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Myron Chester e i rospi


di James P. Blaylock


Tutto questo accadde alcuni mesi fa. Non che faccia qualche differenza. Sarebbe stato enormemente importante se gli alieni non fossero partiti, se le cose fossero andate un po' diversamente e se le persone non fossero così stupide. Come la signora Krantz, la mia vicina di casa. Soprattutto non vedono al di là dei loro nasi senza incrociare gli occhi.

Il ventitre aprile un commesso viaggiatore di cereali di Tampa fu spedito nello spazio a bordo di una astronave aliena. È ciò che disse il telegiornale. Apparve in televisione diciotto volte il martedì, un'altra il mercoledì e dopo più niente. Mi piacerebbe pensare che gli alieni lo abbiano portato via di nuovo, che abbia una casa a bolla in qualche galassia distante e che abbia imparato a manipolare i controlli di un mezzo aereo magnetico a forma di pesce. Ma non è questo il caso. Posso vederlo proprio ora, infatti, nel chiarore lunare che brilla lungo la riva dello stagno dietro casa mia. Sono le due di mattina e sta perlustrando la campagna in cerca di rospi. Il suo nome, dovreste conoscerlo, è Myron Chester.

Fa ancora il commesso viaggiatore di cereali a Tampa, ma il suo commercio non vale un fico. Quasi tutti lo hanno visto in televisione o udito alla radio ciarlare come una scimmia in merito a creature in una nave fiammeggiante, ad abitanti delle stelle branchiati, anfibi con occhi sporgenti di rospi e alligatori che l'hanno portato su e giù per le strade della via lattea... per qualche ragione, per scherzo, forse. Non era sicuro. All'inizio aveva pensato che volevano fargli del male, che gli avrebbero estratto il cervello e lo avrebbero allacciato a qualche congegno. Che sarebbe diventato una parte di macchinario. Ma ciò non successe. Lo portarono semplicemente a spasso. Gli strinsero la mano. Comunicavano telepaticamente, muovevano appena le labbra.

Nessuno volle più i suoi cereali, dopo ciò. Secondo me, non compri tovagliette da tè e lacci da un matto.

Quando sono stato a Tampa ho trovato il suo magazzino sulla strada per l'aeroporto. L'aria salata proveniente dal Golfo aveva corroso, durante gli anni, il tetto di latta ed ora non faceva abbastanza denaro per ripararlo. Quando soffiano le tempeste piove su tutti i cereali. Mi fermai a salutarlo. Ma era a un mese dal suo incredibile viaggio a bordo della nave stellare e l'intervista televisiva l'aveva inacidito. Non avrebbe mai dovuto aprir bocca, disse. Ora il suo lavoro non valeva un fico. Un fico secco. E andava di male in peggio. Non lo avrebbero lasciato solo, disse.

Chi? Chiesi, giusto per essere sicuro. Pensavo di sapere chi intendeva. COSA voleva dire, piuttosto. Un rospo tremendo gracidò fuori della finestra su e giù mentre parlavamo e due volte nei venti minuti che sono stato là uscì per cercarlo, facendo piccoli sibili e schiocchi con la lingua come se cercasse di attirare un gatto. Un comportamento buffo, veramente, alla luce della supposta natura di quel rospo.

Ma fui felice di una cosa… del fatto che sapesse che lo sapevo che lui non stava semplicemente inseguendo dei rospi. Non è che servisse a ridargli tanto spirito, comunque. La mia testimonianza, Dio solo lo sa, non lo avrebbe aiutato a vendere cereali.

Vi dirò come sono inciampato negli alieni. Ho qualche collezione sorprendente, soprattutto libri... libri e caleidoscopi, circa quaranta caleidoscopi. Quasi nessun altro li colleziona, anche se tutti, una volta o l'altra, hanno guardato attraverso le lenti di un caleidoscopio e hanno capito, almeno per un istante, che la simmetria brillante di gioielli che luccica alla luce del sole alla fine di quell'oscuro corridoio, è posseduta dall'antico e magico incantesimo di una lampada di Aladino o di una luminosa e lussureggiante nave spaziale nell'oscurità stellata dei cieli. Non ci si può sbagliare.

