vita.

Credo che anche in questo romanzo tu abbia fatto una scelta molto precisa dello stile da usare. In un periodo letterario dove il linguaggio va verso l'essenziale, ammiccando a volte al minimalismo, la tua sembra essere una scelta in controtendenza. Il tuo stile, seppure mai ridondante o appesantito da ricerche stilistiche leziose, è costruito con parole pesanti, parole che, a volte, impongono al lettore di fermarsi a pensare. Un linguaggio che insinua dubbi, che suggerisce riflessioni. Credi che sia una scelta dettata da un certo tipo di background generazionale? Magari anche una sorta di ribellione verso una società dell'immagine che bombarda il telespettatore di informazioni in modo da impedirgli una discriminazione obiettiva?

No, non so, niente di tutto questo. Suppongo che la mia formazione c'entri, suppongo che molto facciano le mie letture, suppongo che la frequentazione erratica di molta stampa contribuisca, suppongo che questi risultati debbano qualcosa a tutte le scritture che ho frequentato. Il lavoro consapevole che è stato fatto è nella direzione della leggerezza di cui parla Calvino nelle Lezioni americane: la sottrazione di peso a partire da un'estrema, insopportabile pesantezza. Molto del peso deve essere rimasto, e sono ben lontana ancora da arrivare dove voglio. Ma la strada è quella, e la densità di significato di ogni parola è voluta. Molto imperfetta, ancora, ma voluta.

È uscito recentemente, per i tipi della Salani, La Fatona, un libro per ragazzi che personalmente non ho ancora letto. Come riesci a coniugare due tipi di letterature così diverse, a prima vista così lontane, quasi antitetiche?

Stando nel mondo, vivendo una vita reale, crescendo figli e facendo un mestiere. Non so, siamo tutti fatti di pezzi. Il problema degli scrittori è che questi pezzi tendono a diventare pubblici. Chi non ha contraddizioni? Solo le persone inguaribilmente noiose o terribilmente stupide. È vero che in tempi come questi lo scemo del villaggio diventa re, ma le persone dotate di intelletto sono più interessanti. Contraddittorie, difficili, insopportabili, ma interessanti.

Ultima domanda d'obbligo. Esiste in Italia una cultura di letteratura di genere importante, che sta imponendo nuovi autori e consolidando i meno nuovi?

Questo problema appartiene alle cerchie letterarie che sentono il bisogno di integrare la vita nelle caselle di una storia della letteratura. Per mestiere, per fortuna, non mi occupo di letteratura italiana, ma so come funziona il processo per averlo frequentato in altri settori letterari. La verità vera è che quando un processo è in corso si hanno alcune difficoltà a vedere dove porta. Per la maggior parte, tende a circolare la voce secondo cui questo sia un momento di particolare prestigio per la letteratura di genere in Italia. Possibile. Certo si ha più spazio, si riesce a far sentire la propria voce. Ma in parte forse questo vuol dire che ci sono più compromessi, e che certi meccanismi di adattamento/accettazione/integrazione dei must editoriali si stanno estendendo anche agli scrittori di genere. E comunque, quale che sia l'opinione corrente, gli scrittori di genere che vengono invitati al Festivalletteratura di Mantova o che vincono lo Strega sono ancora pochi, no? Non so. Non resta che fare e vedere dove ci porta questa cosa. Ci sono parecchi scrittori bravi e più professionali di me che credo debbano occuparsi di questa questione. Per conto mio, mi permetto, col privilegio di chi non vive con questo mestiere, di non proporre bilanci. Faccio l'artigiano della scrittura, e dichiaro la mia consapevolezza politica di dove stiamo andando come cittadini di questo paese piuttosto che come scrittori. Una consapevolezza che comunque resta mia, e non ha pretese di globalità (!!!). Lo faccio attraverso la letteratura di genere, come molti altri in questo momento, ma i proclami e le elaborazioni di principio li lascio a chi è più bravo di me.






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