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La nuova Metropolis


di Andrea Iovinelli


Intro. Anno 1988, Akira, di Katsuhiro Otomo. Anno 2000, La Principessa Mononoke, di Hayao Miyazaki. Anno 2002, Metropolis, di Rin Taro. Sono gli unici lungometraggi animati di produzione giapponese distribuiti nelle sale italiane (se si escludono i vari Pokemon e Digimon) negli ultimi venti anni. Tre capolavori indiscussi (e indiscutibili) della cinematografia mondiale, che trascendono la semplice e semplicistica classificazione di film di animazione per elevarsi al medesimo livello (almeno quello...) delle pellicole realizzate con attori in carne e ossa, ed assurgere a pieno diritto alla dignità che spetta a un'opera d'arte. Gli unici che sono stati capaci, grazie alla loro assoluta e conturbante bellezza, ma anche perché supportati dalla gloria e i riconoscimenti raccolti in tutto il resto del mondo, di abbattere l'inspiegabile e infrangibile muraglia del pregiudizio, del discredito e della indifferenza che continuano a imperversare nella. coscienza e nell'opinione pubblica popolare italiana, massificata e pilotata da mode massmediate tanto effimere quanto insulse nella sostanza.

Tanti, troppi, sono gli anime (i disegni animati nipponici) che meriterebbero un passaggio cinematografico anche nelle nostre sale e che invece vengono sistematicamente ignorati e lasciati nell'oblio. Spesso, l'unica possibilità di ammirare queste produzioni è relegata ai piccoli circoli culturali, alle piccole iniziative private o ai festival del settore, sia fantastico che animato, in salette improvvisate e con pellicole originali, e bisogna essere davvero degli appassionati fanatici per riuscire a rintracciare con successo simili iniziative. Per questo l'arrivo di Metropolis in Italia è un evento tanto eccezionale quanto raro, che lascia filtrare uno spiraglio di luce nel buio totale che circonda il "ghetto" dei cultori di anime e animazione in generale; e che ci lascia sperare (non costa nulla, in fondo) in un futuro più roseo per questa forma di espressione unica, con uno spazio finalmente degno e adeguato a quello che ormai, nonostante gli alti papaveri della nostrana distribuzione cinematografica fingano di non accorgersene, e un mercato non più di nicchia, ma ben sviluppato, ricco e ampio.


Il film. Metropolis nasce come adattamento del manga di Osamu Tezuka, uno dei primi del Maestro per eccellenza, il padre di tutti gli autori giapponesi (meglio conosciuto in patria come Manga no kamisama, "Il dio dei manga"), ed è datato addirittura settembre 1949.

All'interno del soggetto originale è possibile rintracciare tutti gli elementi divenuti stereotipi tipici, e poi dei classici per tutti, della straordinaria arte per immagini dello stesso autore, e poi conseguentemente del media fumetto in generale e ovunque nel mondo. Ed è evidente anche agli occhi di un non esperto, il tentativo degli autori della pellicola di mantenere intatta e pura l'anima della creatura di Tezuka, il devoto rispetto col quale hanno curato personaggi, ambienti, scenografie, cercando di "ricalcarli" il più fedelmente possibile sul segno originale lasciato su carta dal Maestro. Nel corso della visione del film si avverte questo senso indefinito di "lasciato in sospeso" che permea ogni aspetto dell'opera, e che io credo dovuto proprio al "timore" reverenziale con cui i vari illustri autori si sono dovuti confrontare, la loro paura di intaccare in un qualche modo che potesse essere visto come oltraggioso lo spirito del manga e quello ben più ampio e complesso del suo autore, sia sotto l’aspetto puramente fisico che dal punto di vista delle sensazioni emozionali che avrebbe potuto suscitare il film. Hanno tralasciato di lavorare magari troppo su aspetti essenziali come protagonisti e trama che, proprio per la loro peculiarità e la loro storicità, il loro essere archetipi di un mezzo di comunicazione e di un genere narrativo, dovevano essere lasciati intatti, tentando di avvicinarsi il più fedelmente possibile alla versione originale senza per questo macchiarla della loro impronta, che pure, volenti o nolenti, è ben riconoscibile.

Ed è per questo che Metropolis non si distingue per la particolare originalità della trama, per lo spiccato coinvolgimento emotivo o per l'affascinante caratterizzazione dei personaggi: il lungometraggio è un "semplice" omaggio a Papà Tezuka e per essere tale doveva essergli fedele in tutti i suoi aspetti, a costo anche di risultare "banale" e già visto, retrò e superato nella trama come nelle tematiche affrontate.