Ho letto non molto tempo fa di un mago dell'Europa orientale dall'incredibile nome, forse falso, di Wegius.

Suona come il nome di un papero dei fumetti. Questo Wegius, in un modo o nell'altro, fece sì che attraverso una sorprendente coincidenza, mentre girava due caleidoscopi accoppiati (uno davanti ad ogni occhio e con un'unica manovella), i gioielli all'interno di ognuno cadessero simultaneamente a formare lo stesso schema. Il suo accolito, che lavorava in mezzo all'apparato chimico in ebollizione in una stanza accanto, udì un urlo acuto e, entrando di corsa, trovò il suo maestro in catalessi sprofondato su una sedia.

I due caleidoscopi sul tavolo di fronte a lui immobili in simmetria gemellare. L'accolito guardò prima in uno poi nell'altro e comprese la curiosa coincidenza che era accaduta al mago. Il suo maestro, congetturò, era stato attirato dall'ingranarsi di quei riflessi sfaccettati ed era caduto in una terra da cui non aveva nessuna speranza (o nessun desiderio, forse) di tornare.

Il mago continuò a vivere nel suo stato di sospensione, non prendendo né cibo né acqua, per circa venticinque anni. L'accolito divenne ogni giorno più tentato di sbirciare contemporaneamente nei due caleidoscopi misteriosamente immobilizzati, ma era troppo timoroso, temeva per la sua anima. Gettò i caleidoscopi, manovella e tutto, nel fuoco e lascio che si fondessero in un pasticcio alchemico insieme ad altri rifiuti reputati magici. La storia può essere stata costruita, ma mi ha dato una certa dose di speranza.

Ho costruito un numero di cose illimitate da allora, riempendole con le combinazioni di gemme e montandole come binocoli così da poter coinvolgere allo stesso tempo entrambi gli occhi. Lo sforzo è quasi senza speranza. Le possibili combinazioni di gioielli identici mentre scorrono via e cadono di lato e si nascondono dietro a tutti gli altri e salgono lungo i lati delle loro camere sembrano infinite. Forse SONO infinite, non so. Se lo sono, non ditemelo.

A tarda ora, la notte del ventitre, sedevo nel mio studio che guarda sullo stagno e sul pezzetto di radura che corre tutto intorno verso il retro di casa mia. Era umido, ricordo. La finestra era aperta. I rospi gracidavano fra le erbacce intorno allo stagno. Doveva essere passata la mezzanotte. Avevo avuto l'idea di guardare attraverso i caleidoscopi accoppiati verso la luce della luna piena. Un'idea romantica, direte; non è romantica come sembra. La luce della luna è forte in una notte luminosa e se il corridoio del caleidoscopio è abbastanza lungo e la circonferenza abbastanza piccola, il cerchio della luna copre interamente il vetro e i disegni sembra che si riflettano contro la superficie stessa della luna. Sono sicuro che il procedimento pone un limite al numero infinito di disegni mutevoli.

Così stavo strabuzzando gli occhi nelle lenti accoppiate del caleidoscopio, la luce della luna che rimbalzava dai tripli specchi nei corridoi. Le gemme, i coloro sbiaditi, cadevano e si combinavano in fiori angolati di vetro. Il pollice e l'indice muovevano con esasperante lentezza la manopola che gira i cilindri, fermandosi ogni volta che il mucchietto di gemme si sbilanciava e una gemma o due cadevano libere e cambiavano irreversibilmente il disegno come lo strisciare del ghiacciaio sbriciola ed altera la faccia di una montagna. I miei occhi, quasi involontariamente, percorrevano rapidamente le 240.000 miglia e passa di spazio... prima focalizzandosi sulle gemme in rotazione, poi su niente, poi sulla luna.

Vidi per caso la discesa della nave stellare, fiammeggiante, in caduta attraverso il cielo notturno, stagliata per un momento cristallino contro la lampada giallo pallido della luna piena.

All'inizio pensai che fosse semplicemente una combinazione casuale delle gemme che cadevano nel caleidoscopio, ma era molto difficile: avevo visto la stessa nave cadente con entrambi gli occhi, attraverso entrambi i caleidoscopi nello stesso memento.

