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L'orsacchiotto e il professore


di Claudio Asciuti


... orsi...

Udii quella voce annodarsi dentro la mente, più che nelle orecchie, risuonando a lungo prima di spegnersi, nel silenzio in cui la mia casa era improvvisamente caduta.

Mi ero appena svegliato da un sonno profondo, torpido, oscuro. La radiosveglia mostrava l'una di notte. Quella parola che mi era rintoccata dentro mi aveva destato, riempiendomi poi d'inquietudine. Pensai che fosse un sogno, l'ultimo lascito della fase ipnopompica, ma avvertivo dentro di me qualcosa di differente.

Mi alzai, confuso. I termosifoni erano spenti, e l'aria fredda. Il vento sibilava fuori e scuoteva la ringhiera del poggiolo e le tapparelle. Mi infilai un maglione sul pigiama, e rabbrividii. Inverno. Freddo.

La casa era deserta, naturalmente. Controllai lo stereo, la televisione, la radio, il computer... nessuna voce o parola avrebbe potuto materializzarsi... a meno che non fosse la segreteria telefonica, ma quella aveva smesso di funzionare alla mattina, e mentre la controllavo mi resi conto che, nel pomeriggio, cercando di aggiustarla avevo inavvertitamente staccato la presa del telefono... la riagganciai…

... orsi...

Era una voce, stanca, roca, molto triste, come se quella parola così iterata avesse voluto celare tutta la delusione del mondo: o meglio, come se il mondo intero, quella voce, traversandolo, non l'avesse potuto toccare se non a sprazzi, a brandelli, a pezzettini. Ero sveglio, e lucido, e mi guardai ancora attorno, impaurito, quando la voce una terza volta si desto...

... orsi...

Una goccia di sudore corse lungo la mia fronte, una seconda lungo il cavo della colonna spinale. Nessuna traccia di essere umano o arnese meccanico che, in qualche modo, potesse pronunciar parole. Avvenivano solo dentro la mia mente e questo era naturalmente un pessimo segno; allucinazioni, si chiamano, e nonostante gli psicologi discutano a lungo sul significato di esse nonché della loro eversiva tracotanza, su qualcosa che ha comunque a che fare con una serie di schemi vitali che s'interrompono, io non ero per nulla contento...

... orsi...

Perché? Cosa stava succedendo? Perché una parte della mia mente stava parlando di... orsi? La voce, segno, avviso o premonizione che fosse, doveva in qualche modo esser legata ad uno dei tanti orsacchiotti che Damia mi aveva lasciato come eredità. Damia amava gli orsacchiotti di peluche, e, scoperta questa sua passione, avevo iniziato a riempirne la casa. Di orsi. Ed ora questa voce che oscuramente sorgeva, e da chissà dove... orsi?

Una lunga storia si snodava alle loro spalle. Il più grande era Ariel. Questi era il fratello di Tato, l'orso di peluche che avevo regalato a Damia, diversi natali addietro, e che lei si era portato a casa. Così, il Natale seguente, nello stesso grande magazzino, avevo scoperto l'esistenza di un secondo orso che avevo immediatamente acquistato ... Ariel... era stata Damia a battezzarlo con quel nome, affermando che l'orso era il mio familiare, e chi ero io se non lo spirito Ariel della Tempesta shakespeariana, lo spirito benigno che interveniva ai comandi del principe Prospero?

... orsi...

Tornai in camera da letto. Ariel se ne stava appoggiato al cuscino, e guardava, sorridendo l'armadio. Mi guardai attorno. La stanza, eccetto Ariel, e il Sumotori, era completamente vuota... ma gli orsi di peluche non possono parlare...

Mi sedetti di fronte ad Ariel. Mi sentivo molto sciocco, ma l'esperienza mi aveva insegnato che dagli atti più scemi spesso si riesce a comprendere il filo delle cose.

Guardai Ariel, le sue grosse zampone, il papillon rosso attorno al collo... fu allora che mi tornò in mente tutta una parte della mia infanzia, che per anni avevo lasciato sepolta in qualche anfratto della mia memoria: un tempo, come tutti i bambini, anch'io potevo parlare con i miei immaginari compagni di gioco, anch'io parlavo con i miei orsi di peluche...

Guardai Ariel e pensai che dovevo essere completamente impazzito. Perché qualcosa formula dentro di me un pensiero e domando: - Sei stato tu a chiamarmi?

