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La fantascienza italiana alla ricerca della propria identità


di Fabio Calabrese


Una cosa di cui mi capita talvolta di rammaricarmi, è di essere un lettore non meno discontinuo e disordinato di quanto lo sono come autore; così, solo in questi giorni mi è capitato di leggere alcune Note sulla Sf italiana di Renato Pestriniero, pubblicate sul n. 23 (4/82, nientemeno) di "Sf…ere". Nonostante sia dunque passato un discreto lasso di tempo, mi sembra opportuno riallacciarmi al discorso di Pestriniero perché parte delle riflessioni che formano il contenuto di queste note sono state riprese ed ampliate da una lettera, con cui lo scrittore veneziano intervenne anni prima (credo che fossimo nel '79) in una polemica sorta sulle pagine di "The Time Machine" fra me ed i redattori di questa pubblicazione, polemica che aveva per oggetto la questione più controversa di tutta la fantascienza italiana: la fantascienza italiana, appunto.

Ciò che Pestriniero faceva giustamente notare, era l'impossibilità della trasposizione pura e semplice nella produzione di casa nostra dei modelli fantascientifici d'oltreoceano:

"Esempio: come può riuscire un hard-core valido con il gap psico-tecnologico che ci ritroviamo? La semplice cronaca di un black-out in una megalopoli USA diventa automaticamente una serie di scalette per racconti considerati altrove decisamente di Fantascienza. Quel black-out nella megalopoli USA ad altissimo livello tecnologico, nel marasma di 20 milioni di abitanti, non può che impoverire la stessa situazione in una città unirazziale di 3 o 4 milioni di anime."

Che dire? Pestriniero ha ragione: se si vive a Trieste, a Venezia, a Roma o a Caltanissetta, è inutile fingere di essere newyorkesi. Se il problema fosse proprio in questi termini, si potrebbe benissimo finire qui, solo che la faccenda è un tantino più complessa, se non altro perché una volta definito che cosa la fantascienza italiana non è e non può essere, resta ancora del tutto aperto il problema di che cosa la fantascienza italiana sia o potrebbe essere.

Riandando a quella "famosa" polemica su "TTM", quello che sostenevo io - nel ciò tirandomi dietro il rimbrotto di molti e la certamente sagace e penetrante replica di Pestriniero (ma la colpa probabilmente era mia, non devo essermi spiegato con sufficiente chiarezza, ma tenterò di farlo ora) - era che la fantascienza italiana, sganciatasi, attraverso un lungo processo di maturazione, dalla sudditanza dagli stereotipi importati d'oltreoceano (che non mi sono mai sognato di riproporre), può essere una letteratura matura, adulta, vera a condizione di non cadere nell'errore contrario, cioè di essere una fantascienza "all'italiana", una fantascienza-spaghetti.

È necessaria una precisazione. La fantascienza è nata come letteratura popolare, una narrativa di congegni straordinari e di invenzioni mirabolanti ma senza alcuna pretesa letteraria, senza approfondimento psicologico dei personaggi, sulle pagine di "Modern Electrics" e di "Amazing Stories" di Hugo Gernsback, e si è più o meno vergognata di questo suo "vizio di origine" come di una nascita illegittima, cercando di "nobilitarsi" accostandosi al "mainstream". Questa è storia americana, naturalmente, ma la. storia della fantascienza italiana sembra quasi una dimostrazione della legge di Haeckel secondo cui l'ontogenesi individuale ricapitola la filogenesi della specie, ed ha ripercorso fasi molto simili (non voglio dire le stesse) con una sfasatura cronologica di una trentina di anni. Dai primi pedestri tentativi di imitazione anglosassone apparsi sporadicamente su "Scienza fantastica", alla fantascienza avventurosa pubblicata con pseudonimi anglosassoni su "Cosmo" Ponzoni, fino al periodo "magico" di "Oltre il Cielo", di "Interplanet", di "Futuro", di "Galassia" di Malaguti e Rambelli (quasi una mini era di Campbell italiana), fino al momento attuale, la cui "lettura" si presenta un tantino più complessa. Dopo un lungo periodo di "latenza", è stata, credo, la rivista "Robot" a pubblicare con grande intensità qualche racconto di autore italiano. Successivamente, è stata l'editrice Nord a dare spazio nelle sue collane ad autori italiani, limitandosi per lo più però ad un paio di nomi affermati: Luigi Menghini e Daniela Piegai; l'esperimento più interessante è rappresentato oggi probabilmente dalla Fanucci che in particolare nella collana "I libri di fantasy" alterna autori anglosassoni ed autori italiani. È la prima volta, credo, che una importante casa editrice specializzata crea una collana in cui l'autore d'oltreoceano e quello di casa nostra si alternano e si confrontano su di un piede di parità.

