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Sulle tracce di una fantascienza italiana


di Massimo Del Pizzo


Nel presentare I vetri (Longanesi, 1987) di Renato Ghiotto, Luigi Meneghello fa i nomi di Kafka, Huxley, Orwell e Borges quali possibili punti di riferimento utili a caratterizzare immediatamente le atmosfere e le tematiche di questo romanzo.

Il Grattacielo dove il protagonista lavora è una struttura incomprensibile sia sul piano architettonico, che su quello funzionale.

Innanzitutto: esiste? Poi: come è fatto realmente? E soprattutto: a cosa serve? Che senso e che scopo ha il lavoro di coloro che trascorrono tutta la vita tra le pareti di vetro, a contatto permanente col Grande Cervello, il super computer al quale trasmettono incessantemente dati da elaborare?

Non ci sono risposte. C'è soltanto il sospetto di una terribile inutilità, di un vuoto insondabile, di un ordine solo apparente che cela un profondo disordine, un paradossale nulla.

«Ci attacchiamo al nostro schermo verde», continuai con ira, «illudendoci di fare qualche cosa, se no saremmo finiti: viviamo in mezzo a vetri trasparenti, persuasi che siano una metafora della verità, e sono invece il labirinto della nostra menzogna. Ci crediamo circondati da strutture solide e reali, ma se guardi lontano qualche decina di metri, l'aria si annebbia, i contorni oscillano, continui a vedere tutto ma non vedi niente, solo una caligine luminosa», (p. 47).

I vetri separano il mondo esterno dal Grattacielo, al cui interno l'esistenza è asettica, impersonale, controllata e spiata fino all'annullamento della personalità. Solo fuori da esso si può sperare nel recupero di qualche emozione, di qualche sentimento; ma, fuori, i personaggi sono in un'altra trappola, si sentono perduti, disorientati, non sanno dove andare, né cosa fare della loro liberta; e preferiscono, prima, o poi, rientrare nella prigione.

È dunque un romanzo sulla alienazione totale e brutalizzante, garantita da questo fratello maggiore tuttofare che è la mente artificiale; punto culminante del racconto, è l'operazione di simbiosi che si stabilisce tra questo e il protagonista, il quale penetra l'essenza intima della macchina, la possiede e ne è posseduto, se ne sente assorbito e partecipa con essa a un effimero dominio della conoscenza.

Dopo, sarà il vuoto, il nulla, l'ambiguità permanente che relega tutto in una sfera dominata all'incubo.

«(…) non sono io che lavoro, è il Grande Cervello che lavora con me. Sono pieno, trabocco di grazia elettronica; con un senso di vertigine concepisco la Sala e l'intero Grattacielo (amo anch’io figurarmelo altissimo) il calcolatore con la sua memoria centrale, che nessuno sa dove si trovi, i suoi terminali dalla luce verdina, e noi che li vegliamo per otto ore al giorno, come un solo organismo, come un universo intento a distillate la propria crescita, abbracciandosi, foggiandosi a modo di palazzo e di concavità». (p. 43).

Renato Ghiotto, giornalista, sceneggiatore, critico cinematografico, morto l'anno scorso, lascia questo suo unico testo fantascientifico accanto ad altri romanzi. In questo modo, egli entra a far parte di quel nucleo importante di scrittori italiani che non hanno coltivato la fantascienza in maniera privilegiata rispetto ad altre forme narrative, e che pure hanno dato, in questo genere, pagine significative.

Nel presentare una antologia di racconti fantastici, qualche anno fa, Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo osservavano come quasi tutti gli scrittori italiani del Novecento abbiano scritto almeno un racconto fantastico. Ma occorre specificare che per alcuni si tratta di un esercizio di stile, di un divertissement, di una occasione; per altri invece il ricorso al fantastico, specie di carattere fantascientifico, è una prova convinta di indagine sull'uomo, dall'interno di una forma narrativa capace di dare uno spessore critico e poetico nuovo a problematiche generate dalla scienza moderna.

I vetri si aggiunge a un insieme di opere la cui segnalazione qui vuole essere un invito a ripercorrere quella che è la mappa singolare di una parte del territorio italiano della fantascienza, che resta ancora per tanti aspetti inesplorato, o al quale manca comunque una attenzione critica specialistica.

Dagli anni Cinquanta fino a oggi, sembra opportuno indicare, oltre a Italo Calvino, al Primo Levi di Storie naturali (1966) o meglio di Vizio di forma (1971) e al Buzzati di Il grande ritratto (1961), opere che hanno conosciuto una giusta attenzione critica, ma che ricondotte specificamente nell'ambito del genere cui appartengono potrebbero aprire spazi nuovi alla comprensione.

Pensiamo, per esempio, a Cancroregina (1950) di Tommaso Landolfi, a La morte di Megalopoli (1974) di Roberto Vacca, a Dissipatio H. G. (1977) di Guido Morselli, a Il superstite (1978) di Carlo Cassola, e a Il pianeta irritabile (1978) di Paolo Volponi.

Per ciò che e possibile dire ora, c’è da osservare che Vacca, Cassola, Volponi rappresentano un impegno anche di tipo politico, di chi utilizza la fantascienza per denunciare particolari condizioni sociali e storiche dell'uomo; Landolfi e Morselli rappresentano piuttosto il tentativo di indagare l'uomo dal suo interno e nella solitudine sua peculiare, il primo, in Cancroregina, nell’orbita folle di una macchina lanciata per sempre, senza ritorno, nello spazio; il secondo, in Dissipatio H. G., nella desolazione apocalittica di un mondo dove tutti sono scomparsi all'improvviso e dove resta un solo superstite.

Per simili scrittori, dunque, il racconto di fantascienza non è che uno «scheletro nell’armadio», secondo l’espressione usata da Ghidetti e Lattarulo: ci sembra, al contrario, che il ricorso alla fantascienza, in questi particolari e significativi scrittori italiano non specialisti, indichi una ricerca.

I progetti che sottendono tale sforzo creativo, e i risultati, generali e particolari, di una tale ricerca chiedono ancora il tempo di una analisi.

E oggi, ai testi ricordati si potrà aggiungere I vetri di Ghiotto, sottolineando che il panorama italiano della fantascienza si arricchisce di pagine che portano una critica sofferta e profonda al nostro sistema di vita, e al modo in cui utilizziamo conoscenze e capacità.






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