... ma quello non ero io. Era il me di tanto tempo addietro, di anni infiniti, di epoche in qualche modo trascorse e che non sarebbero più tornate indietro, perché erano, quelli, gli anni dell'infanzia, gli anni svaniti...

Ariel, naturalmente non poteva rispondere. Nessuno avrebbe mai potuto rispondere, perché la capacità di parlare con gli orsi e con i misteriosi abitatori del Regno dei Topi l'avevo posseduta solo quand'ero bambino. E me lo ricordavo benissimo. Era uno strano, dimenticato inverno degli anni Sessanta dello scorso secolo. Giocavo da solo il pomeriggio nella mia camera, quando mia madre non s'affannava a portarmi fuori... era un'isola deserta la mia stanza, su cui ero naufragato assieme a Panciut, il mio orso di peluche, e ad una bambola nera, che chissà chi mi aveva regalato. I miei ogni tanto venivano a vedere quello che stava accadendo, ma quando entravano, l'incanto s'interrompeva e l'isola decedeva il posto al grigiore quotidiano...

Ma quando i miei non c'erano, quando nessuno veniva a disturbarmi, allora io e l'orso ci impegnavamo in qualche straordinaria avventura che ci avrebbe condotti, alla fine, ad affrontare il Regno dei Topi...

... orsi...

La voce ritornò, dentro di me, e sentii il mio corpo raffreddarsi ancora, come di fronte ad una tempesta di gelo; perché non riuscivo a comprendere quello che stava accadendo e cominciavo a temere d'essere preda di qualche forma di psicopatia...

Ero seduto dinnanzi ad Ariel, e cercai di fermare i battiti sempre più veloci del mio cuore, attraverso una lenta respirazione: ascoltando nel frattempo se nell'assoluta mancanza di suoni della casa, prima o dopo quella stessa voce identica parola avrebbe ripetuto... e così, forse, pensai, anche questo incubo finirà con il cancellarsi, con lo scomparire, con l'esser in qualche modo dimenticato...

Già... orsi... mi trovai a riflettere sul fatto che poi non c'era motivo di stupirsi se una voce dentro di me (che doveva necessariamente essere, pensai, la voce del mio immaginario compagno di giochi) parlava di orsi; perché la mia vita, come quella di tutti, era stata intessuta da una serie interminabile di orsi di peluche; se socchiudevo gli occhi mi tornava alla memoria, come in un vecchissimo video dei Visage che avevo visto da ragazzo, una specie di armata di orsi di peluche che si muovevano, spalla contro spalla... tutti in fila, alle volte anch'io mi immaginavo di prender quella forma...

Guardai Ariel, sul comò. Accanto c'era il Sumotori, un koala che teneva una posizione simile a quella di un'atleta della "lotta degli déi" prima di iniziare il combattimento. Nel corridoio, sulla cassapanca c'era la koalina, si chiamava proprio così, Koalina, che Damia aveva acquistato in una tabaccheria, su in montagna.

Nel mio studio c'era Panciut, ma non quello originario; portava, come il suo precursore, pantaloni di velluto, bretelle e una camicia a scacchi da montagna.

Damia l'aveva subito battezzato, scoperta la somiglianza con il leggendario compagno d'avventure. E poi nel salone c'era Sanchez...

Lo squillo del telefono irruppe, disordinato, nel flusso dei miei pensieri. Lasciai perdere gli orsi e corsi nel mio studio; alzai la cornetta, chiedendomi chi fosse a quell'ora.

- Sono... qui... - Mormorò la voce di Damia - son qui, tutt'attorno alla casa ...

La sua voce era spezzata, gravida di paura. Sembrava che fosse sul punto di mettersi a piangere, lei, da un momento all'altro, lei che non piangeva mai.

- Sono qui? - Domandai - Chi? Di chi stai parlando?

- Topi...

- Topi? - Anche la mia voce si spezzò - Cosa vuoi dire?

- Hanno fatto dei lavori nelle fogne, giù, in basso, - Disse lei - proprio oggi. E ora… ora il giardino si è riempito di topi. Sono usciti da chissà dove. È orribile...

Chiusi gli occhi, e immaginai le code che frustavano l'aria, nude; e i corpi pelosi che si muovevano davanti e indietro. Era orribile.

