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Recensione a "L'uomo in fuga"


di Mario Fabiani


Richard Bachman (Stephen King), L'uomo in fuga (The running man), Oscar n. 2099 - Mondadori, Milano, 1.989


Stephen King, ovvero lo scrittore che più di ogni altro ha contribuito con i propri soggetti al cinema di Sf/horror degli anni '80. La recensione di un'opera di King non può prescindere da questo fatto, tanto più che anche il libro in esame è diventato materiale cinematografico (L'implacabile, The running man).

Probabilmente proprio l'uscita di questo film ha fatto sì che la Mondadori decidesse di ristampare il romanzo, scritto nel 1982, già pubblicato precedentemente su Urania e in altra edizione sempre su Oscar.

È la migliore occasione per parlare di uno scrittore importante di questi anni, anche se non particolarmente legato alla narrativa di Sf. Spero mi si perdonerà il fatto che in questa recensione si parla di cinema quanto (e forse più) di letteratura: ma è l'oggetto dell'esame, come vedremo, a richiederlo.

La Sf cinematografica ha subito nell'ultimo decennio una trasformazione espressiva non indifferente, sotto la spinta di una maggiore "coscienza del mezzo" da parte di alcuni registi (Scott, Carpenter, Cronenberg, Mulcahy, solo per citarne alcuni) che sulla scia di precursori per lo più isolati (Kubrick, Coppola su tutti) hanno portato sullo schermo opere sempre più raffinate dal punto di vista tecnico-formale (Blade Runner, da questo punto di vista, può essere considerato il capostipite). La principale caratteristica di questo cinema sembra essere l'azione, la dinamica, la velocità, unite ad una straordinaria capacità di "concentrazione" dell'informazione, raggiungibile grazie alla sinergia dei numerosi canali espressivi che il mezzo filmico fornisce. Il tutto si traduce in un montaggio rapido e "ritmato" di immagini estremamente raffinate, non solo dal punto di vista della fotografia, ma anche della scenografia, del punto di ripresa, nonché del dialogo e del commento musicale.

Cosa può avere spinto questo tipo di cinema a ricercare i propri soggetti nella narrativa di Stephen King?

È possibile forse stabilire dei "paralleli", sicuramente azzardati, tra tecniche espressive cinematografiche e letterarie? Se è innegabile il fatto che Blade Runner abbia influenzato in maniera abbastanza pesante alcuni prodotti del movimento "cyberpunk", rimane da accertare se sia possibile il passaggio inverso, ovvero se l'opera di uno scrittore possa influenzare, direttamente (Cronenberg e Carpenter, per esempio) o indirettamente, un vasto movimento di autori di cinema.

È bene subito precisare che qui non si parlerà di "idee". È innegabile che la letteratura e il cinema di Sf (e non solo di Sf) negli ultimi anni non ha prodotto una significativa evoluzione dei propri "temi", ma solo (!?) una maggior consapevolezza del mezzo espressivo, quindi una maggior raffinatezza di espressione. Il che ovviamente non significa che la Sf dica sempre le stesse cose da quand'è nata ad oggi. Sarebbe come dire che due film come L'esperimento del dottor K e La mosca sono uguali solo per l'identità del soggetto. La forma dell'espressione è parte integrante della significazione di un'opera e concorre a definirla nell'ottica di una lettura totale del testo letterario. E naturalmente, al di là delle strutture di genere, la tecnica espressiva è frutto dell'evoluzione storico-letteraria dell'autore e quindi dell'epoca in cui vive. Per fare un esempio ancora in campo cinematografico, il sempre più frequente ricorso ad un linguaggio filmico "pubblicitario" deriva evidentemente dalla rilevanza che tale tipo di linguaggio ha ormai nella società occidentale euro-americana, tanto che moltissimi dei più acclamati registi di questo decennio vengono dagli spot. E sarebbe un grave errore negare a questo linguaggio una valenza significativa al di là della supposta "eleganza" dell'immagine. Ma questo è un discorso che sembra non essere molto recepito neanche dalla critica "blasonata", che sembra preferire i sani "mattoni" provenienti da certo cinema europeo, sicuramente più rassicuranti e non sospetti dal punto di vista intellettuale. Ma torniamo all'oggetto in esame.

