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Quando il duemila era lontano - la protofantascienza italiana


di Marco Romanelli


Secondo la celebre tesi elaborata negli anni Trenta da Antonio Gramsci, e giunta senza sostanziali revisioni critiche fino ai nostri giorni, la letteratura italiana mancherebbe di una narrativa di carattere nazionale-popolare comparabile a quella prodotta dalle altre grandi culture europee.

L'analisi gramsciana di questa aporia è troppo nota perché se ne debba riparlare qui. Sarà semmai più interessante osservare come, a distanza di settanta anni, la critica che Gramsci rivolgeva agli intellettuali italiani, quella cioè di essere incapaci di parlare al popolo in una lingua comprensibile e sulla base di valori condivisi, sia ancora attualissima. Basterebbe a dimostrarlo l'atteggiamento di sufficienza e quasi di fastidio con cui l'intellighenzia italiana, con stupefacente provincialismo, si ostina a considerare la fantascienza: al punto che, per esempio, su una rivista per altri versi acuta e spregiudicata come "Linea d'ombra" è possibile leggere il giudizio di un eminente scrittore, secondo cui la fantascienza sarebbe "solo una fuga dal presente, una evasione nel futuro che rappresenta il timore dell'uomo antico nei confronti della scienza. Si scrive di un nemico per esorcizzarlo. Sarebbe tanto più bello ed utile approfondire il presente" ("Linea d'ombra", 84, 1993).

Ma, sotto questo profilo, neppure Gramsci sembra esente da colpe: si dà infatti il caso che una abbondantissima, e oggi del tutto dimenticata, letteratura di fantascienza sia fiorita in Italia proprio tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, senza però ricevere nei "Quaderni del carcere" l'attenzione che si meritava. E non perché Gramsci non ne fosse al corrente: la sua insaziabile curiosità di lettore onnivoro lo portò a contatto con i classici di Verne e di Wells, da cui passò ai più modesti epigoni italiani come Emilio Salgari, Ugo Mioni, Luigi Motta, tutti citati nei Quaderni. Il fatto è che neppure Gramsci riuscì a cogliere l'importanza di questa epopea del futuro, e il porsi della protofantascienza italiana come la sola espressione della nostra letteratura che in qualche modo connotasse concretamente in senso nazionale e popolare. Contrariamente infatti ai romanzacci dei vari Guerrazzi, Mastriani, Invernizio, abitualmente citati a questo proposito, la "narrativa d'avvenire" si rivolgeva a un pubblico giovanile di massa, e quindi più autenticamente popolare dei bovaristici lettori della Cieca di Sorrento o del Bacio d'una morta. Ma tant'è: anche Gramsci cadde evidentemente nell'equivoco che attribuisce alla narrazione storica, psicologica o sociale uno statuto di legittimità letteraria che la fantascienza non possiede. Eppure, una ricerca anche sommaria rivela facilmente come questo tipo di narrativa godesse di una diffusione e di un radicamento straordinari, considerati i tempi, sia per quantità che per omogeneità: la protofantascienza è infatti presente tanto in ambienti di cultura popolare laica (dove la casa editrice di riferimento era la Barion di Sesto San Giovanni) quanto in ambienti cattolici (dove invece era leader la San Paolo di Alba). Non c'era catalogo di biblioteca di Circolo Operaio o Casa del Popolo, come di biblioteca parrocchiale, che non presentasse un'ampia scelta di narrativa fantascientifica italiana.

È un dato che non deve sorprendere, perché la fantascienza si prestava in effetti a essere bene accolta sia in ambienti di sinistra (per i suoi contenuti "progressivi" e "educativi") sia in un contesto moderato e clericale (per l'assenza di esplicite tematiche sessuali e di pericolose complicazioni psicologiche). Manca tutt'oggi una ricerca sull'impatto che questa letteratura, così capillarmente diffusa, ha indubbiamente avuto sulla formazione culturale e sull'immaginario popolare (soprattutto fra le giovani generazioni) nei primi decenni del nostro secolo. Qui vorremmo solo avviare una schedatura dei protagonisti e dei testi più significativi, come primo passo verso un recupero critico e magari editoriale che la protofantascienza italiana senz'altro meriterebbe.

Da una rapida ricognizione bibliografica emergono subito, per il loro numero, i libri del veronese Luigi Motta, attivo dall'inizio del secolo fino agli anni Quaranta e nota anche a Gramsci, che lo liquida nei _Quademi_ con poche sarcastiche righe: "Non contento di avere instupidito tanti innocenti bambini, il Motta vorrebbe continuare la sua opera anche con gli adulti". È fondato il giudizio gramsciano? Vediamo.

