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La farfalla - prefazione


di Giuseppe Lippi


In un momento in cui la fantascienza letteraria sembra "in crisi" per motivi vari su cui ognuno potrà dire la sua, ma che si risolvono in un netto calo delle vendite per tutti (lo ammettono Fanucci e Nord non meno di Mondadori), presentare una pubblicazione come questa dà la soddisfazione delle cose fatte per il piacere di farle, che in crisi non vanno mai. Le fanzine, anima della fantascienza vissuta, possono avere vita breve come una farfalla (" ... e tempo ha che le basta"), ma non può capitare loro niente di peggio che morire.

Durante la vita, in compenso, sono sempre gagliarde e piene di idee, non si preoccupano dei bilanci e rendono un utile servizio sia agli aspiranti scrittori che a chi s'interessa ai retroscena del campo. Così è "Avatar", l'ottima pubblicazione che avete fra le mani e che, finora, è sempre cresciuta, raggiungendo con questo speciale un livello di autentica professionalità. Desidero perciò sottolineare lo sforzo fatto da Lukha Kremonj Baroncinj, Beba Pilia, Andrea Jarok e gli altri collaboratori-autori, che decidendo di pubblicare questa sorta di "Who's Who" della fantascienza italiana hanno seguito criteri puntuali, rigorosi e piacevolmente informativi. L'opera, nel suo complesso, si divide in due parti: da un lato lunghe interviste inedite realizzate con importanti scrittori e protagonisti della vita fantascientifica nazionale: Lino Aldani e Vittorio Curtoni, cui seguiranno sul secondo volume Valerio Evangelisti e Ugo Malaguti; dall'altro le succinte biografie di tutti gli altri, sì, avete letto bene, gli uomini e le donne che, con il loro donchisciottismo, hanno reso possibile una fantascienza nazionale. Ci sono perciò autori, editor, agenti, traduttori, illustratori: un serraglio in piena regola che sembra uscito dall'isola del dottor Moreau, il noto creatore di manimal (=animali umani). Che volete farci? Non possiamo nemmeno difenderci con la scusa che lo facciamo "per campà".

Come i nostri editori sanno benissimo, lo faremmo lo stesso; dev'essere una tara ereditaria.

La cosa buffa - forse solo ai miei occhi - e che mi trovi a dover presentare un'iniziativa del genere io che un tempo non ero famoso come paladino della "fs" (1), ma che lo sono diventato, se poi lo sono diventato, negli ultimi dieci anni, da quando esiste il Premio "Urania".

Ed è ancora più buffo se rifletto che, non c'è dubbio, faccio anch'io parte della fantascienza italiana, come ne fanno parte il mio mentore Vic Curtoni, Lukha, Beba, Andrea, Tatana e tutti gli altri che si adoperano nel campo.

Vediamo cosa c'è di tanto strano, ci servirà a chiarire le idee.

Personalmente, ho sempre pensato alla fantascienza come a un'espressione della letteratura inglese e americana; questo deriva da un'abitudine a collocare le cose secondo la loro appartenenza culturale, ma mi affretto ad aggiungere che mi riferivo alla fantascienza da me letta: siccome non leggo sf giapponese o russa - di cui conoscevo l'esistenza a latere, ma tutto qui - le mie riflessioni si sono accentrate sui Paesi dove sapevo che il germe era nato e fiorito. Il resto doveva essere imitazione, importazione, o come altro volete chiamare i fenomeni letterari derivati. Negli anni Cinquanta e Sessanta questo ragionamento poteva ancora tenere, se pur tacciato di anglocentrismo; a partire dagli anni Settanta, invece, la fantascienza è diventata davvero un'espressione internazionale, il che, se non vuol dire necessariamente una letteratura per tutte le lingue, vuol dire senz'altro uno stampo, un genere artistico esportabile e in effetti esportato. Non è la prima volta che accade nella storia: i romanzi cavallereschi non li scrivevano solo i francesi e l'opera lirica, pur essendo indubbiamente nata in Italia, è diventata poi un fatto europeo.

Da questo punto di vista, la mia concezione si è modificata; ma devo confessare che, pur avendo preso atto del fenomeno, il mio entusiasmo per le fantascienze locali non è cresciuto in proporzione.

I giapponesi, che hanno fatto cose egregie al cinema e nei cartoni, hanno una letteratura fantascientifica fin dall'anteguerra; i russi ci hanno dato qualche capolavoro di sf introspettiva e umanistica; gli europei hanno prodotto, prima di Valerio Evangelisti, tre o quattro grandi scrittori degni di questo nome, non di più (Stanislaw Lem, Nathalie-Charles Henneberg, Jacques Spitz, René Barjavel e forse Serge Brussolo); e non nego che ci sia un mercato promettente nell'America Latina o in Cina. Ma se uno qualsiasi di noi guarda la propria collezione, ciò che trova è un 95% di autori anglos di vario interesse, e solo un 5% di "tutti gli altri", noi stessi compresi. Sarà solo per via dell'imperialismo americano? Non credo.

La fantascienza italiana è un rigagnolo che corre dalla bassa padana verso sud, rischiando continuamente di finire in qualche secca e di non vedere mai il Mare Nostrum in cui finalmente sfocerà. È un genere in gran parte derivativo ("naturalmente" derivativo, com'è spesso in questi casi) e quando cerca una via originale, come nel caso dei quattro grandi intervistati da "Avatar", non riesce a imporsi nel mercato librario normale (con l'eccezione che ben sappiamo di Evangelisti, il cui ciclo di Eymerich non è, volendo, fantascienza in senso ortodosso). Nella stessa situazione credo si trovino la "cfe" (2) e la "dsf" (3), mentre solo un poco più a galla collocherei la "sff" o science-fiction francese, la cui abbondante produzione sembra garantire, almeno entro i confini nazionali, una certa possibilità di sopravvivenza.