Tuttavia, il fatto che si sia preferita per un simile esperimento una collana di fantasy, potrebbe stare ad indicare una ancora non piena fiducia nell'accettazione da parte del pubblico, dell'autore italiano come scrittore di fantascienza hard. Potremmo dunque dire che ancora oggi nonostante le difficoltà editoriali in cui la fantascienza italiana si dibatte per trovare un suo spazio che le consenta di vivere e di situarsi con qualcosa di più che quelle sporadiche incursioni al di sopra del "ghetto" delle fanzine e di una produzione artigianale, si impone l'esigenza di ricercare uno "status", un'identità culturale per questa nostra fantascienza italiana, che comincia a presentare sempre più marcatamente i connotati di una maturità culturale e di una fisionomia propria.

Esattamente come per la fantascienza americana durante il periodo della new wave, una possibilità è stata vista da alcuni nell'accostamento al mainstream, in una dignificazione letteraria che rischia di tradursi in ultima analisi in niente altro che nel rifiuto dello specifico fantascientifico; perfino la parola "fantascienza" sarebbe divenuta obsoleta, e qualcuno ha proposto il termine - orribile - di "neofantastico" con un'operazione dalle stesse connotazioni semantiche e dagli stessi retroscena concettuali che avevano portato i "new wavers" d'oltreoceano a coniare "speculative" in opposizione a "science" - fiction.

Naturalmente, tutta la questione acquista un senso se riusciamo a rispondere, almeno in maniera non del tutto insoddisfacente, ad una domanda: che cos’è lo specifico fantascientifico?

Vorrei rifarmi un momento ad un articolo provocatorio ma acuto di Giuseppe Lippi, Fantascienza e letteratura popolare, apparso sul n. l di "Robot". In esso, Lippi demolisce l'immagine ormai "classica" di una fantasci4enza che è andata gradualmente evolvendosi dai primi popolareschi e letterariamente goffi tentativi sulle riviste pulp, acquistando poco per volta in padronanza stilistica, migliorando le descrizioni, l'analisi psicologica dei personaggi, elaborando trame meno infantili, fino ad avvicinarsi al mainstream. Secondo Lippi, non si potrebbe parlare di una evoluzione della fantascienza, e l'avvicinamento al mainstream sarebbe una specie di vezzo in cui talvolta autori ed appassionati indulgono. Beh, l'articolo di Lippi mi sembra abbia voluto agitare un po' le acque, attaccando una certa interpretazione della fantascienza che è divenuta una specie di luogo comune acriticamente accettato. Se noi andiamo a rileggerci Ralph 125C 41+ di Gernsback o qualche altro degli infami polpettoni degli anni '20, dobbiamo ammettere che una certa evoluzione c'p stata, ed è ovvio che gli autori di fantascienza hanno dovuto "accostarsi al mainstream" nel senso che hanno dovuto imparare a scrivere un po' meglio, inventando uno stile migliore, dei personaggi più credibili, delle trame più decenti. Ma per un altro verso, Lippi ha perfettamente ragione: è chiaro che questa ovvia evoluzione che risponde ai cambiamenti dei gusti del pubblico che sono avvenuti negli ultimi cinquanta anni nella fantascienza come altrove, non prelude ad alcuna fusione della fantascienza con il mainstream; e non tocca quelli che sono gli elementi essenziali del genere, a meno che non si smetta effettivamente di scrivere fantascienza, cosa che appunto alcuni new wavers hanno fatto. Quanto poi al vergognarsi, come una specie di peccato originale, del basso livello della science fiction delle origini, è semplicemente una cosa sciocca, come se i costruttori ed i piloti di jet si vergognassero del fatto che cinquanta anni fa gli aeroplani erano biplani a elica. Rispetto al mainstream, la fantascienza ha una doppia specificità.