Saltai su e spensi le due candele che ardevano nella stanza. Tutto era silenzio. L'aria notturna era contratta, in attesa, in osservazione. I rospi ed i grilli non facevano un pigolio. Uscii e salii sul tetto di casa.

La mia ombra, alla luce della luna, si stendeva al di là della sommità del tetto e si perdeva nell'oscurità mutevole del grande albero di falso pepe che ombreggiava metà del tetto. Uno dopo l'altro i rospi e le rane ripresero a gracidare e l'aria tutta intorno si rilassò. Fuori nella palude ci fu un chiarore... molto più brillante da quello che si vede da uno sciame di lucciole, anche se era la stessa specie di bagliore verdognolo fosforescente. Il chiarore si attenuò e si spense. Scivolai giù e tornai al mio caleidoscopio e fu allora che fui colpito da un pensiero azzardato.

Era possibile, alla luce di ciò che avevo visto, che una nave interstellare aliena fosse precipitata giù dal cielo e attraversato le lenti del mio caleidoscopio. Era anche possibile (ed io cominciai a pensare che potesse senza dubbio essere successo) che una identica combinazione di gemme fosse caduta, miracolosamente, all'interno di ognuno dei due corridoi accoppiati. In quest'ultimo caso, pensai incoerentemente, avevo ottenuto il mio scopo ed ero entrato in quella terra in cui il mago Wegius si era avventurato cinquecento anni prima. Il mio eccitamento, comunque, scemò allorché realizzai che la terra magica non era in nessun modo diversa dall'universo mondano che avevo testé sgombrato.

Infatti la mia vicina, la signora Krantz, uscì proprio in quel momento a strillare al suo cane. E se Wegius, pensai, e se io, per ciò che importa, fossimo diventati volontariamente catatonici in un mondo allo scopo di occupare una terra magica in cui la signora Krantz strilla perpetuamente al suo cane? E il pensiero mi aveva appena colpito che la signora Krantz esplose di nuovo: "Zitto! Zitto, vuoi stare zitto!" Il cane abbaiava, un guaito isterico e acuto. Saltava in tondo con la coda fra le zampe. Ululava. Andava a sbattere contro un albero. La signora Krantz gli ululava dietro. "Sta zitto, STA zitto!" Ero condannato nell'inferno di un maniaco. Wegius aveva commesso un macabro ed imperscrutabile errore. Ma come c'era finita la signora Krantz? Lei non aveva nessun caleidoscopio. Non era possibile, doveva essere stata una nave interstellare quella che avevo visto e non una peculiare e coincidente formazione di gioielli.

La mattina dopo, di buon'ora, chi c'era in televisione se non il commesso viaggiatore di cereali di Tampa?

Ho guardato per tutto il giorno. Apparve diciotto volte, come ho detto. I curatori dei notiziari fecero luce sulla sua storia. Uno, verso mezzogiorno, non riuscì a trattenersi dal gettare occhiate maligne e ammiccamenti verso la telecamera. Gli alieni erano grossi come pulci di mare, disse, soffiando un po' mentre rideva. Era proprio buffo. Fece finta di aver capito male, di apprendere che Myron Chester si stava riferendo ai colombiani. Era sicuro che non fosse un aereo abbattuto in un volo illecito di narcotici?

Usavano la telepatia o parlavano semplicemente spagnolo. Sono così veloci, si sa. È quasi ipnotizzante.

Sembra quasi un borbottio, sul serio. Ammiccò verso la telecamera e ogni ammiccamento, credo, portava un altro chiodo alla bara che conteneva lo smercio di cereali. L'ordinativo di tovagliette da tè precipitava.

Balle di stringhe si ammassavano nel negozio. Matasse di fil di ferro si arrugginivano. Il tetto di corrugato veniva mangiato dall'aria salata proveniente dal golfo. La pioggia entrava dentro e la muffa si diffondeva e i venti della notte sparpagliavano i cereali per la campagna solitaria. Le cose cadevano a pezzi. Il cane della signora Krantz impazzì in maniera spettacolare. Attesi segni ulteriori.