- Chiama la forestale, - Mormorai - e resta chiusa dentro. Io arrivo subito.

Topi, Buttai giù la cornetta, mi vestii in un lampo, infilai le scarpe, un giubbotto. Dal cassetto della scrivania presi la mia pistola. Passai davanti a Panciut e dissi: - Sto partendo per il Regno dei Topi, fratello - e poco ci mancò che non caricassi pure lui. Scesi in garage e fra la roba da montagna raccolsi tutte le torce antivento, quelle che si usano per le esercitazioni. In un armadietto metallico conservo una scatola di granate incendiarie, l'insurrezione del Quindici non è poi troppo lontana ...

... la serata era gelida, e il cielo innaturalmente limpido. Se non fossi stato impegnato a tenere l'auto sulla strada, raddrizzando ad una ad una le innumerevoli curve che portavano a casa di Damia il mio sguardo avrebbe spaziato nelle profondità di quel cielo la cui maestà nessuna parola o concetto avrebbe mai potuto commisurare...

... topi... non riuscivo a immaginare se non a fatica quello che Damia mi aveva descritto. Lei aveva paura dei topi, più di quanta ne abbia io, che già li temo, e quindi la sua descrizione dell'evento poteva in qualche modo esser viziata; forse non era propriamente una legione, ed il giardino di casa sua non pullulava di schiene screziate di grigio e marrone; ma l'idea che dalla fogne solo una un paio di topi ne fosse venuto fuori era sufficiente a preoccuparmi... uno di quei topi che non avevano più a che fare con i ratti di campagna, con i sorci, con i topolini di città... i topi che avevano iniziato ad infestare le metropoli erano diversi; diversi da tutti gli altri roditori fino ad allora conosciuti, grandi come gatti e feroci come cani randagi che già correvano per le campagne... topi cresciuti all'ombra delle metropoli che si erano in qualche modo mutati e modificati, grandi e grossi e ben pasciuti, topi aggressivi nei confronti di ogni essere vivente... topi che se ne incontravi uno e non avevi un bastone, era meglio allontanarti...

... uscii dall'area urbana e m'inerpicai con l'auto lungo la via che portava al monte Fasce. La città era un quadro futurista, una marea di luci scagliate dal cielo lungo il litorale e poi sempre più addentro nei fianchi delle vallate, luci tremolanti, bianche, rosse, azzurre, come stelle decadute, e tutte risplendenti nell'ambiguo color malva che rifrangeva, vero scudo di smog, la luminosità... non mi soffermai a pensare a quanto tempo era trascorso da quando; bambino, le luci erano solo una manciata attorno alla città e il cielo non era color malva, e io avevo visto due innocui topolini di campagna e avevo creduto al Regno dei Topi, ora divenuto reale, cresciuto e divampato, occupando i sotterranei delle città e la notte. Una torma di topi che sciamava verso la campagna dalle fogne, e come in questo caso, addirittura giungevano al punto di... aggredire una casa? Eppure un fenomeno del genere non si era mai verificato... o non ce lo avevano detto?

Cambiai marcia e premetti l'acceleratore. Non ce lo avevano detto. Come non ci avevano più parlato dei cibi transgenici, dei reattori nucleari che perdevano radiazioni, dell'elettrosmog, delle onde che causavano i tumori, dell'innalzamento della temperatura, dei veleni scaricati nelle acque... pensai che nel Quindici il governo era caduto, ma i vecchi detentori del potere non erano stati a sufficienza epurati e restavano ancora nascosti in qualche nicchia... ci sarebbe voluto un’altra insurrezione, prima o dopo... i veri topi non erano quelli delle fogne, e la peste che spargevano si chiamava liberismo, globalizzazione, capitale e nonostante i nostri sforzi, continuavano la loro assurda proliferazione...

Quando fui a una decina di metri dalla deviazione che portava alla casa di Damia, solo allora vidi, molto sotto di me le luci lampeggianti di una jeep della forestale che stava giungendo. Pensai di attenderli, ma non ne feci nulla. Damia era nei guai, e toccava a me, per primo, tirarla fuori...

Anziché la strada, presi la deviazione per un viottolo che si gettava a capofitto verso il basso, e mi trovai avvolto in una sorte di oscurità sottile; a destra il buio, a sinistra il bosco; lontane, rade, le luci dei lampioni; gli alberi come braccia nodose e mani, i fossi, i botri, poi finalmente i muri delle case, ma distanti dall'altra, le finestre accese... tutte... e questo mi insospettì, perché non era strano davvero che in ogni luogo delle casa fosse necessaria la luce, a meno che... la strada...