Il primo lavoro fantascientifico di Luigi Motta è L'Annientatore. uscito nel 1907 nella "Biblioteca Fantastica dei Giovani Italiani", di cui lo stesso Motta era direttore. L'incipit dell'Annientatore, sia per la grammatica che per il tono saccente e prolisso, sembrerebbe proprio avvalorare il sarcasmo gramsciano: "Uno strano annuncio era apparso un giorno d'inverno sulle prime edizioni dei grandi fogli di Nuova- York e vi so dire come il suo complesso misterioso interessasse quella folla cosmopolita, di solito totalmente occupata nel faticoso strugle (sic) for life". L'annuncio è in realtà un messaggio della bellissima Editta Burthon, rapita per folle gelosia dallo scultore-fisico-scienziato pazzo Rhode Wilkeas. Costui nei ritagli di tempo ha costruito una macchina infernale che riesce a trasformare in statue metalliche gli esseri umani e se ne è servito per annientare il marito di Editta. Ma un amico di famiglia, il prode William, riesce a smascherare il furfante, e nel corso di una furiosa lotta lo fa cadere vittima del suo stesso congegno: "Vidi allora tale cosa inaudita che giammai si cancellerà dal mio cervello. La grande calotta emisferica, certo per gravitazione del peso, scese rapida e silenziosa dal soffitto e mentre Wilkeas la fissava con i lineamenti contratti e gli occhi sbarrati, il suo corpo assunse in breve l'aspetto di una statua di metallo lucentissimo". Non è difficile riconoscere nella figura di Rhode Wilkeas i connotati di quell'eroe dai tratti superomistici protagonista di tanta letteratura popolare fra Ottocento e Novecento, non importa se in veste di personaggio positivo o, come in questo caso, di vilain: dal Conte di Montecristo di Dumas al Corsaro Nero di Salgari, dal Rodolfo di Sue al Valjean di Hugo, il "superuomo di massa", come lo definisce Umberto Eco, filtra nella fantascienza attraverso il Capitano Nemo di Verne fino a riemergere nella space-opera americana degli anni Trenta (Jack Williamson, John Campbell) e nella protofantascienza italiana. In un altro romanzo di Luigi Motta, Il tunnel sottomarino (1927), si verifica addirittura un conflitto fra due caratteri superomistici: l'eroe positivo Adrien Geant, ingegnere progettista di un tunnel transatlantico fra Europa e America, e il vilain Mac Roller, che, roso dall'invidia e dalla gelosia, dedica la vita alla rovina dell'odiato rivale. La lotta si protrae per quasi trecento pagine fitte di colpi di scena e mirabolanti avventure, fra cui, en passant, trova spazio anche la scoperta, ad opera di Geant, dei resti sommersi di Atlantide. Alla fine l'orrido Mac Roller viene annichilito insieme alla sua fortezza galleggiante, l'Isola di Ferro, ma prima di soccombere riesce a danneggiare in maniera irreparabile il tunnel sottomarino, che non verrà più ricostruito: "Così la memoria della costruzione gigantesca si disperse e con l'andare degli anni si tramutò in un sogno; un sogno meraviglioso che rasentava l'impossibile ma che irradiava un fascio di luce gloriosa sugli uomini che avevano dimostrato ancora una volta quanto possano il valore e l'intelletto umano". Tutto il libro trasuda una ingenua ed incondizionata ammirazione per l'America e l'americanismo (e forse sarà stato anche questo, oltre alle sgrammaticature, a innervosire Gramsci): "Come sempre avviene in America, terra delle imprese audaci e colossali, il progetto venne non già scaricato come un sogno pazzesco, ma preso in considerazione, studiato ed elaborato. Dopo soltanto pochi giorni, con la caratteristica celerità americana, l'affare venne concluso".

Ma a distanza di soli otto anni dal Tunnel sottomarino, nel romanzo I Giganti dell’Infinito, questa esterofilia si è già trasformata in acceso nazionalismo e disprezzo per la perfida Albione e per i suoi figli americani: siamo ormai nel 1935, anno dell'Impero, e anche Luigi Motta si è evidentemente convertito al littorio.