Per prima cosa, e Lippi in questo ha perfettamente ragione, è una letteratura popolare. Ora, si badi bene, parlare di una "evoluzione" della letteratura popolare verso la letteratura "alta" è un'autentica ingenuità, perché non è vero che la letteratura popolare sia in qualche modo "inferiore" alla letteratura cosiddetta "alta". Semplicemente, risponde ad un tipo di richiesta diversa da parte di un pubblico diverso, ma non è affatto detto che questo richieda dall'autore minori capacità inventive od anche minori capacità stilistiche, minore bravura o minore impegno. La letteratura cosiddetta maggiore si rivolge a un pubblico "colto" (definizione sulla quale ci sarebbe comunque da discutere) che richiede una prosa cesellata, l'accuratezza delle più inusitate introspezioni psicologiche, il sottile gioco dei riferimenti letterari incrociati tanto caro ai vari Arbasino e Manganelli, il "realismo" frutto di un costante lavoro di scavo archeologico nei rimasugli della cultura pre-industriale, ma per altri versi si tratta di un pubblico straordinariamente di bocca buona. Un Moravia ad esempio sarà uno scrittore funzionale a questo tipo di richieste, ma non ha nemmeno lontanamente la capacità di elaborare le trame complesse, ricche di azione, di suspense, il solido intreccio che si richiede ad un qualsiasi scrittore di gialli, ma in una certa misura è un falso problema.

In realtà, la questione non è sicuro di oggi. Quando Balzac rimproverava Manzoni perché I promessi sposi è un libro noioso e senza trama (cosa verissima, come può confermare ciascuno di noi cui è toccata sorbirselo sui banchi del liceo) dimenticava forse che, mentre i suoi libri erano destinati a qualche migliaio di lettori in tutti gli strati della media e piccola borghesia, il Manzoni, in una situazione sociale alquanto diversa, aveva in vista come potenziale pubblico qualche centinaio di letterati suoi colleghi. Diciamo dunque che la letteratura popolare richiede un tipo di opere ed un tipo di autori diverso che non la letteratura "alta", e più che la pagina ornata da elzeviro, conta saper costruire storie solide, dotate di intreccio e azione, capaci di interessare un lettore che, se meno esigente dal punto di vista stilistico, pretende però una lettura che lo avvinca, e non è assolutamente disposto ad annoiarsi, sennò pianta lì il libro. La collocazione "popolare" della fantascienza mi sembra indubbia, e la cosa non sminuisce affatto il genere, ma c'è uno "specifico" fantascientifico rispetto agli altri generi "popolari" (il poliziesco, l'avventure, ma anche altri generi fantastici come l'horror e la fantasy). Non si tratta del tanto abusato e giustamente deprecato "sense of wonder", le inverosimili torri di cristallo sotto cieli purpurei e le ancor più inverosimili principesse marziane. La specificità della fantascienza consiste in ben altro, nella riflessione razionale sul fatto che viviamo in un'epoca in cui il progredire della tecnologia e delle conoscenze scientifiche altera costantemente le premesse tecnologiche, materiali, ambientali, sociali, culturali, psicologiche della nostra vita, nel tentativo razionale di previsione (non predizione) del futuro o meglio delle diverse alternative, dei diversi futuri possibili che questa evoluzione pone davanti a noi. Che si tratti dell'esplorazione di altri mondi, dell'incontro con intelligenze aliene, della scoperta di un modo per viaggiare nel tempo, di perfezionamenti della medicina che rendano l'umanità virtualmente immortale, o di possibilità negative come la spersonalizzazione degli uomini causata dall'abuso dei mass media, il crollo della civiltà umana in conseguenza degli effetti combinati di inquinamento, sovrappopolazione e crisi energetica, o dell'olocausto nucleare, si tratta di eventualità che solo il progredire della tecnologia rende in qualche misura possibili o anche soltanto immaginabili. Noi non possiamo sapere come sarà il futuro, ma sappiamo che sarà diverso dal presente non meno di quanto il nostro mondo è diverso da quello di 20 o 30 anni fa.