... poi vidi le ombre di alcuni spettatori, che si mossero improvvisi spalancarono le finestre urlando; perché dinnanzi a me c'erano, come aveva detto Damia... topi... dieci? Venti? Quanti? Seguii la strada che divenne una creusa, fra le mute urla della gente barricata in casa, e vidi i topi schizzarmi attorno da tutte le parti... scesi la scalinata che portava verso la piazzetta, e mentre la jeep sussultava lungo i gradini della creusa, sotto la luce degli abbaglianti e quella che era divenuta una marea di schiene si muoveva attorno a me, saltando via dalla mia traiettoria. Tutti i topi squittivano, urlavano... ne sentivo le urla mentre i pneumatici della jeep sollevano dai gradini i loro corpi... fino a che non finii dinnanzi a casa di Damia, e allora feci manovra e mi trovai nello spiazzo davanti alla porta di casa, dove sembrava che si fosse radunata la maggior parte di essi...

Appena fermai l'auto, sussultando, me li sentii tutti addosso. Alzai il capo e da una finestra al secondo piano l'ombra scura di Damia, e alzai una mano in un cenno di saluto.

I topi si stavano riversando contro la mia jeep. Li vedevo concentrarsi come in un fiume, tutti contro di me; perché allora, fino ad allora, avevano minacciato gli abitanti del quartiere, ma ora che erano stati attaccati dovevano a tutti i costi vendicare i loro morti...

… dovevo far presto, e tirar fuori di lì Damia o almeno cacciarli via...

… manovrai ancora avanti e indietro per scrollarmeli di dosso e schiacciarne quanti potevo, poi aprii lo sportello sul tetto, tirai fuori la prima granata, tolsi la spoletta, la scagliai nel mucchio; la granata rimbalzò sulle schiene dei topi, rotolò a terra, esplose... una grande fiammata arancione incendiò la notte e le tremule ombre di code sul muro, mentre lo squittio diventava assordante... lingue di fuoco lambirono le schiene muschiate... buttai la seconda... la terza… i topi bruciavano e correvano all'impazzata cercando di scagliarsi contro la jeep… finii i lanci, e accesi le torce antivento una ad una e le scagliai nella piazzola... una luce sinistra che illuminava ancor più sinistramente, la notte...

Stavo iniziando a far manovra per cacciar via gli ultimi superstiti di quello strano esercito, quando giunse la forestale e una camionetta dell'esercito con i lanciafiamme...

Quando tutto finì, la visione del campo di battaglia era degna di un incubo o di un film splatter. Guardie veterinarie e forestali, soldati con i lanciafiamme, militi delle croce rossa si aggiravano in quella scenario perverso fra corpi di topi che erano stati ammucchiati in pire e incendiati, e topi superstiti che emergevano dal nulla in preda ad un furore sovrannaturale, attaccando gli umani che rispondevano con i lanciafiamme o con i bastoni. Qualcuno dell'esercito provò a domandami perché avessi con me delle granate incendiarie. Mostrai il mio distintivo di Resistente e dissi che erano souvenir del Quindici. In che gruppo, domandò. Bandiera Nera, risposi io. Lui sorrise e disse: Quinto Mare. Ci salutammo con rispetto, perché di noi ci eravamo salvati in pochi, ma loro erano stati quasi tutti annientati, e i sopravvissuti alle guerre civili sono stretti da un patto non comune di fratellanza.

- Non è possibile, - Stava dicendo il capo dei pompieri ad un capannello di gente - non ho mai visto nulla di simile.

Il viso di Damia era bianco in quell'oscurità fatta di fuochi. Si strinse nel suo giaccone e scosse il capo, incapace di dir parole.

- Si, ma non possiamo andare avanti in questo modo, - Disse uno degli astanti, un omone dal piglio nervoso - la prossima volta cosa ci aspetterà?

Il capo dei pompieri si strinse nelle spalle: - Topi. Da dove vengono? Come si moltiplicano? Dove vivono? Non ne abbiamo la minima idea.

- E allora, - Fece un altro - cercate di darci una botta, la prossima volta. Se non arrivava quest'uomo, - E indicò me - ce li trovavamo a ballare sul tetto, i topi.