L'analisi della forma del contenuto dell'opera, ci rivelerà come predetto, che la storia di The running man non è particolarmente originale. Tuttavia anche un rapido e superficiale sguardo alle note di copertina risveglia nell'appassionato lettore di Sf numerose inferenze, giacche i giochi sanguinari del prossimo futuro sono stati tema di alcuni testi letterari e filmici del passato (Rollerball). L'ambientazione, che ci mostra un'America inquinata, degradata materialmente e moralmente, divisa tra una minoranza ricca e una minoranza misera, dominata dal potere dei network televisivi e dall'oppressione poliziesca, ha anch'essa numerosi precedenti (The sheep look up di Brunner, Make room! Make room! di Harry Harrison, solo per citare gli esempi più clamorosi). Precedenti ben più illustri se si pensa che risalgono a vent'anni fa, in un momento in cui temi come l'ecologia, il degrado sociale e politico, lo strapotere della Tv, erano molto meno in yoga rispetto ad oggi.

Qual’è dunque l'elemento che rende The running man un raro esempio di "Sf moderna"? L'ipotesi di lavoro ovviamente è che non si tratti di un unico elemento, bensì dell'uso appropriato di una serie di tecniche espressive relative al livello più "superficiale" (in senso greimasiano) del testo. Un uso finalizzato al raggiungimento di un ben determinato scopo. Ma andiamo per ordine, individuando innanzitutto un modello di base a livello profondo.

Esaminando la struttura oppositiva di base del testo si possono individuare numerosi assi di conflittualità, tutti abbastanza evidenti. La gerarchia sociale è comunque la struttura di interazioni centrale del romanzo.

Essa si definisce attraverso uno sviluppo spaziale ben preciso e abbastanza classico. La netta separazione Quartieri alti/Quartieri bassi all'inizio del romanzo e in tutti i luoghi nei quali il protagonista Richards si muove indica una frattura non solo sociale e culturale, ma anche spazialmente definita, della maggioranza misera dalla minoranza benestante. Il protagonista, superando il Canale e portandosi nella zona "bene" della città, opera un vero e proprio "passaggio di confine" che ne delimita anche lo status fisico e psicologico. Anche il grattacielo del Network Games Building materializza, con la propria struttura gerarchica in senso verticale, questa stratificazione sociale, marcata da un labirinto di vie di comunicazione, permesse o negate a seconda dello status sociale del personaggio.

La porta dalla parte opposta delle stanzone si aprì (c'era sempre una porta dalla parte opposta; erano come topi all'interno di un immenso labirinto verticale: "il labirinto americano" pensò Richards.)

Il viaggio iniziale di Richards all'interno del Games Building si configura quindi come una sorta di rito di passaggio dall'inferno al purgatorio, da un livello di consapevolezza ad uno più alto, dallo status di uomo-massa a quello uomo-individuo. Le numerose prove che Richards supera per arrivare a livelli sempre più alti del "palazzo" non fanno altro che avallarne la statura superiore e la progressiva separazione dal resto dei concorrenti, che si confondono con la massa informe dei piani bassi. Mano a mane che procede nei test, il protagonista si appropria di oggetti e situazioni che ne cambiano lo "status symbol", distaccandolo dalle proprie radici identificative. L'approdo finale, nel lussuoso appartamento che lo accoglierà fino al momento dell'inizio della caccia, vede Richards finalmente del tutto isolato e integrato, "individuo" espressione dei "piani bassi" in grado di iniziare la lotta per raggiungere il più alto livello possibile. In quest'occasione a Richards vengono offerti alcuni "beni" che connotano fortemente il mutato livello sociale (la ragazza, il cibo raffinato, i libri), secondo un modello che pare derivato direttamente da certa pubblicità legata ai simboli dell'arrivismo sociale borghese. In questa fase la "dinamica spaziale" è notevole, e King non si lascia pregare nel dare indicazioni circa il graduale "spostamento verso l'alto" del suo protagonista. Già in questo "rito di passaggio" è racchiusa la definizione della struttura di base oppositiva che fa da sfondo a tutto il testo. Si avrà quindi:

