Recensione di Marcello Bonati a "Terra di mutazioni"
Terra di mutazioni (The Changing Land, '81), di Roger Zelazny, "Urania" n. 939, ed. Mondadori, '83, traduzione di Delio Zinoni, 157 pagine, edizione originale: (Ballantine, '81)
Romanzo facente parte di quella serie di opere di fantasy che, nell'ultima parte della sua vita, prevalentemente scrisse, dopo i capolavori che gli sappiamo. E del ciclo di Ambra che è, come sappiamo, il meglio di quelli, vi sono svariati richiami e rimandi, soprattutto nel finale.
Gli 11 racconti che compongono Dilvish, The Damned, costituiscono un antefatto a questa opera. Il romanzo è strutturato in tre parti: nella prima si mettono le carte in tavola, ovvero si prepara il terreno per la seconda parte: vi è un castello, al centro della vicenda, detto "Il castello senza tempo", ed attorno ad esso vi sono alcuni Guardiani della Società dei maghi; al suo interno ci sono sette maghi imprigionati che si difendono come possono dagli appetiti voraci di demoni antropofagi, oltre che una Elementale richiamata in vita per il semplice fatto di saper comunicare con un antico, Toalua; lei si chiama Semirama, e ha vissuto varie vite, riincarnandosi periodicamente; nel castello, poi, c'è anche Baran della Terza Mano, braccio destro di Jelerak, momentaneamente assente, anche se non tutti lo sanno.
Tualua sta per impazzire (è una specie di grande piovra che si cruogiola nel fango del fondo di un pozzo...!), e Semirama lo induce a scatenare i suoi poteri sul terreno circostante il castello, venendo così a creare le fatidiche Terre di mutazione.
Poi incominciano a giungere da più parti cavalieri che seguono lo stesso percorso sia fisico che ideale dei prigionieri; conquistare il castello e impadronirsi del potere di Tualua.
Maghi bianchi e maghi neri, se non, poi, addirittura un indeciso ovvero un grigio... e poi demoni a profusione, elfi, incantesimi e pipistrelli, sacrifici umani tentati, sgranocchiamenti di ossicina umane ed altre piacevolezze.
Il tono, comunque non è assolutamente pesante, la lettura è scorrevole, e gli incitamenti da parte dello scrittore non mancano certo, soprattutto verso il finale, che è tutto un correre, un susseguirsi affascinante di avvenimenti in rapidissima successione, per poi...
Il finale vede il palcoscenico ingrandirsi a vista d'occhio; se prima i personaggi e le azioni avvenivano in un ambito molto ristretto sia temporalmente che spazialmente, quasi all'improvviso il quadro cambia, e ci troviamo a leggere di gesta eroiche che si svolgono in un clima molto ma molto simile a quello in cui si svolgevano nel già citato ciclo di Ambra.
Il mosaico si ricompone, ma non totalmente; lo scrittore fa notare lui stesso l'impossibilità di trovare spiegazione a tutto quello che è accaduto, e il finale assume una specie di tono leggero, anche se non mancano alcune annotazioni filosofiche, per altro non imperscrutabili.
Ah, dimenticavo; c'è anche un cavallo nero che parla, la cui provenienza è niente meno che l'inferno, da cui è fuggito insieme a Dilvish... che se ne fa un baffo del potere, ma che vuole uccidere Jerelak per... insomma, i fili che si intersecano sono molti, e alla fine ci si ritrova con una grossa fune ancorata all'infinito temporale e spaziale.
Vorrei concludere con una segnalazione: se leggete questo libro, vi consiglio di farlo o subito prima o subito dopo la lettura di La notte e gli amori di Joe Dicostanzo (Night and the lovers of Joe Dicostanzo), di Samuel R. Delany, pubblicato in Al servizio di uno strano potere (Driftglass, 1971), Robot n. 35, ed. Armenia, 1979, pag. 229, traduzione di Paolo Busnelli; vi troverete somiglianze ed agganci molto fecondi!
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