- Abbiamo fatto il possibile.

Damia mi fece un cenno, mentre il gruppetto cominciava a dividersi in due fazioni e le voci s'alzavano di qualche tono. - Andiamo via.

Ci allontanammo. Davanti a noi bruciavano i fuochi e gli addetti spegnevano sui corpi il disinfettante prima di passare ai roghi.

- Grazie.

- Di che?

- Di essere arrivato.

Alzai le spalle. - Se tu mi telefoni dicendo che c'è un problema con i topi, questo significa che ti è entrato qualcosa di più di un topolino in casa.

- Tu hai paura dei topi.

Sorrisi: - A volte posso farmela passare. Ma non ci prendere l'abitudine...

Damia mi chiese di restare con lei, ma mi sentivo scosso e irrequieto, e poi volevo capire cosa mi fosse successo. Cercavo di non pensare che quella parola, "orsi", che mi aveva svegliato dal sonno, e spinto a cercare in casa, mi aveva fatto anche scoprire che il telefono era staccato. Se non fosse accaduto quello strano evento, non avrei mai ricevuto la telefonata di Damia...

Razionalizzando: inconsciamente avevo notato che la spina del telefono era staccata, e, durante il sonno, il mio inconscio mi aveva svegliato con quella serie di messaggi iterati. Fra i tanti messaggi l'unico che mi avrebbe fatto svegliare era quello di una voce nelle orecchie. Ma perché"orsi"? Perché gli orsi erano gli animali preferiti di Damia, naturalmente.

L'ho detto; ho paura dei topi. Avevo paura, quand'ero bambino, ed era per quello che in compagnia di Panciut andavo a far visita al Regno dei Topi, ma anche quando diventai ragazzo, se mi capitava d'incocciare in un ratto, giravo più al largo possibile. Poi i topi divennero sempre più impudenti, sempre più numerosi.

Un giorno io e Francesco stavamo transitando lungo i vicoli dell'angiporto, quando ci trovammo un bel topone, grosso come un gatto, che ci sbarrava la strada.

Eravamo in Vespa. Il topone ci scrutava muovendo la coda, come se si stesse preparando a una carica. Dissi a Francesco: - Tieni su i piedi.

Partimmo, ma il topo, anziché allontanarsi, arretrò giusto un metro per non finir sotto le ruote, poi ci ripensò e prese a correrci dietro. Erano gli anni Novanta... da allora, anno dopo anno, le città sono divenute sempre più invivibili, più grandi, più inquinate e i topi sono diventati più grossi. Quelli a due zampe, anche. Quelli che, nell'arco di un decennio, conquistarono illegalmente il potere a colpi di spot televisivi, spacciando una fandonia più grande dell'altra, fino a che nel Quindici si allearono con la mafia, tennero il gioco duro e promossero leggi più che liberticide. La pistola la porto dietro da allora, e in quanto alle granate incendiarie, ne conservo ancora una scatola ben nascosta.

Me ne tornai a casa, ed era un po' scosso, così infilai la pistola nel cassetto del mio studio, poi me ne andai in cucina a prendermi una birra. La stavo sorseggiando, mentre dalla finestra scrutavo il monte Fasce e immaginavo la casa di Damia nel buio, quando udii un rumore dietro di me.

- Alza le mani. - Disse una voce.

Sobbalzai. Precipitai nuovamente negli incubi degli anni passati. Dopo tanto tempo... cosa stava succedendo? Obbedii, le mani che mi tremavano, il respiro corto, il cuore che rombava come una raffica. Erano... loro?

- Muoviti lentamente, le mani in alto.

Mi girai. Nel vano della porta c'era un uomo sulla trentina, alto, slanciato, con il volto segnato la barba lunga, i capelli rasati a zero. Indossava un cappotto militare e teneva spianata, dinnanzi a me, una pistola automatica.

- Mi riconosci? - Mormorò.

Scossi il capo. - No. Chi sei? Cosa vuoi da me? Come sei entrato?

- Non mi riconosci. - Sogghigna. I suoi occhi erano scuri e inespressivi, le labbra grossolane e crudeli. Cercai di indovinare, più di comprendere, chi fosse, cosa volesse da me, e soprattutto cercai di prender tempo, perché se qualcuno ti minaccia con una pistola, avevo imparato, l'unica cosa ragionevole che puoi fare è prender tempo.

