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Recensione di Marcello Bonati a "Fragili stagioni"


"Fragili stagioni" (Brittle Innings, '94), di Michael Bishop, "Il libro d'oro" n. 85, ed. Fanucci, '95; traduzione di Carlo Borriello, 444 pagine, L. 25.000


Romanzo davvero strano, questo di Bishop, in cui, in pratica, racconta, molto dettagliatamente, della carriera di un giocatore di baseball durante la seconda guerra mondiale, che avrebbe potuto arrivare alle serie maggiori, ma che un terribile incidente rende infermo. Detta così potrebbe sembrare che non sia affatto un romanzo di fantascienza, ma, nonostante, in effetti, il libro racconti proprio di ciò, Bishop vi racconta anche un'altra storia, quella, nientedimeno, di... Frankenstein... :

"... uno scienziato il cui nome era diventato sinonimo per... bè, per L'amore di Hollywood per film d'orrore piuttosto a buon mercato." (pag. 211), iniziando da dove finiva il romanzo della Mary Shelley. Il compagno di stanza del protagonista (che narra in prima persona), è un tipo grosso, molto forte, un po' strano... e, si, si rivela essere proprio il mostro di Frankenstein, giunto fin là avendo attraversato infinite traversie, che ci vengono, brevemente, narrate attraverso i suoi diari, che il protagonista, divenuto suo amico, ha, unico, il permesso di leggere. Ma il romanzo potrebbe benissimo reggersi anche senza di questo, e l'elemento fantastico si inserisce solamente dopo ben 172 pagine: "Oh Dio, ma cosa stava accadendo a Jumbo? I suoi occhi divennero argentei, poi color rame, poi dorati. E poi color ambra, come quelli di un gatto spaventato. Il suo corpo sussultò, sussultò di nuovo, poi cominciò a contorcersi senza che i piedi si spostassero di un solo centimetro. Era come se fosse in preda alle convulsioni dalle ginocchia in su. Le sue braccia si irrigidirono e ricaddero, per irrigidirsi ancora una volta, come quelle di un condannato alla sedia elettrica... "Alcuni passi, mi hanno fatto pensare che questa sia un'opera un po' polemica, nei confronti dei soliti detrattori della Sf, una specie di dimostrazione del fatto di saper scrivere anche un buon romanzo mainstream, ma, al contempo, valorizzandolo, e valorizzando l'intero genere, trattando di uno dei suoi capolavori indiscussi. Dopo quel brano, brevi accenni ci fanno presagire la vera identità di Jumbo/Frankenstein: "Gli occhi gialli di Jumbo parvero penetrargli nel cranio, lasciando le orbite spaventosamente vuote... Se soltanto avessero avuto l'aria di essere i suoi, la loro ricomparsa mi avrebbe confortato. Ma non sembravano esserlo... " (pag. 175-6); e, quando i due amici vanno a vedere, guarda caso, "Frankenstein", "La moglie di Frankenstein" e "Il figlio di Frankenstein", Danny, il protagonista/narratore, si accorge di qualcosa: "... avreste dovuto essere ciechi per non notare una somiglianza: la testa quadrata, i corpi massicci." (pag. 182); fino a che questi non scopre, fra gli oggetti di quello strano amico, delle lettere altrettanto strane: "... era datata "11 dicembre 1798." (pag. 204). Ma, quelle lettere, non sono niente al confronto del diario, in cui, assolutamente indubitabilmente, il suo amico descrive delle sue gesta incredibili... di più di un secolo addietro!! E capisce che: "... era davvero un mostro, il figlio adottivo, creato in laboratorio, di uno scienziato... " (pag. 211). E lui glielo conferma: "... il mio burlesco tentativo quotidiano di impersonare un essere umano... io sono l'orco le cui origini ricevono un trattamento così ingiusto e perfino insultate nel primo film di Karloff." (pag. 213), citando espressamente il romanzo della Shelley, che dice essere quell'epistolario, di Robert Wilson, romanzato: "... Mrs. Shelley, per quanto avesse apportato alla storia alcuni cambiamenti, che contribuirono a rendere più chiaro il suo svolgimento, non l'aveva ideata e neppure scritta." (pag. 225); "... ristampato (la 2ª edizione) tredici anni dopo con un'introduzione in cui reclamava la paternità dell'opera." (pag. 270). Questo Jumbo è un ottimo giocatore, ma anche un intellettuale che divora decine di libri in pochi giorni. Senza starvi a dire altro sulla trama, c'è senz'altro da notare che, basato com'è sul baseball, non tralascia, purtroppo, la descrizione di molte partite, cosa che, per la maggior parte di noi, credo, risulta completamente incomprensibile. La narrazione, poi, è molto lenta, attenta ai particolari, proprio come se Bishop avesse voluto ricalcare gli stilemi del romanzo mainstream, qui, di più, del romanzo sportivo, con tutto il solito contorno di storie d'amore, di agonismo, di odi e faide più o meno meschine. Vi si fa anche molta attenzione ai risvolti psicoanalitici; infatti, il protagonista/narratore ha una menomazione fisica che gli deriva da un episodio particolarmente traumatico dell'infanzia, causatogli dal padre, il tipico ubriacone violento. Forse avrebbe potuto, se un po' più breve, essere più digeribile, ma anche così non risulta una lettura eccessivamente pesante. Da ricordare, per finire, che con quest'opera Bishop ha conseguito il Premio Locus '95 per il miglior romanzo fantastico.


Altri contributi critici: "In libreria", di Franco Forte, "Urania" n. 1282, ed. Mondadori, '96, pag. 153






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