Di fronte a questa constatazione, molta gente ha paura e cerca di non pensarci o rassicurarsi in vari modi (in fondo è comprensibile: le società umane sono rimaste stabili per migliaia di anni) e continua ad applicare ricette e soluzioni ormai non più adeguate ad una realtà in continua trasformazione (e questo vale - purtroppo - anche e soprattutto per i politici e i dirigenti industriali), ma esistono anche persone che cercano di capire e di vivere all'altezza della propria epoca e trovano stimolante cercare di immaginare il futuro, o qualcuno dei molti futuri possibili. Io mi ritengo una di queste persone e, dato che state leggendo queste pagine, è molto probabile che anche voi lo siate.

Tutto sommato, la new wave si è risolta in un esperimento positivo per la fantascienza anglosassone; con l'andare del tempo, la pacottiglia, gli sperimentalismi gratuiti sono affondati nel dimenticatoio e sono rimasti le opere e gli autori validi, come un Norman Spinrad. Possiamo pensare - e francamente c'è da augurarselo, se la "legge di Haeckel" non subirà questa volta una clamorosa smentita – che anche la situazione italiana passi attraverso un analogo processo di decantazione, al termine del quale essa si riveli una letteratura evoluta e sicura dei propri mezzi espressivi. Vi è tuttavia chi potrebbe dubitarne, si dice "siamo troppo diversi", una fantascienza che sia letteratura e rimanga fantascienza non dovrebbe poter attecchire da noi.

Sinceramente, questo tipo di argomentazioni mi lascia perplesso, se non altro perché è molto sospetta la somiglianza tra gli argomenti di coloro che esaltano la "peculiarità" della fantascienza italiana, e quelli di chi si colloca semplicemente fra i suoi detrattori. Per gli uni e per gli altri, l'italiano sarebbe incapace di scrivere in maniera "scientifica" come gli autori di oltreoceano, solo che per gli uni la cosa sarebbe inspiegabilmente positiva, mentre per i secondi no.

Ora, poiché la fantascienza italiana esiste da trent'anni, e della sua esistenza si sono accorti tutti tranne Fruttero e Lucentini, è abbastanza facile sorridere degli sproloqui di chi si ostini ancora a negare l'esistenza della science fiction di casa nostra. Quello che è più difficile da dissipare è il pregiudizio che, dato che "le nostre radici culturali sono altre", la fantascienza italiana dovrebbe limitarsi all'intimismo, all'introspezione, ad esplorare i lati meno razionali del fantastico (magari con speculazioni su interventi di Dio, santi, angeli e madonne), o se si fa ricorso a qualche idea genuinamente fantascientifica, avere l'accortezza di stemperare il tutto in un contesto da "natio borgo selvaggio" di pavesiana e leopardiana memoria, oppure andare a ripescarsi le formulette pseudo innovative delle avanguardie letterarie di quaranta anni fa, e magari condire il tutto con un po' di fantasesso e di fantapolitica.

C'è chi non vede per la fantascienza italiana altri orizzonti oltre a questi, e gli esempi si potrebbero fare a dozzine.