- No, non ti riconosco, anche se, a guardarti bene... · c'è qualcosa di familiare in te.

- Scossi ancora il capo - Chi sei?

- Alberto Giorgi, professore. Ti ricorda niente, questo nome?

Strabuzzai gli occhi. - Tu sei... quel Giorgi?

- Proprio io. Appena uscito per buona condotta dal carcere, e venuto a saldare il conto con te... il mio ex-professore. Quello che mi ha fatto finire dentro.

Maledizione, se non me l'avesse detto che era lui, non ci avrei mai creduto. Il Giorgi che consegnammo alla polizia, ai vecchi tempi, era un tipo grande e grosso, tutto allampanato, con i capelli lunghi legati in un codino, e abiti firmati addosso.

Adesso era l'ombra, bianca, di sé stesso, un'ombra smunta e smagrita. Tirai un sospiro. Alberto Giorgi era stato mio allievo, tanti anni prima... tantissimi anni prima.

Un pessimo allievo, violento, antisemita e razzista, figlio di ricchi e, come tutti i ricchi, pieno di presunzione e di arroganza. Avevo cercato in tutti i modi di fargli comprendere, con molta calma e con molta dolcezza, che non aveva afferrato molto bene il senso delle cose, ma era stato inutile: al posto del cuore aveva una pietra, e al posto del cervello il vuoto. Poi all'università era diventato un nazista di piccolo calibro, spacciatore di cocaina, tirapiedi dei ras genovesi, specializzato in pestaggi ai danni di individui disarmati: faceva parte di quei gruppi che stavano montando una provocazione dopo l'altra per far definitivamente crollare quella bucherellata opposizione di sinistra che spirava in uno stato prigioniero della NATO e degli yankee, spossessato della sua identità nazionale, bersaglio delle destre e invaso da orde di immigrati che dopo un po' di preparazione diventavano abili alleati delle diverse mafie, politiche e no. Abitava nel quartiere di Albaro, da tempi immemorabili covo di picchiatori e noi sapevamo tutto di lui ma finché non avessimo avuto uno straccio di prova non avremmo potuto fargli nulla; sapevamo chi era e cosa faceva, ma nessuna delle sue vittime aveva il coraggio di denunciarlo... la polizia era quasi tutta in mano loro, e i pochi che dissentivano, non contavano nulla... e andare a cercarlo, significava attirarsi dietro tutti i suoi sgherri. Ma nel Quindici, durante l'insurrezione, io e altri ci andammo veramente a cercarlo, ma senza trovarne traccia... come tutta la gente di fegato era scomparso. Poi tutto si sistemò, l'Italia tornò ad essere una nazione democratica, e quelli che avevano preso la fuga tornarono... in sordina, ma tornarono, perché tutto sommato non si trattava di una nazione troppo democratica, e al posto dell'epurazione totale c'era stata l'amnistia. Venimmo a sapere che era tornato, e che viveva a Milano, e stava cercando di rianimare la piazza. Era l'occasione buona per fare i conti. Io andai a cercarlo, lo trovai, lo provocai, lui mi saltò addosso ma saltarono fuori i compagni che aveva suonato negli anni trascorsi rendendogli la pariglia, poi a furia di sberle gli tirammo fuori una lunga e circostanziata confessione. La polizia a cui ci rivolgemmo era quella epurata, e fu ben felice di prendersi in consegna uno degli arruffapopoli del Quindici. Ma la legge aveva fatto il resto. Come negli anni Novanta, nel primo decennio del secolo, nel secondo, aveva fatto uscire dal carcere i delinquenti.

Dissi: - Se anche riuscissi ad accoppare me, e ti assicuro che sarà molto difficile, appena i compagni verranno a saperlo ti daranno il resto. Non ti consegneranno neanche alla polizia, questa volta... faranno tutto loro.

Giorgi sogghignò: - Tu credi di essere furbo, non è vero? Sei riuscito ad incastrarmi una volta, e pensi di riuscirci una seconda, professore. Beh, ti sbagli, non è così. Ora ti pianterò due pallottole nel cervello, e poi farò in modo che questa pistola assolutamente anonima venga trovata in casa di uno dei tuoi compagni anarchici.

Alzai le spalle. Se fossi riuscito a tenerlo occupato ancora un po', avrei potuto provare a saltargli addosso.