(schema irriproducibile)

Ciò che ne risulta è ovviamente una tensione dinamica che si sviluppa "dal basso verso l'alto", ed è naturalmente un esponente della massa, Richards, che aspira ad invertire le gerarchie costituite, acquisendo maggior potere. Il tutto, naturalmente, in chiave squisitamente individuale, come impone il modello sociale.

"- E se salissi invece di scendere? - chiese, indicando il soffitto, e gli ottanta piani sovrastanti - Chi potrei ammazzare lassù? Chi potrei ammazzare se arrivassi fino in cima?"

La frase di Richards contiene in sé l'intero romanzo, e consente all'intuizione del lettore di comprendere appieno l'obiettivo della dinamica dell'azione.

In sé, una simile tensione non è trasgressiva del modello sociale, presupponendo solo una logica e prevedibile dose di conflittualità interna. Richards accetta di superare la selezione per i Giochi e di conseguenza accetta anche il meccanismo sociale che è alla base della sua emarginazione e povertà. La sua carica di ribellismo è essenzialmente verbale, ed è priva di connotazioni politiche che vadano al di là di un vago idealismo "liberal", come nella maggior parte degli eroi americani. La lotta che egli ingaggia è squisitamente individuale, volta a preservare la propria personalità nei confronti di un sistema invadente e tendenzialmente massificante. È interessante notare come King in questo senso intessa i dialoghi dei suoi personaggi nella forma di continuo "scontro". La conflittualità è accentuata dalla scarsezza di riferimenti agli interlocutori, che aumenta la velocità e la violenza degli scambi. Un procedimento letterario che si avvicina all'immediatezza del dialogo cinematografico, e che aumenta l'affermazione dell'io del protagonista e, di riflesso, quella del lettore.

Richards combatte, ma non contro le regole del gioco, tutt'altro. La sua ribellione "esteriore" diventa elemento di spettacolo all'interno del grande calderone dei giochi televisivi. La sua condizione di (apparente) diverso viene sfruttata a scopo esorcistico dai manovratori dei mass-media (questo riporta alla mente alcuni episodi televisivi interessanti di cui siamo stati testimoni ultimamente...)

Questa consapevolezza del "potere di assorbenza" della televisione nei confronti della realtà, della possibilità di "rappresentare qualsiasi cosa", del potere onnimistificatorio delle telecamere, e uno dei primi elementi che distinguono il romanzo di King da molta letteratura distopica di Sf. Le lezioni dickiane (nonché anni di televisione sempre più subdola e invadente) non sono state vane.

Così anche la carica trasgressiva del "selvaggio" Richards all'interno del sistema è ampiamente prevedibile e anzi pianificata.

"- Questo programma è uno dei mezzi più sicuri a disposizione della Rete per liberarsi di sovversivi potenziali come voi, signor Richards -" dice il demiurgo Killian all'inizio della caccia. La "rappresentazione" del trasgressivo lo uccide, lo annulla, lo normalizza. L'eliminazione fisica è solo il logico finale di una "tragedia" simulacro del reale.

