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La bambina nel pentacolo


di Marcello Bonati


I


Quella sera l'aria era pungente, ed io mi avvolgevo nel mio tabarro mentre camminavo per le banchine del porto di quella città straniera.

Ero giunto lì da non più di un mese; all'inizio il posto mi era sembrato abbastanza adatto per trovarvi quello di cui ero, e sono, alla ricerca, e così decisi di fermarmi.

Poi, man mano che il tempo trascorreva, mi scoprii incapace ad andarmene, nonostante non ci avessi trovato proprio niente di quello che speravo, ma anzi vi avessi condotto una vita come ormai non la vivevo da molto, moltissimo tempo, tranquilla e senza la minima avventura, senza la minima scossa, la minima fregola o pericolo.

Mi ero accaparrato una stanza nella locanda, l'unica, del paese, con una scazzottata di quelle regolari, proprio fatta a regola d'arte, ma era tutto finito lì; da quel momento in poi passai le mie giornate a passeggiare per il porto, chiacchierando con i pescatori e i marinai, giocando a carte con i vecchi nell'osteria, scrivendo qualche racconto e qualche poesia, avvelenandomi il sangue con quell'erba magica che mi ero portato dietro dalle terre dell'oriente, in un'atmosfera spirituale addirittura soporifera.

E, questo era lo strano, l'assurdo, mi ci trovavo proprio bene, e non avevo la minima voglia di andarmi a cercare guai, avventure, cose dure, come avevo fatto fino ad allora per tutta la mia esistenza.

Comunque, quella sera, passeggiando per il porto, meditavo tutte queste cose, sogghignando fra me e me; alla fine decisi che avrei avuto bisogno di parlare con qualcuno, assolutamente, se non volevo, come spesso mi capitava, approfondire eccessivamente quel mio stato d'animo, per alfine giungere a classificarlo ed incasellarlo nel mio repertorio classico, e decidere, di punto in bianco, quale doveva essere la nota successiva; non avevo nessuna intenzione di cambiare nota, e così era meglio parlarne con qualcuno.

Attraversai la larga banchina, verso le luci giallognole della taverna; per un attimo rimasi poi fermo di fronte all'ingresso, assaporandomi quel quadro notevole: era un locale angusto, non più di trenta metri quadrati, in cui si affollavano non meno di venti, venticinque persone, chi sedute su alti sgabelli, col boccale di vino o di birra appoggiato su di una mensola che percorreva tutte le pareti disponibili, chi in piedi, a crocchi, chi addirittura seduto o perfino sdraiato per terra, addormentati o ubriachi fradici; il tutto era illuminato da una grossa lampada opaca, che emanava una offuscata luce giallognola.

Il padrone, accanto alle due botti, una di vino ed una di birra, mi vide, e mi salutò con un gesto della mano, subito richiamato all'ordine da un ometto raggrinzito che protendeva verso di lui una grossa caraffa, ennesimamente vuota.

Sorrisi, e scostai le liane che pendevano sopra l'entrata, immergendomi in quell'atmosfera surriscaldata e vociante.

Mi diressi subito verso il mescitore, sudato fradicio nella sua tenuta decisamente troppo pesante per l'ambiente, prendendo una caraffa dalla lunga fila appesa a dei chiodi sulla parete.

-Eihlà, vecchio, nessuna novità? - mi apostrofò, ed io sorrisi; li tutti avevano preso a chiamarmi con quell'epiteto, nonostante la mia non certo veneranda età, ed in questo io vi vedevo un qualcosa che avevo già notato altrove: la gente vedeva in me un qualche cosa di vecchio, nel senso di sapiente, di esperto, una specie di soggezione, quasi di timore, quasi si aspettassero da me, da un momento all'altro, che rivelasi loro qualcosa di grosso, di importante, di vitale, o che scomparissi misteriosamente, o che mi rivalessi con un'identità totalmente diversa da quella con cui mi presentavo.

E non avevano tutti i torti.

-No, nessuna novità, tranne che è trascorso un nuovo giorno, e che la vita tranquilla mi affascina come non mi ha mai affascinato.

Sorrise dolcemente, e potei capire chiaramente che quella mia risposta non era esattamente quella che si attendeva. Gli porsi la mia caraffa, indicandogli la botte della birra. Quello capì, me la porse, ed io non proseguii la conversazione, dopo averlo guardato negli occhi; era stanco, e la sua mente doveva vagare dietro a chissà quali pensieri, comunque molto lontani dal locale e da me.

Mi acquattai di fianco alla botte della birra, le gambe incrociate come avevo imparato nel mio viaggio in oriente, e sorseggiai la mia bibita schiumosa guardandomi intorno, osservando uno per uno quegli uomini di mare, ascoltando i loro discorsi, le loro bestemmie e le loro risa.



II


Poi, volgendo lo sguardo attorno, questo mi cadde sul vetro che separava la strada da quel locale, e fu in quel momento che la vidi per la prima volta.