Ecco cos'è Metropolis: uno spettacolare giro di giostra sulle gambe del nonno (in questo caso, nonno Tezuka), alla ri-scoperta di mondi fantastici e avveniristici, e di quel mai troppo rimpianto (e quando riesumato spesso disprezzato) "senso di meraviglia" che era una parte essenziale della vita d'ogni giorno, in quegli anni colmi di dolore e sofferenza, ma anche di visioni e speranze nel futuro, e in cui non c'era modo o tempo per piangersi addosso ma solo la voglia cocente di rimboccarsi le maniche per cambiare il destino proprio e quello altrui. Ed è pure una voluta ricerca di quell'indimenticabile e nostalgico spirito per la pura avventura che cova in tutti noi e che è costantemente scacciato dal frustrante e irritante desiderio moderno di complessità e ricercatezza, di credibilità verosimiglianza, laddove invece ci si augurerebbe di trovare solo sano e rilassante divertimento. In poche parole: un semplice spettacolo per gli occhi.

Perché tutto ciò? Bè, perché alla fin fine Metropolis in un certo senso vorrebbe poter essere un manifesto e una testimonianza di storia, un depliant illustrativo di storia del cinema d'animazione giapponese. E null'altro. Vi pare poco?


La trama. Metropolis è una splendida e luccicante città dall'aspetto dichiaratamente ispirato alle ardite e avveniristiche architetture del primo Metropolis, il capolavoro di Fritz Lang, del 1926 (che Tezuka non aveva visto e a cui pare si sia ispirato per ciò che concerne l'osservazione di una foto che ritraeva la scena della nascita della donna-robot). Qui i suoi cittadini vivono beati nell'agiatezza, cullati dal benessere che si manifesta appariscente in ogni angolo, crogiolati dal tiepido e benefico calore dell'Utopia virtuale di cui sono parte, e a cui voglio credere nonostante la realtà si distacchi in modo netto dalle false apparenze, tutto affinché non sorgano in loro malumori o pensieri disdicevoli, magari forieri di disordine e ribellione. Sotto tutta questa scintillante apparenza infatti, dove l'occhio non può arrivare (e il cuore "dolersi"), vive e si trascina nel tentativo di sfuggire al suo triste destino, tutta un'intera cittadinanza a sé stante; quella dei disadattati, degli emarginati, tutta la casta più sofferente e più povera della popolazione relegata nei sotterranei delle zone inferiori per non turbare le coscienze del tranquillo ed efficiente tran tran quotidiano della classe "superiore". Sfogo principale delle loro frustrazioni, e principale obiettivo della loro voglia di rivalsa verso il mondo che li discrimina, sono i robot, sfruttati come dei veri e propri schiavi al fine di mantenere perfettamente funzionante la complessa società, i quali hanno sostituito gli uomini nei lavori più umili e pesanti, privandoli della manodopera operaia, e riducendo nella maggioranza dei casi alla completa inutilità il bisogno di affidare agli uomini i più svariati servizi, svolti con ben altra efficienza e diligenza dalle macchine.

La cittadinanza intera si ritrova così a celebrare il completamento della più grande e magnifica impresa tecnico-architettonica, la Ziggurat, un’immensa, sfavillante struttura a più torri che si erge maestosa sopra a tutti gli altri grattacieli fino a toccare le nuvole e a sfiorare il cielo: una evidente metafora con ben più alti poteri, a dimostrazione dell'onnipotenza che può vantare la prepotente dirigenza politica di Metropolis. Nessuno però tra la folla, né tra il presidente Boone o il sindaco Leon, festeggiati dalla moltitudine che li acclama tra brindisi e felicitazioni, è cosciente dell'atroce realtà che si nasconde nel cuore stesso della torre: una terribile arma di distruzione escogitata dal suo stesso creatore, il diabolico Duca Red, il magnate della città, al fine di rovesciare l'apparato statale vigente e impossessarsi del potere assoluto.

Nel frattempo Shunsaku Ban, uno scaltro investigatore giapponese (ritratto con la fisionomia di quello che uno dei personaggi-maschera caratteristici di Tezuka, di quelli alla Black Jack per intendersi, e che "il Dio" era solito usare a mò di veri e propri attori), e il suo nipote Kenichi, che lo coadiuva nelle indagini, giungono in città seguendo le tracce di uno psicotico scienziato, il dottor Lawton ricercato come pericolosissimo criminale.