Richards si trova quindi al centro di un progetto volto alla sua cancellazione, come rappresentante dei desideri trasgressivi delle masse nei confronti del potere. Si configura un doppio schema attanziale che riveste gli ambiti individuali e sociali de L'uomo in fuga:

(schema irriproducibile)

La fuga di Richards incarna così, nella migliore tradizione dello spettacolo "educativo", una metafora sociale chiarissima. Qualunque sia il risultato della caccia, il sistema di relazioni sociali presupposto ne uscirà confermato, in quanto il compimento della tendenza congiuntiva del primo schema non è condizione necessaria al compimento della seconda, relativa ad un ambito più ampio. Se la vittima muore, si sarà compiuto il sacrificio rituale dello spirito trasgressivo. Se sopravvive, diventerà simbolo del "self-made man", dell'individuo forte che è riuscito a sfruttare la possibilità offertagli dalla società per raggiungere il successo.

Ha inizio così il viaggio dell’"eroe" Richards, che seguirà il cammino fondamentale di tanta letteratura distopica di Sf. Egli, una volta superato per la prima volta il confine tra il "mondo selvaggio" e quello "organizzato" (Città bassa/città alta), ritorna all'esterno (dovremo dire in basso, in questo caso), per preparare un ritorno il cui scopo non sia quello di sconvolgere l'ordine socio-politico costituito ma, assai più cinicamente e realisticamente, di volgere a favore la propria situazione individuale. Mentre il primo viaggio di Richards rimane segnato dalla sua condizione di impotenza, il secondo deve, per forza di cose, vederlo in una rinnovata posizione di forza. E fine qui, dobbiamo dire, The running man è fin troppo aderente alla tradizione del romanzo Sf cosìdetto "sociologico". Ma ciò che ci interessa è proprio sottolineare che King, nel delineare uno sviluppo dinamico in questo senso convenzionale, riesce ugualmente a dimostrare le proprie doti di "sceneggiatore", dando vita ad uno sviluppo dinamico capace di notevole coinvolgimento emotivo. L'abile inframmezzarsi di brevi descrizioni piene di termini "forti", i brani di dialogo senza indicazioni identificative, le ricostruzioni dei pensieri di Richards in discorso indiretto libero, creano una "ritmica" del testo simile ad un "montaggio" letterario nonché una buona dose di focalizzazione sul protagonista, tendente a stabilire un rapporto "diretto" empatico con il lettore. Anche l'organizzazione dei paragrafi, in forma di brevi sequenze, scandite dal conteggio alla rovescia dei titoli, contribuisce, sebbene in forma meno sottile, alla "velocità" e all'efficacia del racconto.

Nel corso della dinamica della fuga, dunque, Richards ripercorre ancora una volta il faticoso tragitto dal basso verso l'alto. Dai tombini di Boston alla folle fuga in macchina fine al dirottamento aereo. E allo stesso tempo King ripercorre i luoghi comuni di tanta letteratura e cinema americano, non solo di Sf: dalla cultura dell'emarginazione all’"On the road", da William Burroughs a Kerouac a Sugarland Express, da Fahrenheit 451 a Robert Johnson a The Hitcher, dai telefilm polizieschi a Quel pomeriggio di un giorno da cani. Le citazioni presenti nella disperata vicenda di Ben Richards sono innumerevoli, e ben chiare sono le radici culturali di King, radici comuni con numerosi autori di cinema americano degli anni 80.

Meno comuni, probabilmente, alla maggior parte degli scrittori di Sf, che sembra abbiano meno risentito l'influenza di questa cultura, soprattutto visuale e musicale, ma anche letteraria. King del resto non è precisamente il tipico scrittore di Sf ....

Ciò che rende veramente interessante The running man è questa stretta appartenenza al sostrato immaginativo-visuale degli anni 80, questa tecnica "fotografica" dello scrivere che riporta alla mente immagini già viste e ammirate nel cinema meno banale dei nostri tempi, questa ritmica testuale che si fa "ascoltare" come una "colonna sonora" fredda e ossessiva, questa crudele e viva tecnica descrittiva che ci riporta alla mente i film iper-realisti di un Walter Hill o di un William Friedkin. Nella stessa ottica King dà vita ad una storia per certi versi "troppo" aderente alle leggi dello spettacolo violento e d'azione moderno, nel quale sia la dinamica del mondo "esterno" che quella psicologica "interna" dei personaggi risultano non "realisticamente" (!?) amplificate fino al parossismo, in un flusso di energie adrenaliniche tale da non lasciare alcuna "pausa" allo spettatore/lettore. Non dà fastidio, in questo contesto, l'evidente improbabilità e prevedibilità di certe situazioni, che anzi fa chiaramente parte dello statuto dell'opera, "summa" consapevole e (forse involontariamente, o forse no) autoironica dei cliché della nuova rappresentazione.