Da principio credetti in un'allucinazione, una di quelle visioni che ogni tanto mi appaiono, frutto dei vapori dell'erba che fumo, che risalgono fino al mio cervello, ma poi dovetti subito ricredermi, visto che in breve tutti gli sguardi si appuntarono su di lei.

Era una donna, questo era sicuro, ma così a prima vista non riuscii a darle nessun'altra connotazione.

La sola parte del suo corpo che fosse visibile era il volto, ovale e asciutto, con una bocca sensuale dalle labbra laccate di rosso, un naso piccolo e all'insù; e portava sugli occhi un oggetto opaco che li nascondeva, tenuto su da due bastoncini ripiegati dietro le orecchie.

Ma era il resto di lei che era inquietante, il suo abbigliamento; sui capelli dorati e fluenti portava un copricapo inusitato: un cilindro alto almeno un metro e mezzo, con alla base una larga falda rigida che doveva avere un'apertura tale da ripararla completamente in caso di pioggia; e poi il vestito; era un unico pezzo di stoffa rossa che pioveva giù dall'anello di metallo chiuso attorno al collo; ma doveva esservi, sotto, un'intelaiatura tale da non permettere alla stoffa di toccare nemmeno un punto del corpo. Al di sotto non si riuscivano a scorgere i piedi, poichè il vestito arrivava a sfiorare in maniera addirittura millimetrica il suolo.

E lei stava guardando fissamente l'interno della taverna. Il mormorio che si era creato andò lentamente scemando, e restammo tutti quanti come degli allocchi a guardare quell'apparizione nella notte.

Eravamo magnetizzati, tutti quanti, ma questo lo dico ora, a distanza, perchè in quel momento non pensavo proprio a niente, ma la fissavo a bocca spalancata.

Il vento le spiegazzava l'abito, e la sommità del suo incredibile copricapo era leggermente piegata dalla sua forma; e lei sorrise, piano, al rallentatore, incredibilmente, inumanamente piano, e poi disse: Arokamzetzk.

E disparve.

Scattai in piedi, corsi fuori, e sentii, come temevo, l'odore di zolfo.

Ero stato scoperto un'altra volta.

Rientrai, e li vidi tutti infervorati, che parlottavano animatamente, e fra le parole concitate, sentii chiaramente il nome di Zudis, l'arcimago nero, ed il mio, e intuii di un'antica leggenda, di una maledizione.

Chiusi gli occhi per un istante, poi li riaprii: -Là fuori c'è odore di zolfo, gente; che si sia avverata la profezia?

Borbottii indistinti seguirono la mia battuta, e così proseguii: -E chi sarebbe il mago bianco della leggenda?- ironico, con un filo di voce, quasi scherzoso.

Tutti gli sguardi puntarono su di me.

-Ebbene si, sono io; il mio vero nome è Delek. E ora chi di voi vuole uccidermi, per evitare la rovina della vostra città?- sapevo che era l'unico modo di scongiurarla.

Silenzio.

Me ne uscii, scostando le liane: ora sapevo quello che dovevo fare, e anche quando: immediatamente.



III


Mi andai ad accovacciare sulla spiaggia, in un punto ben lontano dal caseggiato, dove le rocce giungevano quasi al bagnasciuga.

Avrei dovuto supporre già da tempo che quel mio strano soggiorno non doveva essere senza scopo; da qualche parte nella mia memoria, se avessi cercato bene, avrei trovato la risposta a quel mio così inusuale stato d'animo... ma il destino aveva voluto che lo venissi a sapere così, attraverso una comparizione e una leggenda sussurrata a frammenti in una taverna.

Quella notte, lì intorno, ci sarebbe stata una messa nera, ed ero io l'esponente del Bene chiamato lì dal Fato per impedire tale nefandezza.

Ma anche il Demonio lo sapeva, e aveva preso le sue precauzioni.

Mi domandai quali e quanti flagelli avrebbero infestato quella cittadina a causa mia.

Sapevo che, a gioco ultimato, sarebbe venuto a galla tutto, ma proprio tutto, o sotto forma di rivelazione estatica, o sotto quella crudele della morte.

Giocherellai con la sabbia, e rimasi a lungo a meditare.



IV


La mattina seguente cominciarono a giungere i miei adepti; uno giunse su una canoa, e quando mi vide esclamò la sua gioia; un altro via terra, vestito di poveri stracci, e mi salutò come si usa con un Dio.

-Bene, ragazzi, qui c'è di mezzo una faccenda grossa, una messa nera da evitare.

Quelli rimasero muti, in contemplazione, per molto tempo; supposi che stessero meditando, pensando, o qualcosa del genere. Poi uno, Mankiewitz, disse: -Ma bisogna proprio evitarla, non basterebbe parteciparvi? Ne ho sempre avuto il desiderio!

Gli sorrisi: -Anch'io, caro, anch'io; solo che io vi ho partecipato, essendo un ex mago nero, un ex collega di Zadis, e avendone organizzate parecchie; poi una me ne andò storta, e crollai tra i bianchi; abbiamo meno potere, meno sangue, meno di tutto, ma siamo quello che siamo.