Il giorno successivo Myron Chester fu in televisione solo una volta. A lungo andare i pazzi non sono molto divertenti. Stufano. Quella stessa mattina una tartaruga maestosa, un alligatore selvaggio, apparve nel viale della signora Krantz. Era impossibilmente grande... grande tanto quanto il cofano di una macchina.

Non è un'iperbole; è la verità, ed era una vista impressionante. La signora Krantz le stava vicino con una scopa. Le danzava intorno, le si riversava sul guscio, le dava dei colpi, strillava da pazza. La tartaruga sedeva là, perplessa, la testa che guizzava avanti e indietro. Si mangiò la punta del manico della scopa.

La signora Krantz divenne furiosa. Si lanciò dentro casa e torno con un lungo coltellaccio da macellaio in una mano e (lo giuro) una casseruola di ghisa col manico lungo nell'altra. Voleva mangiarsi la creatura?

Non potevo dirlo. Guardavo tutto ciò dalla finestra.

La tartaruga se l'era squagliata verso lo stagno. La vide tuffarsi nei bassi fondali e sparire. Il cane divenne furioso, saltando intorno al giardino, andando a sbattere contro le siepi, rimbalzando contro gli alberi, contorcendosi, facendo le capriole, ululando. "VUOI stare zitto!" Urlava la signora Krantz correndogli dietro, agitando la casseruola.

Due alligatori apparvero nello stagno più tardi quel pomeriggio. Non c'era niente di rimarchevole in loro.

Uno dei miei vicini disse che erano venuti vagabondando dalle radure, un altro che c'era uno sfogo sottoterra verso lo stagno, un fiume sotterraneo, un'autostrada anfibia percorsa da tartarughe e alligatori e rospi incredibili. "Controlla" disse, e risposi che l'avrei fatto. E lo feci, anche. Ma ciò che scoprii lo scoprii per puro caso, la coincidenza più incredibile.

Era pomeriggio inoltrato, quasi sera. La televisione aveva smesso con la minaccia aliena, e la luna era alta sopra gli alberi; potevo sedere alla finestra del mio studio a guardarla salire. Ma ancora era una luna pallida coi raggi acquosi che non avrebbero avuto sostanza fino al sopraggiungere della notte, fra un'ora e un po'. Così guardavo attraverso i caleidoscopi accoppiati, manipolando con cura i controlli tanto per abitudine. Non c'era utilità a osservare la luna, così puntai i cannocchiali verso gli ultimi riflessi del sole sullo stagno. I gioielli cadevano e cadevano. Dei fiocchi di neve colorati si metamorfizzavano, crollavano, si espandevano. Zaffiri e rubini attraversarono i sentieri e si trasformavano in momentanee ametiste. La mia mente era sulla misteriosa tartaruga che era uscita fuori dallo stagno... la tartaruga impossibile.

Creature simili non esistono al di fuori dei sogni. Oziosamente giravo la manovella meccanica, pensando a bestie impossibili. I miei occhi cessarono di focalizzarsi sui cristalli, andando alla deriva, per modo di dire, attraverso i corridoi del caleidoscopio verso lo stagno, con i suoi fiumi sotterranei... fiumi che correvano verso la palude, verso il mare, verso il centro della terra.

Per venti minuti sedetti così. È possibile che ripetessi il colpo fortunato di Wegius un certo numero di volte senza accorgermene. La mia mente si dedicava seriamente agli alieni. Delle peculiarità nel movimento delle gemme, infine, mi fecero tornare ai miei compiti. Battei e socchiusi gli occhi. Pensai che il luccichio delle mie ciglia stesse intorbidendo la chiarezza delle lenti. C'erano delle linee che non avevano niente a che vedere con le gemme... rifrazioni di luce, pensai all'inizio, raggi di sole che si piegavano ad angolo sulla superficie dell'acqua e si riflettevano da uno specchio all'altro. Avevano l'apparenza delle venature nel vetro molto vecchio o degli spigoli del cristallo puro. Ma come le guardai, meravigliandomi del fenomeno, scervellandomi su di esso, iniziai a scorgere certi schemi, a sospettare certe verità. I fili vetrosi e i turbini di colore spento avevano poco a che vedere con l'arcobaleno delle gemme del caleidoscopio. E questo, come dico, lo scoprii attraverso una semplice e misteriosa coincidenza.

