di Maurizio Porro

Si può essere teneri e romantici anche raccontando una storia di giovani cannibali? Sono innamorati, delusi dalla società, vivono nella tristezza rurale dell'America anni 80, dalla Virginia al Nebraska di Malick, corrono verso un sogno, on the road come in un film di Corman. Hanno un vorace bisogno di affetto: se dai loro un dito, si prendono il braccio e se lo mangiano tutto. Maren e Sully si incontrano e si riconoscono dall'odore, capiscono di avere lo stesso dolore dentro, sono cannibali, ma per bene.

Nel nuovo film di Guadagnino ci sono scene crude, eppure vince il potere della metafora contro la società, l'orgoglio di sentirsi diversi. Il film è la rincorsa di questi due Bonnie and Clyde che non rapinano se non sé stessi, e Guadagnino, ispirato dal romanzo di Camille de Angelis, cerca l'essenza dell'affetto per «chiamarlo col suo nome». Una regia fredda, che usa a 360 gradi la metafora horror, ma con risultati nettamente superiori a «Suspiria». Brava Taylor Russell acclamata a Venezia e bravissimo Timothée Chalamet, che porta in dote una presenza tenera e disturbante. Terzo uomo è Mark Rylance, attore straordinario gia sul «Ponte delle spie» di Spielberg: insieme ci chiudono le uscite di sicurezza e ci obbligano a interrogarci sui loro istinti alla Hannibal Lecter, una nutriente diversità che mai potremo capire, perché fanno parte del lungo corteo di chi ci racconta non il sogno ma l'incubo americano. E inoltre c'è una comparsata di «Gente di Dublino» di Joyce ...

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