Proprio in questo "massimalismo" ritmico/figurativo e psicologico probabilmente risiedono i motivi del fascino che indubbiamente la narrativa di King esprime. Niente di rivoluzionario, si intende. Se così non fosse, King non sarebbe uno degli scrittori più venduti e più "copiati". Tutto ciò è tranquillamente inseribile (e inserito) nel fagocitante meccanismo dell'industria culturale americana. Industria che, come lo stesso King teorizza nel suo romanzo, è capace di "inglobare" e "rappresentare" anche simili prodotti che potrebbero essere considerati "trasgressivi" per ridurli, alla fine, a meri beni di consumo. È lo stesso meccanismo che fa sì che si pubblichino anche certi film e certa musica, con buona pace (e complicità) di coloro che pensano che leggere, guardare e ascoltare determinate cose sia, appunto, trasgressivo.

Il risolversi della tensione dinamica della storia si ha naturalmente nel finale. E, com'è ovvio, a Richards si presenta l'opportunità di ottenere la propria realizzazione personale, di trasformarsi da preda a cacciatore, di raggiungere finalmente quei "piani alti" che rappresentano il potere, la fama, i soldi (essenzialmente il top dell'american way of life). Superata l'ultima prova, egli si ritrova di fronte al premio finale e al culmine della propria scalata. Ciò nonostante, sente di aver perso la propria battaglia nei confronti del sistema, che in ogni caso lo riassorbirà.

Nella migliore tradizione del finale idealista americano, non gli resta che autodistruggersi, cercando, nel contempo, di arrecare il maggior danno ai propri persecutori. Un po' come il protagonista del film Punto zero (ancora riferimenti .al cinema!), che si uccide nel momento in cui è diventato una celebrità, Richards si distrugge nella maniera più spettacolare, piombando con un aereo nel bel mezzo del Network Games Building, simbolo dell'iniqua gerarchia "verticale", trionfando nella sua tragedia individualistica ma anche confermando la propria impotenza nei confronti di un meccanismo mistificatorio che gli impedisce di andare oltre il proprio ruolo predefinito.

In definitiva, The running man è l'incarnazione più moderna ed efficace di una visione distopica americana di un mondo futuro che appare sempre più cupo, un mondo manovrato da demiurghi occulti e invincibili, che definiscono per ognuno un ambito vitale predefinito, inviolabile, che costruiscono una visione della realtà mistificata attraverso i media, che nascondono la verità, rendendola indefinibile, sfuggente (Tv-verità, per usare un termine fin troppo sfruttato a vanvera). Se questi demiurghi esistano davvero, o se siano il prodotto della latente paranoia dell'uomo post-moderno americano, non ha importanza. La trappola esiste, è la Rete, come nel romanzo stesso, la ragnatela dickiana che avvolge e nasconde sempre di… che cosa?

E The running man, nel rappresentarci questo dramma, è parte esso stesso della Rete, esorcizza le nostre paure nella infantile soddisfazione di un finale di fuoco purificatore che porta via i "cattivi" e lascia sperare in qualcosa di diverso, "dopo", in quel vuoto indefinito e pieno di possibilità che sta al di là dell'universo del testo ed è così vicino alla nostra esperienza esistenziale. Onore a King, capace di rivitalizzare in maniera impareggiabile un genere di Sf che credevamo ormai defunto. E se tranello emotivo dev'essere (come in tutta la buona letteratura), che sia. Almeno per un attimo, prima di pensare.






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