Vogliamo affrontarlo una volta per tutte questo discorso delle "radici culturali", senza preconcetti e senza tabù? Un qualsiasi essere umano, nella sua concretezza fisica e storica, è il prodotto, oltre che di una certa costellazione genetica, di tutti gli stimoli dell'ambiente e di tutte le esperienze che hanno influito su di lui. A parte, che noi, oggi viviamo in un mondo molto diverso da quello di Dante, di Leopardi o anche di Pavese, mi riesce veramente difficile credere che una solitamente maldigerita cultura scolastica (e la mia esperienza sia in veste di studente che - sia pure quantitativamente più modesta - di insegnante, mi dice che la scuola oggi sembra organizzata in maniera da rendere scientemente insipido e indigesto tutto quanto pretende di insegnare) possa avere un peso incomparabilmente superiore alla lettura appassionata (e veramente diuturna, a quello che so, nel caso di certi fan) dei vari Bradbury, Asimov, Simak, Heinlein, Dick, Disch, Anderson, Vance e via dicendo, oppure vogliamo conservare il vezzo settecentesco pre-Madame de Staël di considerare nullo tutto quanto non è stato letto in lingua originale? Quello che dicevo sulle pagine di "The Time Machine" e che non mi stanco di ripetere adesso con identica convinzione, è questo: non si può produrre qualcosa di letterariamente pregevole se non è veramente sentito, non proponetevi modelli, non imitate Heinlein, ma nemmeno Leopardi, non spacciatevi per scienziati di Houston, ma non mettetevi neppure parrucche settecentesche, cercate di essere voi stessi, lasciate agire tutte le componenti delle vostra esperienza culturale, e se da ciò uscirà una felice sintesi della cultura mainstream italiana e della letteratura di fantascienza così come è stata elaborata oltreoceano, o una malaccorta e contraddittoria amalgame di entrambe, questo dipende da voi, dalla vostra personalità e dalle vostre capacità. Per quanto mi riguarda, scrivendo, ho sempre cercato di esprimere qualcosa che mi portavo dentro, qualcosa che amo, o, più spesso, che mi tormenta.

Penso che la maggior parte fra quelli di voi che sono scrittori, lo siano diventati inizialmente per spirito di emulazione, leggendo le avventure descritte dagli autori d'oltreoceano, o magari restando affascinati dalle astronavi di Kurt Caesar dipinte sulle copertine dei primi fascicoli di Urania, anche se in seguito avranno sviluppato uno stile e delle tematiche personali. Per me, le cose sono andate in maniera quasi opposta, sono stato prima uno scrittore che un lettore di fantascienza, anche se ho ovviamente provveduto a farmi, nei limiti del possibile, una cultura sugli argomenti che mi interessavano. Voglio dire, ho avuto inclinazione per la narrativa fino dalla prima adolescenza, e per me è stato naturale pormi e comprendere fin nei miei primi, goffi tentativi letterari, una serie di domande; se siamo soli nell'universo, come potrebbero essere creature di altri mondi, quale sarà il nostro futuro, dove ci stiamo dirigendo sotto la spinta accelerata della tecnologia. Domande che, credo, continuerei a pormi anche se non esistesse un genere di narrativa codificato come "science fiction", e secondo me, è proprio questo che costituisce il vero "sense of wonder" della fantascienza, e sinceramente non arriva a capire come mai molti sedicenti scrittori riescano ad accontentarsi del "qua e ora" con tutto l'universo e tutto il tempo a disposizione della fantasia, né come molte persone presunte colte riescano a non provare un briciolo di curiosità circa il futuro nemmeno molto lontano della nostra società in rapida trasformazione.

"Vabbé!" si dirà, "ma la cultura italiana è di tipo umanistico e non scientifico. Ma che cos'è questo benedetto umanesimo della nostra cultura? Se per umanesimo si intende la meditazione sull'uomo e la società, allora esso non è per nulla inconciliabile con la fantascienza, che altro non è se non una riflessione critica totale sull'uomo (come individuo e come specie), la società e il loro destino. Se per umanesimo si intende l'ignoranza o la svalutazione della conoscenza scientifica e tecnologica, è qualcosa che potrà forse caratterizzarci, ma di cui non c'è proprio nulla di che andare fieri.

Ma ho il sospetto che tutto questo discorso (con tutti i complessi di inferiorità che ne derivano) tragga origine da un sostanziale equivoco sul significato ed il ruolo del contesto scientifico nella fantascienza.

Facciamo un piccolo esame degli autori più "scientifici" della Sf anglosassone, e vediamo se davvero sono le componenti scientifiche, ammesso che nessuno in Italia sia in grado di eguagliarle, a far e di essi dei maestri. Mi vengono subito in mente quattro nomi: gli americani Asimov ed Heinlein e gli inglesi Clarke ed Hoyle.