Per contro, i nostri colleghi svedesi ci hanno raccontato che in quel paese fantascienza non se ne pubblica più, anche se i pochi fortunati che riescono a vendere un romanzo se lo trovano pubblicato in collane non di genere (il che, di questi tempi, è un vantaggio).

Ma allora, direte voi, le conclusioni che vuoi trarre sono che la fantascienza europea, e italiana in particolare, sia poco più che un fenomeno di costume? La risposta è no, non ha i numeri per esserlo.

Se di un romanzo rilegato vendo cinquemila copie sono contento, ma se ne vendo ottomila, in edicola, di un romanzo di "fs" che esce direttamente in tascabile, sono molto lontano dal fenomeno culturale del mass-market, cioè l'editoria per il grande pubblico. La fantascienza, in Europa, credo si avvii a diventare una specie protetta come i film prodotti con i fondi della Comunità e il concorso del ministero dello Spettacolo. Un genere artistico con molti autori, meno editori che in passato e, fatalmente, meno pubblico. Questa è la situazione reale, almeno come ci è dato vederla oggi. Penso sia indispensabile prenderne atto, per non cadere in grossolani errori di prospettiva e valutazione (è noto che un difetto di noi fantascientisti è di avere una certa supponenza e la testa piena di idee romantiche sulla nostra importanza).

Detto tutto questo, e fattoci qualche graffio all'ego, vediamo di blandirlo un po' con più elevate considerazioni - è anche lui, dopotutto, una zona erogena. La fantascienza italiana è comunque un'espressione della nostra lingua, e almeno per questo dovremmo benedirla, augurandoci che chi ne scrive mostri sempre più rispetto per le sue esigenze. Una lingua non esprime soltanto le emozioni e i ricordi personali dell'individuo, ma porta dentro di sé una cultura: sono tutti questi fattori a entrare in ballo quando la si usa per scrivere. Noi viviamo in un momento "fantascientifico'", in cui la lingua scritta è sempre più influenzata da quella frettolosa e poco immaginativa dei media, dei persuasori e altri mostri; una controtendenza, anche se rabbrividisco a dirlo, potrebbe essere che i più bravi autori di fantascienza vengano incamerati a pieno titolo nella letteratura italiana, facendo valere il proprio contributo all'evoluzione della civiltà. Non basterebbe, naturalmente: genere protetto va bene, ma è vitale per la fantascienza conservare la propria avatarica spontaneità, il gusto dell'improvvisazione e anche della beffa. Perché bisogna ricordare che questo è un genere nato popolare, cioè per stare in tasca a lettori di tutti i tipi, anche quelli che sentono puzza - e vai a dargli torto - tutte le volte che parli di menate letterarie. In ogni caso, sta a noi fare in modo che la letteratura del futuro sia meno "menosa" e più avveniristica, come le si addice. Inutile brontolare contro la narrativa che abbiamo se non si fa niente per cambiarla.

Perché questa evoluzione possa effettivamente verificarsi, l'ho detto già altre volte, occorrono due condizioni fondamentali: l'impegno di curatori ed editori da una parte, dal momento che senza mercato gli scrittori da soli possono fare ben poco, e degli autori dall'altra. In che modo dovrebbero impegnarsi gli autori di "fs"? Nel curare la lingua e nel puntare a risultati il più possibile alti dal punto di vista dello stile e dell'immaginazione. Nel non accontentarsi di una trama o di un modo di esprimersi derivato da cento vecchie traduzioni, ma nello sfondare la barriera e andare oltre, seguendo la propria fantasia fino ai limiti dell'universo. Le storie che ci interessano sono quelle che si svolgono ai confini della realtà: è questo ad aver fatto grande la fantascienza, non gli eventuali "messaggi" e predicozzi. Se scrivo un'avventura spaziale, una storia di robot, un thriller cyberpunk, bisogna che mi porti "dove nessuno è mai stato prima", nel miglior spirito di Star Trek. E siccome non è facile (tutte le space-opera e tutte le cyberpunkate sono già state scritte), bisogna che sia la fantasia dell'autrice o dell'autore a rimescolare gli ingredienti in modo tale che il racconto abbia un senso e risvegli la nostra curiosità oggi.

Anche se la mia esperienza professionale mi induce a una certa cautela per quanto riguarda il facile ottimismo, spero che la fiamma non si estingua mai e prometto a tutti voi che, per quanto me lo consenta il mio ruolo, farò di tutto per alimentarla. È un piacere sfogliare queste pagine e rendere omaggio ai numerosi scrittori o artisti che, nonostante le mille avversità del settore, per decenni hanno continuato a creare senza altro motivo che la propria soddisfazione. Forse la fantascienza, con tutte le sue magagne, è uno dei pochi generi in cui si possa essere ancora spontanei, e benché, all'alba del 2001, essa non ci sembri più una giovincella, rimane pur sempre la nostra farfalla, che vive "attimi e non anni, e tempo ha che le basta" (proverbio zen).


(1) Non Ferrovie dello Stato, ma pur sempre l'Ente Italiano per la fantascienza, capovolgimento dell'inglese "sf".

(2) O ciencia ficciòn española, ma la sigla l'ho coniata qui io.

(3) Deutsch science fiction, naturalmente.






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