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di Claudio Tanari


Le ossa fradice e coperto di una pelliccia di lupo infangata, lontano cinquemila miglia da casa.

Un inutile sole gelido sbuca dai rami scheletrici della foresta, la melma fa d'ogni movimento una agonia di fatica. Dopa una decina d'anni quest'angolo di guerra non è cambiato: questa fottuta selva mai sentita nominare finché non c'è arrivato anche il nemico, barbari primitivi incapaci di emettere suoni che non siano latrati.

Il primo contatto era avvenuto al di là del Reno, dopa la lenta e difficile colonizzazione di quelle terre ai tempi dell'imperatore Augusto, ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato ad attaccare senza nemmeno tentare un accordo: le legioni di Vero erano state massacrate e lui si era salvato insieme a pochi altri fingendosi morto. Ora le cose sono cambiate: da qualche anno le baliste da fuoco hanno rimpiazzato i vecchi giavellotti e i gladi servano solo nei rari corpo a corpo: senza contare il terrore che le nuove armi incutono nei barbari, che pure resistono, coi denti e con le unghie.

Bagnato fradicio, il giorno che volge al termine livido e spazzato da un vento violento. Tra poco rientrerà all'interno della palizzata del castrum, a godersi una zuppa di farro fumante nel suo alloggiamento riscaldato... Ma ecco uno di loro strisciare verso di lui. Prende la mira e fa fuoco: la palla di piombo squarcia il torace del nemico che urla come un animale prima di cadere con la faccia a terra, fulminato, la pelle d'un bianco nauseante chiazzata di rosso, i capelli lunghi fino alle spalle, la barba ispida impastata di sangue e fango.


Fu dopo la conquista dell'Oriente, nel corso dei viaggi commerciali lungo le vie carovaniere, che i nostri emissari incontrarono i mercanti sinensi. Si dimostrarono subito molto disponibili: nelle loro cronache ci chiamarono Rum-an e durante quegli incontri ci invitarono a visitare il loro Regno. La prima spedizione ufficiale in quelle terre remote, cui io immeritatamente partecipai, fu quella condotta dal console Tito Manilio Metello, poi soprannominato il Sinense, in considerazione delle incommensurabili conseguenze del suo viaggio. La sera che giungemmo nella capitale fummo accolti da quella che molti di noi chiamarono in seguito la "tempesta di fuoco": boati e un incredibile frastuono accompagnavano cascate ed esplosioni incandescenti del tipo che solo i vulcani riescono a produrre e incombevano su di noi a grande altezza illuminando i visi terrorizzati della nostra scorta armata. Inutile nascondere che molti di quei valorosi legionari si dettero ad una fuga precipitosa: io stesso dominai a stento l'impulso di fuggire e solo dopo le assicurazioni sorridenti dei nostri ospiti ci rendemmo conto che quel fenomeno che ci aveva spaventati a morte era una forma di omaggio in onore di visitatori stranieri.

(Lucio Giunio Moderato, De Sinense pulvere)


Marco Cornelio Agrippa, comandante della X Legione Ignifera al Principe Tiberio, aye.

Cesare, ti scrivo durante la seconda vigilia di questo giorno VII delle Calende di aprile dell'anno DXXLXXXIII dalla Fondazione dell'Urbe.

Ho portato le mie truppe a ridosso della selva al cui interno i nostri esploratori hanno individuato folti gruppi dei ribelli che ancora infestano la regione. A tutti noi è chiaro come, sconfitte queste ultime sacche di resistenza, il confine settentrionale dell'Impero potrà essere avanzato in misura fino a qualche anno fa addirittura impensabile. Merito, oltre che del valore dei miei soldati, delle nuove armi che hanno impresso una grande accelerazione alla nostra espansione. Ho sacrificato agli dei e ho pregato i Penati perché ci assicurino quella vittoria schiacciante che ti aspetti da noi e che vendicherà la strage dei soldati di Vero. Ho schierato oltre il vallo difensivo dieci grandi canne da fuoco dotate di centinaia di globi incendiari ed esplosivi che dovrebbero rendere superflui non solo la carica della cavalleria ma persino l'intervento della fanteria. Ho affidato la difesa delle postazioni a scolte fidate che hanno abbattuto stasera alcuni barbari in perlustrazione.

Inizieremo l'attacco all'alba.

Che Giove Ottimo Massimo ti protegga.


Marco Cornelio Agrippa, comandante della X Legione Ignifera al Principe Tiberio, salve.

L'odore degli arbusti del sottobosco l'aria fredda e limpida del giorno laggiù, oltre il riparo del bosco si agitano intorno ai carri cani! i nostri villaggi dietro di noi le gambe svelte di mio figlio l'ascia pesante al fianco la spada sguainata pronta a farli a pezzi gli occhi chiari della mia donna gridiamo a gola spiegata per darci forza attenti! un rumore assordante tuoni due tre dal cielo una valanga di fuoco sui rami dei faggi che schiantano sulle nostre teste i miei guerrieri bruciano come torce si contorcono urla la terra si apre, si alza ricade tuoni sempre più vicini braccia gambe teste strappate dai tronchi le capanne! fumo odore di carne bruciata ...


Durante il secondo viaggio nell'Impero Sinense, i nostri esploratori si impadronirono con l'astuzia della polvere. Negli alloggiamenti che l'imperatore ci aveva benignamente concesso io e altri scoprimmo che era composta di nitrato, carbone e zolfo: una miscela altamente infiammabile che poteva essere utilizzata per quelli che chiamavamo "fuochi celesti" o, più proficuamente, per un nuovo, incredibilmente potente, tipo di arma.

(Lucio Giunio Moderato, De Sinense pulvere)






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