Asimov, oltre che autore di Sf, è uno scienziato ed uno stimato divulgatore scientifico, vediamo come si serve della scienza nelle sue opere. Per prima cosa, Asimov è un chimico e un biochimico, e di questo non troviamo proprio traccia nella sua narrativa che sembra dedicata prevalentemente ad un campo scientifico molto distante dalla sua specializzazione: la cibernetica e la robotica. Secondariamente, i robot di Asimov hanno "cervelli positronici" cioè cervelli in cui gli elettroni sono sostituiti da positroni (particelle nucleari di massa analoga agli elettroni, ma dotate di carica elettrica positiva) e questa è un'idea che non solo non ha niente di scientifico, ma è una vera sciocchezza. Infatti, i positroni sono antimateria e non potrebbero fare altro che annichilirsi insieme ad una uguale massa di materia, convertendosi in energia pura con gli effetti catastrofici che possiamo immaginare. L'altro grande ciclo narrativo di Asimov, la Trilogia galattica, è legato ad un ordine di idee ancora più lontano dalla sua specializzazione scientifica: alla sociologia e alla storia, tant'è che, come è notorio, la Trilogia nacque dalla lettura di Declino e caduta dell'impero romano di Gibbons. Robert Heinlein è un ingegnere, ma leggeremmo invano le sue storie alla ricerca di mirabolanti congegni. Come per Asimov nella Trilogia, anche per Heinlein l'interesse si concentra sul fantastico sociologico, si vedano romanzi come Cittadino della Galassia, Sesta colonna, Oltre l'orizzonte, Storia di Farnham e, ovviamente, Straniero in terra straniera.

Arthur C. Clarke è forse l'autore che meglio rappresenta la fantascienza "hard" per un uso massiccio della scienza nelle sue storie; eppure, consideriamo un attimo il suo romanzo più famoso 2001 Odissea nello spazio e il suo seguito, 2010 Odissea due.

Il primo è stato scritto nel 1964, l'altro quasi venti anni dopo, e in questi ultimi venti anni la nostra immagine dello spazio e del sistema solare ha subito i mutamenti più profondi forse dall'invenzione del telescopio e dalla ricerca galileiana.

Non soltanto, infatti, sono stati scoperti oggetti che prima non era stato possibile ipotizzare, come quasar, pulsar, radiogalassie, buchi neri (ma questi ultimi non siamo ancora ben sicuri che esistano) ma, soprattutto, è stata completamente rivoluzionata la nostra idea dei pianeti esterni del sistema solare, proprio quelli che fanno da sfondo ai due romanzi, grazie alle sonde Pioneer, Voyager ed altre ancora. Ciò nonostante, uno "stacco " fra i due romanzi non si avverte, e questo è proprio il segno che la componente scientifica gioca tutt'al più un ruolo di sfondo. Fred Hoyle è un astronomo ed un cosmologo di notevole valore; tra i suoi romanzi ce n'è, a dire il vero, uno la cui fonte di ispirazione possiamo individuare proprio nell'astronomia, La nuvola nera, che parte dal presupposto che certi ammassi di nubi di polvere interstellare noti come "Globuli di Bok" possano essere una specie di esseri viventi. Non occorre dire che la validità scientifica di una simile ipotesi è nulla. Il più famoso romanzo di Hoyle è comunque A come Andromeda, che parla di una creatura umana-aliena fabbricata in laboratorio a partire da un codice genetico dettato da un computer sulla base di un "messaggio" ricevuto da un'altra galassia; siamo nel campo della fantabiologia e/o della fantabiochimica, che dovrebbe essere piuttosto, stando ai titoli accademici, la specializzazione di Asimov.

Naturalmente, questi autori sono i quattro più conclamati rappresentanti della fantascienza "hard", sono tre scienziati e un ingegnere; accanto ad essi, esiste una miriade di autori di Sf, autori di per opere tutt'altro che disprezzabili, con cui una precisa competenza scientifica c'entra come i classici cavoli a merenda.

E allora, dovremmo dedurne che tra la science fiction e la conoscenza scientifica non esiste alcun rapporto? Questo non è assolutamente vero, ma non si sarebbe troppo lontani dalla verità asserendo che non è necessaria alcuna specifica competenza in qualche settore della ricerca scientifica per essere dei buoni scrittori di Sf.