- E cosa vorresti far credere? Che ci siamo ammazzati fra di noi?

- Certo, intelligentone. Tu e i tuoi compagni di caccia, vi siete ammazzati per una strana, stranissima questione che vi legava ai servizi segreti, agli squadroni della morte neri, e all'insurrezione del Quindici.

- E tanto per sapere, come vuoi dimostrarlo? - Giorgi si era sempre creduto più intelligente degli altri, e bisognava stuzzicarlo in quel modo. Mi avvicinai, senza averne l'aria. - Con una mia confessione scritta?

Sorrise. - Niente di così semplice. Tu vieni trovato morto, e una telefonata anonima dice alla polizia che la pistola si trova nel garage di uno dei tuoi amici. Il tuo amico cade dalle nuvole, ma mentre è in carcere un altro del gruppo viene ucciso. Allora i tuoi amici cominciano a sospettarsi l'uno con l'altro e qualcuno dice alla polizia che sotto c'è una questione scottante. Ad esempio documenti dei servizi segreti, che dicono che una parte di voi faceva il doppio gioco. Ti ricordi il dossier del KGB?

Annuii. - È uno dei più grossi falsi della storia, secondo solo ai Protocolli dei Savi di Sion. Lo costruiste voi a fine secolo, quando decideste che era il momento di ritentare il colpo per vie legali, dopo esser stati sconfitti legalmente nel Novantasei...

- Ecco, immagina un lavoro del genere. Con quelli che sono rimasti del mio gruppo, siamo riusciti a creare un dossier su di voi... immagina che effetto farà, agli occhi dell'opinione pubblica: il celebre gruppo Bandiera Nera al soldo dei servizi segreti.

Mi avvicinai ancora. - Non credo che possa funzionare...

In quel mentre si udì, proveniente dal salone, il rumore di uno schianto, che esplose e rimbombò per tutta la casa, come se la libreria fosse improvvisamente caduta. Giorgi si voltò verso la porta mormorando qualcosa, e fu allora che scattai.

Fu troppo lento a sparare. Il primo colpo andò al soffitto, il secondo mi mancò, al terzo gli avevo stretto la pistola fra le mani e quella sgranò tutto il caricatore centrando i muri e i vetri che esplosero. Poi cercò di usare la pistola come un martello e mi colpì diverse volte la faccia, ma io lo centrai con una testata e gli spaccai il naso. Avevo vent'anni più di lui, ma era incazzato il doppio.

Rotolò via, e io strappai dalla parete della cucina un enorme coltello che se ne stava nella coltelliera. Gli fui addosso, ma lui mi rovesciò addosso il tavolo per intralciarmi e manovrò poi per buttar fuori il caricatore dall'automatica. Se ce l'avesse fatta, potevo salutar tutti... sgattaiolò via dalla cucina, mentre io mi rialzavo, e percorse il corridoio e sparò nel salone. Io gli corsi dietro, ma mi fermai improvvisamente quando udii netto il sonoro "clic-clac" dell'automatica che caricava... mi fermai e realizzai che la mia pistola era nel cassetto dello studio... che fare? Se entravo io mi avrebbe steso, se usciva lui potevo ancora provare a lanciargli addosso il machete. Spensi la luce del corridoio, mi appiattii contro la parete, tenendo l'impugnatura con tutte e due le mani.

- Bastardo figlio di puttana, - Mormorò lui - vieni a prendermi, adesso.

Io tacqui. Che parlasse pure, segnalandomi dov'era...

- Non dici niente? Allora vengo a prenderti io.

Silenzio. Sentivo il sudore che mi grondava addosso. C'erano due metri fra me e la porta del salone, e io non potevo sapere se sarebbe uscito in piedi o accucciato, o se sarebbe invece rotolato a terra. Comunque non avevo una possibilità di cavarmela, a qualunque modo, ma non volevo farmi accoppare con un colpo nella schiena e meno che mai farmi accoppare senza provare a tagliuzzarlo.

- Vengo a prenderti e ti pianto una pallottola in quella testa di cazzo di anarchico.

Silenzio. Il mio respiro era corto e rabbioso, e inutilmente cercavo di calmarmi.