Osservavo il movimento debole e lento delle linee luccicanti. Mi sporsi verso di loro, cercai di metterle a fuoco con le lenti. Le linee recedettero e scomparvero. I miei occhi le inseguirono lungo gli oscuri corridoi, tra le pietre cadenti. Le apparizioni volteggiavano là, come una stella distante che ti lampeggia nella coda dell'occhio ma scompare completamente quando cerchi di afferrarla. Pensai alla nave in caduta alla deriva attraverso la faccia d'avorio della luna e lasciai ancora una volta vagare gli occhi oltre i gioielli e nella sera che andava offuscandosi verso lo stagno circondato dalle ombre. Alla fine, focalizzandomi nel nulla, li vidi.

Era come se fossero fatti di puro ghiaccio trasparente o di vetro striato e sembravano catturare gli ultimi freddi raggi del sole ed i primi flebili raggi della luna crescente e riflettere un universo di colori. Mi apparvero allora non tanto come creature delle stelle, quanto come stelle loro stessi.

Il sole tramontò, la luna si levò e i colori dell'arcobaleno danzanti sullo stagno si diluirono nella luce della luna in tinte blu e porpora scure... i colori del cielo all'alba. Attendevano là, fuori della mia finestra. Ad un tratto mi resi conto che le mie gambe si erano addormentate. Stavo sulla strada giusta per diventare un Wegius congelato. Era impossibile distogliere lo sguardo, ma alla fine lo feci. Mi alzai e mi stirai e aspettandomi quasi che la signora Krantz scappasse fuori ad agitare manici di scopa e utensili da cucina in una specie di contrappunto agli alieni. Ma non accadde.

Ciò che vidi là sullo stagno, attraverso il semplice vetro della finestra del caseggiato senza distorsioni, furono i due alligatori seduti insieme, tuffati nei raggi della luna. Un cerchio nero fluttuava lì vicino.

Quando alzai la testa la riconobbi: la gigantesca testuggine cacciatrice che aveva avuto la sfortuna di smarrirsi lungo il vialetto della signora Krantz. E in cima ad essa, lo giuro, appollaiato come Salomone sul suo trono, c'era uno stupendo rospo... il rospo della creazione, il rospo che metteva fine a tutti i rospi.

Pensai alla conversazione col mio vicino, al fiume sotterraneo, ai "rospi incredibili". "Controlla" aveva detto e avevo pensato che fosse pazzo. Lo ammetto.

Era stata un'idea geniale, penso, quella di camuffarsi da anfibi. O lo sarebbe stata se l'avessero studiata meglio... c'era da restringere le tartarughe, mantenere i rospi fuori dell'acqua. Quel fiume sotterraneo, ora lo so, è un fiume che sfocia nelle stelle, figurativamente parlando. Il mio vicino era più vicino alla realtà di quanto pensasse.

Circa una settimana fa ho visto Myron Chester arrampicarsi lungo le rive dello stagno a mezzanotte.

Inciampava ripetutamente non tanto per il buio quanto per l'agitazione. C'era una bella luna e lo stagno era marmorizzato dall'ombra e dalla luce argentata. Li stava cercando; era abbastanza chiaro. Si fermò: si sporse nell'acqua scura, schiacciò un insetto. Si curvò in avanti per osservare il terreno. Lo vidi sbracciare all'impazzata, ma non potevo scorgere l'oggetto delle sue attenzioni... qualcosa che galleggiava sullo stagno. Non ne venne fuori niente. Si abbassò di nuovo, cercando qua e là, in un mucchio di pietre sull'argine. Quando si rialzò teneva un rospo nelle mani. Sembrava che gli stesse parlando. Gesticolava con forza con la mano libera, dibattendo, insistendo, pregando. Il rospo restava muto. Poteva anche aver gracidato una volta o due (ero troppo lontano per sentire) ma sarebbe stato tutto. Era, abbastanza semplicemente, il rospo sbagliato, senza accessi di sorta alle navi spaziali. E, per sua grande fortuna, quasi sicuramente non si interessava di cose di questo tipo; non provava nessuna affinità con gli alieni ed era indifferente nei confronti di Myron Chester e delle navi stellari e della promessa dell'incombente incanto. Tanto per essere assolutamente sicuro, seguii la sua ricerca attraverso i caleidoscopi. Non c'era dubbio, i colori danzanti erano spariti da lungo tempo. Gli alieni erano partiti. Li avevo visti partire.

