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Io, il nuovo Diabolik


di Stafania Ulivi


Un'anima divisa in tre. L'Italia dov'è nato, a Roma, nel 1989; il Canada dove è cresciuto, prima in un paesino dell'Ontario quindi a Toronto; Hollywood dove ha sfondato come attore, con la benedizione di Shonda Rhimes. Condizione ideale, quella di Giacomo Gianniotti, per vestire i mutevoli panni di Diabolik, nel secondo film dei Manetti Bros («non un sequel», sottolineano, bensì il nuovo capitolo di una trilogia), Diabolik Ginko all'attacco, in uscita il 17 novembre, con Valerio Mastandrea e Miriam Leone, l'ispettore e Eva Kant, oltre alla new entry, Altea, interpretata da Monica Bellucci. E, appunto, Gianniotti nel ruolo che fu di Luca Marinelli.

A suggerire il suo nome ai registi è stata la figlia di Pier Giorgio Bellocchio, ovvero il sergente Palmer. L'aveva vista in «Grey's Anatomy», di cui + fan, ha notato che il dottor Andrew De Luca era interpretato da un attore italiano.

«Non lo sapevo, devo ringraziarla, allora. Per me è stata una gioia, era il fumetto preferito di mio padre e i miei zii, mi ricordo di aver notato gli albi nelle librerie quando venivo in vacanza. Ora lo conosco bene, sono un appassionato anche io».

Com'è stato raccogliere il testimone da Marinelli?

«Diabolik è un'icona, come James Bond o Batman, e normale che siano attori diversi a interpretarlo. È unico: un uomo glaciale, distaccato, in perenne sfida con sé stesso per realizzare colpi sempre più arditi. È l'incontro con Eva Kant a aprirgli nuove possibilità. Una perfetta partner in crime, intelligente quanto lui, in più di occasione è lei a salvarlo dai guai. In questo sta la modernità delle sorelle Giussani, qui sta la chiave del successo del fumetto. E, insieme, Eva è una donna capace di sciogliere il suo ghiaccio».

Sostiene Miriam Leone che Eva e Diabolik sono controllatissimi nel crimine ma tra le mura domestiche diventano un po' Sandra e Raimondo.

«Se lo dice lei, mi fido. Però io non li conosco, devo ripassare. Sono cresciuto in Canada e mi sono perso dei pezzi».

Ci è arrivato da molto piccolo, com'è stato l'impatto?

«Difficile. Da Roma ci siamo trasferiti nel paesino di mia madre in Ontario in mezzo ai boschi. Ero l'unico bambino italiano, in mezzo ai vari Jack, Matt, Jonathan. Nessuno sapeva pronunciare il mio nome. Mi sentivo isolato, sempre obbligato a recitare un ruolo per farmi accettare, come fosse un'altra versione di me. È andata meglio quando, sedicenne, sono arrivato a Toronto. Lì è pieno di italiani».

Ma con il cinema il contatto è arrivato a Roma.

«Per caso. Mio zio era amico del casting director del film La bomba di Giulio Base con Shelley Winters, Vittorio Gassman, suo figlio Alessandro. Avevo dieci anni, facevo uno dei tre bambini che dava fastidio a Enrico Brignano che faceva il cameriere in un ristorante. Per me era un gioco, all'epoca non pensavo mi sarei ritrovato a Hollywood».

Alla corte di Shonda Rhimes. Come c’è arrivato?

«Era il 2014, avevo fatto un provino ma non avevo saputo nulla. Ero in macchina, andavo da Toronto a Los Angeles, un viaggio di tre giorni. Mi ha chiamato il mio agente, volevano rivedermi. Mi hanno preso per due puntate, ci sono rimasto per sette anni. Una grande scuola, è una serie che ha avuto un grande impatto, anche a livello sociale, sul pubblico americano, in tema di diritti, integrazione, ruolo delle donne».

Conosceva il cinema dei Manetti?

«Sinceramente no, ho visto tutti i loro film dopo che mi hanno chiamato. Hanno uno stile unico e i loro set sono un incrocio tra allegria a creatività. Era la prima volta che mi dirigevano due fratelli, Antonio è l'operatore, Marco si occupa più del contesto. Ma pur nella divisione dei compiti, si muovono come una persona sola. Gli sono grato, per diversi anni ho fatto il bravo ragazzo sullo schermo, sognavo da tanto un ruolo da villain».

Altri sogni legati al cinema italiano?

«Mi piacerebbe lavorare con Stefano Sollima, amo il suo stile. E con Sorrentino e Luca Guadagnino».

Essere Diabolik: la cosa più divertente e quella più difficile.

«La prima, senza dubbio, è stata guidare la Jaguar. La più difficile, più che liberarmi dell'accento inglese, è stata rimanere in forma, girando a Bologna, per entrare nella tutina nera».






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