Perché un conto era farsi ammazzare per la libertà in mezzo alla strada, fra la nebbia dei fumogeni, i cubetti di porfido che volavano e le luci lampeggianti dei blindati, e un conto farsi impallinare nella propria casa quando la guerra era finita.

- Vengo... che cazzo?

Restai immobile. Poi sentii altre parole incomprensibili, un rantolo, la sua voce che gridava: - No! No! - e poi un urlo che si alzò, lancinante, nel buio, seguito dal tonfo come di un corpo che, all'improvviso, cada sul pavimento senza vita. Restai fermo, immobile... stava barando o cosa? Che aveva in mente? Uno, due, tre… nessun rumore. Poi il suono rassicurante di una sirena, il fischio degli pneumatici… silenzio... stava per lanciarsi dentro? Il sudore mi colava addosso, poi un battito forte alla porta, e una voce dall'esterno - Polizia! - e io contai fino a tre, corsi alla porta, la spalancai e mi gettai fuori fra un gruppo di agenti che stavano aspettando.

Gli agenti trovarono Alberto Giorgi morto. Era pieno di sangue, aveva un nuovo caricatore nella pistola, il naso spezzato, gli occhi sbarrati come se avesse visto, alla fine, un orrore più grande della morte, ma il medico legale prima e poi l'autopsia non ebbero dubbi sul constatare un decesso per cause naturali: non ero stato io ad ucciderlo ma il suo cuore che non aveva resistito alla tensione. Così morì un picchiatore nazista, e nessuno di noi si terse lacrime dal volto.

Sei stato fortunato, dissero i compagni di Bandiera Nera, e noi con te.

Già, dissi io, siamo stati tutti fortunati. È stata la mia serata di fortune perigliose, prima ho combattuto con topi di fogna a quattro zampe, poi con quelli a due.

C'era anche Damia, al Bandiera Nera. Ma non disse che ero stato fortunato.

Disse: - Ha funzionato.


Una notte di marzo del 2013 sognai che nel mio letto troneggiava un grande orso di peluche. Accanto ad esso un biglietto scritto da Damia, m'informava che il nome di quell'orso era Sanchez, e che il suo compito sarebbe stato quello di effettuare il turno di protezione della mia casa in un orario differente da quello degli altri orsi.

Beh, raccontai a Damia il sogno e lei si divertì molto, e giunta a Granada con una borsa di studio, facendo un giro per la città vecchia non le parve molto strano scoprire in un negozio un orso di peluche che si chiamava Sanchez, e ancor meno strano il comprarlo. Quando andai a trovarla, durante le vacanze di Pasqua, mi presentò Sanchez e disse che era l'orso del sogno, che avrebbe protetto la mia casa e in modo particolare mi avrebbe protetto dai Topi, quando sarebbero venuti fuori dal loro Regno. Era assolutamente incredibile. Feci il viaggio di ritorno con un orso alto quasi quanto me, seduto al mio fianco, che faceva sbellicare dalle risa tutti gli altri automobilisti. Gli avevo anche messo la cintura di sicurezza.

A casa, pensai dove sistemare Sanchez. Era così grosso che l'unico luogo che poteva ospitarlo era il divano, situato nel salone, fra le librerie.

Sanchez. Stava sempre sul divano. A furia di vederlo seduto cominciai a considerarlo come una persona. Ma quando entrammo in sala con la polizia per scoprire il cadavere di Giorgi, Sanchez non stava più sul divano ma era rotolato a terra a un metro dal cadavere. Come diavolo avesse fatto quell'orso a traversare un salone di sei metri, lo ignoro, anche perché non credo che Giorgi avesse avuto voglia di giocarci, con l'orso, e neppure di usarlo come scudo; d'altronde ignoro anche come abbia fatto una grossa e stabile libreria, a rovesciarsi a terra, provocando quel baccano indiavolato che distrasse Giorgi mentre mi minacciava con la pistola.

- Ha funzionato - Disse Damia. E aggiunse: - Te l'avevo detto che ti avrebbe protetto dai topi.

Si, dissi io, ma come posso raccontare che un orso di peluche di nome Sanchez, un sostitutivo del compagno di giochi immaginario che mi accompagnava nel Regno dei Topi quand'ero bambino, si è improvvisamente animato per difendere il suo padrone da un topo a due zampe... uno di quelli che nessuna derattizzazione sarebbe mai riuscita a eliminare?


© C. Asciuti, maggio 1998-ottobre 1999






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