La vicenda dei Giganti dell'Infinito si svolge nel 2200, in un'India ancora oppressa dagli inglesi e in lotta per la libertà sotto la guida della Begum, "donna misteriosa adorata e fanaticamente obbedita nell'India". Al fianco della Begum e del suo popolo accorrono da tutto il mondo gli "idealisti della libertà", fra cui due eroici italiani, Alfonso Maria Domenici e Giorgio Ruggeri, che mettono a disposizione della causa indiana alcuni poderosi aerei da battaglia chiamati appunto "Giganti dell'infinito ". Ma la stupenda Begum (della quale si innamora immediatamente Giorgio Ruggeri) si teneva una serpe in seno: il suo più fidato consigliere, il Fakiro Nero, è infatti una spia al soldo degli inglesi. Smascherato il traditore, Ruggeri e Domenici, anche con l'aiuto delle armi costruite dal geniale inventore (italiano) Baldo Baldi, danno battaglia agli inglesi sbaragliandoli più volte. Gli imperialistici britannici sono costretti a lasciare alla Begum il controllo di Calcutta e della valle del Gange e a ritirarsi nell'India meridionale. Il definitivo trionfo della causa indiana si avrà nel secondo volume del ciclo, intitolato La battaglia dei ciclopi.

L'epopea si chiude con una riflessione della Begum che come italiani non può che farci piacere: "Fu in quell'attimo che il suo nobilissimo pensiero si rivolse, come attratto da una forza magnetica, agli italiani: -Che cosa non hanno mai saputo compiere! - pensò con orgogliosa ammirazione".

Ma l'aspetto più interessante dei Giganti dell'infinito è la forte connotazione dannunziana che caratterizza il superuomo di turno, quel Giorgio Ruggeri che all'inizio del romanzo viene così descritto: "Giorgio Ruggeri era l'ultimo discendente di una ricchissima e nobile famiglia italiana. Di carattere ardente, avventuroso e generoso, orfano fin dai sedici anni, non aveva avuto altra guida che la propria volontà. Aveva terminato i suoi studi di meccanica con lode, aveva armato due sommergibili e compiuto un viaggio di circumnavigazione durato tre anni".

A parte le attitudini tecnico-pratiche, non c'è dubbio che siamo di fronte a un nipotino di Andrea Sperelli e Giorgio Aurispa: l'Imaginifico non era passato invano!

L'ultimo romanzo della prodigiosa produzione di Luigi Motta (ne scrisse quasi centocinquanta), Quando si fermò la Terra (1946), appartiene al filone catastrofico: nell'anno 2300 una galassia sfiora la Terra provocando una serie di cataclismi che culminano con il blocco del moto di rotazione. Per salvare il pianeta si mobilitano il professor Genius Varga, sua figlia Urania e il giovane fisico Orio Carli. La loro opera è però ostacolata dall'immancabile scienziato pazzo, che per l'occasione, adeguandosi alla singolare onomastica in uso nel 2300, assume il nome di Astro Adler, ingegnere, ex colonnello delle forze spaziali. Con Adler siamo ancora una volta di fronte a un carattere superomistico esemplato sui più classici modelli del genere. Vale la pena riportarne la descrizione: "Il suo volto, la forma della sua testa, avevano qualche cosa di spettrale e di terribile. Il viso era affilato e cereo, con le mascelle marcate, gli zigomi sporgenti, due labbra sottili ed esangui; sotto l'ampia fronte splendevano delle pupille nere ed accese, pungenti come quelle di un animaletto selvatico. Il cranio era a forma d'uovo, un grossissimo uovo coperto alla sommità da una tenue peluria biondastra. Nell'insieme lo strano essere aveva un aspetto raggelante e al tempo stesso signorile". Astro Adler è mosso da spirito di vendetta: le sue invenzioni sono state dileggiate dal Governo Mondiale ed egli, folle di rabbia, si è rifugiato nel deserto costituendo un'associazione segreta formata dai peggiori criminali allo scopo di impadronirsi della Terra: come si vede, Ian Fleming con la "Spectre" non ha inventato niente.

Adler riesce a catturare il professor Varga, Urania e Orio Carli, e rende noto il suo ricatto: egli, con i poderosi mezzi di cui dispone. salverà la Terra dalla catastrofe se il Governo Mondiale lo nominerà presidente a vita con poteri assoluti. Ma quando tutto sembra perduto, ecco la salvezza: l'occasione è offerta dal braccio destro di Adler, il meticcio Andalù, il quale è animato da odio feroce contro il principale che lo tiene assoggettato praticandogli "due ignezioni (sic) giornaliere che lo privano di ogni volontà". Nonostante le "ignezioni" il buon Andalù, insieme ad altri ribelli, organizza una sommossa che porterà alla cattura e all'eliminazione di Astro Adler e alla salvezza dell'umanità.