Due mesi fa, di nuovo in una notte di luna, il cane della signora Krantz era diventato pazzo scatenato. I suoi ululati erano sorprendenti. Mi ero addormentato, ma continuava in modo talmente orribile che corsi su per le scale ad accendere la candela. La bestia, quando la vidi dalla finestra, era stesa sulla schiena come uno scarafaggio. Lo stagno era calmo e vuoto. Gli alligatori erano scomparsi. Lontano, verso ovest, una radiosità verde morente accendeva la radura come se una riunione di lucciole si stesse sciogliendo proprio allora e le creature stessero ammiccando e gironzolando.

La nave aliena, imperlata di luci, veleggiava verso il cielo, curvandosi di nuovo attraverso la faccia sogghignante della luna... un vascello affusolato color argento in rotta per un porto lontano. In un momento era solo un'altra stella.

Il cane cessò di ululare e non ha avuto più nessun attacco durante questi mesi. Myron Chester, come ho detto, frequenta ora lo stagno di notte perlustrando i rospi, inseguendo gli axolotl, interrogando tartarughe, sperando di inciampare nella coppia curiosa di alligatori. A volte mi pento di non aver fatto dare all'uomo un'occhiata degli alieni attraverso i caleidoscopi. È quasi possibile che il vederli lo avrebbe soddisfatto.

Ma non credo. Potrebbe averlo fatto diventare matto come il cane della signora Krantz che, sospetto, era a conoscenza dell'esistenza degli alieni. Chi può dirlo? Ora non sono così sicuro di ciò che volesse dire quando rivelò, là al magazzino in rovina, che LORO non lo avrebbero lasciato solo. Era afflitto da anfibi che sospettava essere bestie stellari, o dalla promessa che aveva visto dentro quella nave luccicante? Mi sembra abbastanza chiaro che stia cercando l'Eldorado lungo le rive di quel piccolo stagno, in cerca di una strada per le stelle.

Per quanto mi riguarda, continuo nella mia veglia. Ho rinnovato la fede nell'incantesimo della luce della luna che si rifrange attraverso i gioielli cadenti e riflessi del caleidoscopio, ma non faccio assegnamento sugli alieni o vado in cerca lungo gli argini di uno stagno vuoto a mezzanotte. È improbabile che tornino.

Non hanno trovato molto qui che li attraesse. È un peccato, come ho detto, che non ci hanno studiato un po' prima di scegliere di apparire come anfibi. Erano destinati ad essere picchiati con manici di scopa e minacciati con coltelli e padelle. Se Myron Chester avesse potuto metterli sull'avviso! Ma lui, naturalmente, non sapeva che indossavano dei travestimenti.

Suppongo che io sia destinato come l'uomo dei cereali, anche se ho visto le cose un po' più chiaramente.

Per quanto ne so, non ho ancora ripetuto la coincidenza di Wegius. Guardo i gioielli cadere, su e giù, mentre sto scrivendo tutto ciò e mentre lo faccio posso sentire Myron Chester che continua a sguazzare fuori della notte, parlando con i rospi. Sarebbe proprio buffo se ora i gioielli cadessero nelle forme accoppiate di Wegius ed io emettessi un urlo e ruzzolassi dentro tra di loro, per non tornare mai più.

Mi trovereste, forse fra mesi, dopo che i quotidiani si sono ammassati nel portico e la vite dai fiori a tromba ha coperto e oscurato la casa. Io non mi troverei in uno stupore raggelato e questa sarebbe una di quelle narrazioni non terminate che erano popolari nelle riviste. Sarebbe finita con uno strillo di sorpresa allarmato ed un'ultima macchia serpeggiante e penzolante d'inchiostro; poi il silenzio.


(Titolo orig. "Myron Chester and the Toads"; Isaac Asimov's Science Fiction Magazine 2187, pp. 101-109); Traduzione italiana Santoni Danilo






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