Tilda Swinton si presenta con i capelli corti giallo girasole: «È il mio modo di onorare metà della bandiera ucraina». Nel film ha tirato fuori una delle sue idee folli: «E se facessi una madre e una figlia nello stesso film?». Detto, fatto. Accade in The Eternal Daughter, in cui la regista Joanna Hogg racconta sé stessa nel rapporto con la madre.
È una storia su ciò che ci lasciamo alle spalle. Quella creatura lunare e camaleontica chiamata Tilda, pelle diafana e lineamenti sottili e spigolosi, nelle sue metamorfosi al cinema è stata un uomo (+ Bob Dylan in Io sono qui). Il sesso lo indossa e lo toglie come un vestito, in linea con quest'edizione fluida e transgender.
Le era già capitato di interpretare tre donne in Suspiria di «suo fratello» (si considerano così) Luca Guadagnino.
Mai, però, una madre e una figlia contemporaneamente: «È stato terapeutico». Non ci sono inquadrature che le riprendono insieme. La figlia ha i capelli ramati che Tilda porta nella vita; la madre li ha più lunghi, bianchi, e come orecchini le perle di una donna d’età. «Ha compiuto un'incredibile impresa di ingegneria della prestazione», dice Joanna Hogg. «Madre e figlia sono molto collegate tra loro e per questo ho mantenuto la stessa voce. Non parteggio per l'una o per l'altra».
Stavolta, col suo pallore, quest'attrice che sembra un'installazione (Coppa Volpi nel '92 e Leone d'oro alla carriera nel 2020) non ha faticato a entrare in una storia dove irrompono «sia il sovrannaturale che i fantasmi», Una storia senza copione: «I dialoghi li costruivamo improvvisando, abbiamo parlato delle nostre madri che non ci sono più, potevamo andare in qualsiasi direzione, un'invenzione costante, è stata una specie di performance»; una storia sfuggente, che comincia nella nebbia di un hotel mentre il vento sibila, e quanti rimandi a Psycho, Shining ... «Nella musica c'è un pezzo di flauto di Bartok che richiama l'aldilà. Non ci sono poster né trailer, vi portiamo questa storia con le nostre mani».
Quanto ai due ruoli in un colpo solo, si ripensa a diversi fratelli gemelli con Tom Hardy, Jeremy Irons, Nicolas Cage e, per una donna, Bette Davis nel lontano 1964. Chi giace nella mia bara? Dove una gemella seppelliva l'altra.
Qui c'è un disseppellimento di memorie amare. Quell'hotel del Galles, un tempo, era la casa della madre, è piena di ricordi di famiglia; sua figlia ha trascurato il marito per starle accanto, interpreta una regista che vuole fare un film sulla vita di chi l'ha messa al mondo. Le stanze custodiscono memorie confuse. Il passato disorienta ed è presente in maniera ossessiva. Ci sono i sensi di colpa.
«È un po' come il cubo di Rubik - dice Tilda Swinton - non volevamo che il senso della vicenda arrivasse troppo presto... La storia parla del lutto, ma siamo sicuri che abbiamo bisogno di parlare del lutto quando qualcuno ci lascia, o non è meglio continuare la conversazione con loro?».
Fuori, un paesaggio onirico. Joanna Hogg confessa di «avere sempre avuto paura dell'oscurità, di sé stessa, del buio». Ha dissotterrato i fantasmi che abitano le sue notti.
E Tilda, crescendo nel cerchio magico di Derek Jarman («con lui ho fatto nove film in sette anni»), non poteva che sfuggire a regole e conformismi. Ha elevato la vita ad opera d'arte, o l'arte come stile di vita. «Nella vita cerco amicizia, comunanza, e di lavorare con le persone che amo».
Nel 1986 per Joanna recitò nel suo primo corto; poi ha interpretato un ruolo minore in Souvenir, dove la protagonista è sua figlia. Di alto lignaggio (ha studiato alla scuola di Lady Diana), dice che la sfida più grande è aver fatto l'attrice: «Per mia madre l'idea di espormi e di esibirmi, come una tartaruga senza guscio è stata molto trasgressiva. Era complicato per lei accettare di essere vista in pubblico, raccontare la verità ... ».
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