-Già- disse, e si ammansì.

-Allora dobbiamo batterci!- esclamò Gerulaitis, e io annuii, paternanente.

-E come?- saltarono su all'unisono.

-Ci avvarremo degli elfi, il piccolo popolo; che ne dite?

-Ottima scelta!- declamarono.

Quella notte la passammo all'addiaccio.



V


Ci svegliammo all'alba, e ci inoltrammo nel bosco che si estende ai margini del paese.

Là, in una radura, fecimo un incantesimo bianco, con erbe e frasi, che richiamò tutti gli elfi della contea; il Conte elfo stette a sentire la nostra storia, i termini della situazione, e sogghignò.

-Non credo che si potrà fare molto- disse -ma comunque sembra un passatempo divertente!

Dopodichè ci organizzammo: la messa nera sarebbe stata quella sera stessa, e questo lo sapevo da alcuni strati del mio essere che vagolavano ancora (fortunati loro), nelle tenebre del regno oscuro.



VI


Si sarebbe trattato della Grande Radura, quello sarebbe stato il posto.

Era ormai tutto pronto, c'era solo da aspettare.

Mi allontanai dai miei discepoli e dagli elfi, e mi addentrai da solo nel bosco; avevo bisogno di meditare, di concentrarmi; dentro di me non ero affatto sicuro, turbolenze estatiche mi eccitavano su vari livelli, trascendenze non toccate, ma pregustate, appena percepite, angoli mentali erano lì che di soppiatto mi aspettavano, che sembravano suggerirmi soluzioni sempre diverse, e io non riuscivo ad ascoltarle, a percepirle appieno.

Si sarebbe trattato di una giovane donna, questo lo sapevo, di una creatura inerme.

C'erano in gioco la vita e la morte di queste due entità, e io, e noi, avremmo dovuto intervenire, per evitare.

La mia meditazione scivolò sull'argomento elfi: erano di una ingenuità esecrabile, del tutto al di fuori del mondo reale; non avrebbero fatto del male ad una mosca; cosa ne sapevano degli impulsi umani, delle tenebre dell'umanità... mi sembrava che la loro energia positiva fosse in qualche modo fasulla, anche se, indubbiamente, utile al mio scopo.

Avremmo agito in maniera diretta, decisi; saremmo entrati nella Grande Radura e avremmo tentato di interrompere l'immonda cerimonia.

Quello che c'era da fare era stato fatto, ora c'era solo da aspettare.



VII


Giunse la notte, e noi tutti, elfi e compari, ci ritrovammo dietro ai cespugli che cingevano la Grande Radura.

Nel centro il pentacolo di pietra era già allestito, con tanto di altare, a riprova dell'esattezza delle mie supposizioni; ma non c'era ancora anima viva.

Attendemmo, e la luna, piena, si levò alta nel cielo, appena segnato da qualche nuvola chiara.

Alfine qualcosa si mosse, al limitare opposto, un'ombra che si muoveva.

Quando la figura avanzò, e venne illuminata dal chiarore lunare, mi si presentò alla vista il volto di una bambina, le gote rosse, gli occhi chiari, saettante.

Portava qualcosa tra le braccia, qualcosa che in seguito si rivelò come una bambola di pezza, e si sdraiò a gambe divaricate, le ginocchia alzate, sull'altare di pietra.

-Ehi, io sono pronta- sussurrò, e la sua voce risuonò melodica.

Mi sentii tirare per una manica, e, giratomi, vidi il Conte elfo che mi squadrava: -È l'ora? Iniziamo?

-No, sta zitto; ve lo dirò io- e rigirai lo sguardo alla radura.

Ombre, tante, e tutte che si muovevano verso la bambina nel pentacolo.

Tra di esse riconobbi, e non si poteva non farlo, quella della donna dall'alto cilindro, che andò a fermarsi dietro la pietra dell'angolo più acuto del pentacolo, mentre gli altri si appostavano in modo da delimitarne la figura.

-Arokamzetzk!- ululò lei, per la seconda volta, e fece un passo all'interno, verso la bambina, la quale alzò la testa e la fissò negli occhi.

-Ok, io sono pronta- ripetè, e si sdraiò.

Un paio di uomini si staccarono dalla figura, e si avvicinarono a loro volta; avevano degli arnesi nella mani.



VIII


-Bene, è il momento- dissi io, e balzai fuori, seguito dai compari e dagli elfi.

Accesi la mia torcia elettrica, e illuminai la scena: -Bene, la festa è finita!- gridai.

Quelli si girarono, ci guardarono, e si misero a ridere.

-Ma fateci il piacere, qui stiamo lavorando; si tratta di un aborto!

M lasciai andare, e mi sedetti per terra; fui subito circondato dai miei, che mi subissarono di domande.

Per tutta risposta, dissi: -Lasciateli fare, hanno ragione loro.

Finito l'intervento, quelli fecero una festa, gli elfi scapparono nel loro mondo fatato e inumano, e io piansi, inutilmente consolato dai miei compari.






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