Quest'ultimo, grazie alla sua folle genialità, viene ingaggiato dal Duca Red con lo scopo di costruire un essere artificiale superiore, a immagine e somiglianza della sua defunta e adorata figlia Tima, destinato ad assumere, per conto del Duca, il controllo totale di Metropolis e dei suoi cittadini.

Ad aiutare la coppia di investigatori si aggiunge anche il detective robot Pero, vivida e toccante testimonianza "vivente" della meschina e bistrattata condizione in cui versano tutti gli altri esseri meccanici senzienti della città. A complicare le cose e a infittire la trama ci si mette poi Rock, il figlio adottivo del Duca Red, che invidioso del ruolo privilegiato a cui vede destinato un semplice automa e che invece desidererebbe, come è naturale che sia, ardentemente per sé stesso, decide di passare all'azione e di eliminare il suo diretto concorrente allo "scettro" cittadino. Così, grazie anche al prezioso supporto investigativo di Pero, l'investigatore-robot, la piccola comitiva giunge fin nei meandri più degradati dei sotterranei, nella Zona 1, dove scova finalmente il rifugio segreto di Lawton. Mentre sono sul punto di acciuffarlo, un incendio furioso, scatenato da Rock per rimuovere ogni minima traccia della creatura artificiale rivale, separa il gruppo; Kenichi e Tima scompaiono assieme nei labirintici e tetri strati inferiori della metropoli. Così Ban e Pero, insieme al tentativo di far luce sulla sorte di Lawton e su quali fossero i suoi progetti, si ritrovano anche a dovere condurre un'indagine parallela per ritrovare Kenichi, e ardua e tortuosa sarà la strada da percorrere prima che i due riescano a trovare una degna risposta a tutte le domande e i misteri irrisolti.


Le considerazioni. La città, Metropolis, è la protagonista indiscussa della pellicola. Non lascia spazio ai personaggi che per tutta la durata di quest'ultima rimangono in secondo piano, in disparte e trascurati nella loro crescita personale psicologica ed emotiva, quasi nascosti o offuscati dalla stupefacente, incantevole rappresentazione grafica della metropoli. Non si può non rimanere affascinati dallo spettacolo visivo "imbandito" a beneficio dello spettatore dagli scenografi e dagli animatori tutti, dalla cura maniacale per il più trascurabile dettaglio, la certosina attenzione al più piccolo particolare, ad ogni angolo di strada o per ogni vicolo, gli straordinari effetti di luce accompagnati e contrastati dall'altrettanto spettacolare messa in scena di una gamma di colori, per lo più vivaci e caldi, come poche se n'erano vista prima (forse solo Akira può degnarsi di competere agli stessi livelli); dalla magnificenza, la ricchezza barocca con cui è stata progettata e costruita la torre-fortezza in un tutta la sua invalicabile onnipotenza (sebbene l'integrazione tra animazione analogica e digitale, tutt'altro che impeccabile, soprattutto nella riproduzione della Ziggurat, lasci spesso perplessi).

Non che manchino le idee all'interno del film, che spaziano dalla lotta per la difesa dei diritti fondamentali delle masse meno agiate, alle rivendicazioni lavorative, dalla crisi generazionale tra genitori e figli a tutti i problemi connessi alle intelligenze artificiali: i loro diritti, la loro proprietà, il loro ruolo, ecc. Non ci troviamo di fronte a un'opera in cui autori, ritrovatisi privi della fondamentale e vitale scintilla creativa, hanno tentato di barare accecando lo spettatore. Qui la scelta è stata fatta con cognizione di causa, una scelta di stile, di "veduta", una scelta semplice, ben identificabile, criticabile forse, ma precisa e diretta. Visivamente Metropolis doveva lasciare a bocca aperta per la sua ambientazione, per i suoi scenari vertiginosi e per le sue architetture futuristico-avveniristiche, per la generale complessità da dare a uno scenario che doveva sembrare credibile, in tutta quella sua spaventosa, febbrile caoticità mista a splendore ordinato, e, bè... guardare per credere, ci sono riusciti. Ed è così fin dalla primissima sequenza: il turbinio di luci e fari, la musica jazz a conferire il ritmo che accompagnerà tutto il lungometraggio, e un'inquadratura angolata dal basso su di una enorme nave fluttuante tra i grattacieli, a enfatizzare che la città, solo lei e non i singoli personaggi, è la vera protagonista del film.






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