Che cos'è allora l'elemento scientifico che è indubbiamente presente nella fantascienza? Secondo me, esso non è in definitiva altro che il dare una forma letteraria a quello che è l'atteggiamento di base della ricerca scientifica, cioè l’atteggiamento razionale nei confronti del mondo che ci circonda, implicante la validità dall'esperienza intersoggettivamente verificabile (e solo di quella, non, ad esempio dell'esperienza mistica) e della previsione basata sui criteri dell'estrapolazione scientifica. Faccio notare che questa concezione della fantascienza comporta una quantità di realismo senza dubbio più alta del "realismo" del mainstream. Ad esempio, il "buon senso", i nostri condizionamenti mentali, la paura dei cambiamenti ci dicono che "non è possibile che i parametri della nostra vita, il nostro mondo, la nostra scala di valori, vengano sconvolti nel giro di un quarto d'ora; il realismo fantascientifico e la logica, uniti alle esperienze di Hiroscima e alle informazioni sul potenziale di morte contenuto negli arsenali delle superpotenze, ci dicono che è perfettamente possibile, e che è meglio cominciare a preoccuparsene per tempo, prima di vivere gli orrori del dopobomba. Si tratta, in definitiva, di una scientificità, o meglio, di un atteggiamento scientifico che non occorre essere scienziati dei laboratori del M. I. T. o progettisti di astronavi per possedere, che può essere fatto proprio da qualsiasi uomo ragionevolmente colto e dotato di una cultura in senso moderno della civiltà occidentale, e trova da noi un limite solo in due grossi pregiudizi di segno speculare e simmetrico: il complesso di inferiorità nei confronti degli americani e la credenza che la scienza sia poco importante per capire il mondo che ci circonda, noi stessi e il nostro futuro. È comunque chiaro che, nel momento in cui ci si mette a scrivere fantascienza, è importante, se non possedere una cultura scientifica specialistica, avere quelle nozioni di dettaglio che sono comuni fra le persone mediamente informate sulle cognizioni elementari della fisica ed hanno qualche idea di come va il mondo.

Ad esempio, nel film Godzilla, il noto mostro nipponico viene alla fine ucciso mediante un congegno che toglie l'ossigeno dall'acqua del mare, e questa è un'idea semplicemente idiota; se fosse possibile togliere l'ossigeno dall'acqua del mare, ridotta ad ossigeno, evaporerebbe, provocando l'estinzione di tutte le creature marine, e di lì a poco, della restante vita del nostro pianeta, umanità compresa. Ancora più abominevole il vaneggiamento di un presunto scienziato di un altro film giapponese, Inferno nella stratosfera (di cui ho visto solo il provino, né mi sarei sognato di vedere altro) che spiega come gli extraterrestri rendano privi di peso gli oggetti mediante un brusco abbassamento dalla temperatura; resterebbe da spiegare allora perché la NASA perda tempo e denaro per costruire quei costosi missili Saturno V e quei costosi Space Shuttle quando sarebbe possibile andarsene nello spazio a bordo di un frigorifero. (Bisogna riconoscere però cha in Giappone questi film vengono distribuiti in uno speciale circuito per ragazzi, mentre da noi vanno nel circuito cinematografico normale, dove contribuiscono, come potete immaginare, a ridicolizzare l'immagine della fantascienza presso lo spettatore medio). Marchianerie di questo genere, che danno l'impressione penosa di infantilismo, vanno assolutamente evitate, ma questo significa semplicemente avere un po' di rispetto per il lettore (o per lo spettatore) e per il vostro lavoro; ma se voleste, ad esempio, scrivere un romanzo storico, non vi si richiederebbe di essere uno storico specialista, ma dovreste documentarvi almeno un po', non potreste descrivere Giulio Cesare mentre consulta l'orologio per dare il segnale d'assalto ai suoi legionari.

Il fascino della fantascienza consiste, secondo me, proprio nel fatto che è un tipo di letteratura che unisce la libertà immaginativa del fantastico all'enorme vantaggio di essere una letteratura plausibile, e questo deriva dal fatto che essa è basata su di un approccio razionale al mondo che ci circonda e alle sue possibilità di evoluzione (o di involuzione) future.






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