A conclusione di questa panoramica sulla produzione fantascientifica di Luigi Motta, si deve riconoscere che non sembrano esistere molti margini per contestare il drastico giudizio gramsciano da cui siamo partiti. C'è invece un altro protagonista della protofantascienza italiana, anche lui stroncato da Gramsci, che meriterebbe forse una maggiore considerazione: si tratta di Ugo Mioni, a proposito del quale nei Quaderni del carcere si legge: "Mi ha colpito la trascuratezza stilistica e anche grammaticale della scrittura del Mioni... lo scrittore è pessimo oggettivamente, è sgrammatico e spropositante". Ora, non c'è dubbio che formalmente il giudizio gramsciano sia esatto: Mioni scrive effettivamente in un italiano orripilante, e tuttavia questa lingua assurda produce un effetto surreale di straniamento, certamente non voluto, ma che dà a tratti l'impressione di uno spericolato sperimentalismo. È esemplare in questo senso il romanzo La guerra dei mondi (1923), in cui un personaggio di stampo superomistico, inverosimile fin dal nome (Capitan Bomba) affronta una serie di deliranti avventure in un'Asia di pura invenzione.

Molto schematicamente, la trama è questa: dopo la sua ultima avventura, Capitan Bomba si è ritirato per un periodo di riposo in un suo "magnifico castello in Transilvania arredato con il maggior lusso". Ivi trascorre il tempo in compagnia della bellissima moglie, circondato da oggetti preziosi e immerso in uno spudorato culto di sé stesso: "E chi non sa che io eccello sopra tutti gli uomini non solo per la mia robustezza particolare e la mia fenomenale astuzia ma anche, in modo speciale, per la mia intelligenza profonda?". Mentre sta bevendo in una tazza d'oro del caffè "importato direttamente da Mocca", dove cento arabi lavorano esclusivamente per lui nelle sue piantagioni, riceve la visita di un altro personaggio pazzesco, l'editore del "Cincinnati Herald", giornale che ha giustamente un successo clamoroso grazie alla curiosa prerogativa di pubblicare le notizie di avvenimenti che devono ancora verificarsi.

Ciò è possibile perché l'editore, che è anche inventore, è riuscito a costruire l"'avvenimetro", una macchina che gli permette di conoscere il futuro. Ora, secondo l'avvenimetro, una terribile guerra sta per scoppiare in qualche parte del mondo. Non si sa però dove essa si svolgerà, perché l'avvenimetro "rivela" gli avvenimenti nelle loro grandi linee, ma non ne può stabilire i particolari". Dunque, l'editore del "Cincinnati Herald" vuole che Capitan Bomba si trasformi in reporter, scoprendo dove e quando avverrà questa guerra. Come si muoverà Capitan Bomba nel corso della sua missione? Ma con l"'aerovilla", una "elegantissima palazzina aerea in stile svizzero, che procede alla velocità di trecento chilometri all'ora". Capitan Bomba accetta l'incarico, e inizia da Pietroburgo il suo giro delle grandi capitali, ovviamente "ricevuto a festa da imperatori e re, granduchi e arciduchi, presidenti, ministri, generali ed ammiragli". Nonostante la sua "fenomenale astuzia", però, non riesce a scoprire alcun indizio di guerra imminente. Decide allora di recarsi in Giappone, ma durante il viaggio un uragano fa precipitare l'aerovilla in una zona deserta dell'Asia. Si tratta del territorio in cui sorge il misterioso regno di Giallaria, dalla avanzatissima tecnologia militare: i suoi cannoni a tiro rapido "lanciano granate e bombe di duemila Kg. a una distanza di cento chilometri; la sua flotta aerea è formata da almeno diecimila aeroplani, idroplani e palloni corazzati, la flotta fluviale è potentissima". I nemici storici di Giallaria sono gli abitanti del confinante Stato di Neraria, ed è appunto fra questi due popoli che scoppierà la guerra prevista dall'avvenimetro. Capitan Bomba vi svolge naturalmente un ruolo decisivo, guidando alla vittoria la flotta delle aeronavi di Giallaria: più di un terzo del romanzo è dedicato a descrivere il trionfo tributato all'eroe, che sfila in groppa a una tigre davanti al popolo plaudente. Richiesto di diventare imperatore, rifiuta con somma modestia e viene infine recuperato dall'editore del "Cincinnati Herald" che era venuto a cercarlo con la sua aerovilla personale. Come nella mente di un probo padre gesuita, quale il Mioni fu nella realtà, possano essere nati tali sontuosi deliri narcisistici, è probabilmente destinato a rimanere un mistero indecifrabile.

Resta comunque il fatto che il fecondo scrittore (fu autore di circa un centinaio di romanzi) anticipa all'inizio del Novecento le più immaginose pagine di "Amazing" e "Weird Tales", dando vita a una space-opera all’italiana di straordinaria ricchezza inventiva.

Al confronto dello sfrenato Mioni, gli altri protagonisti della protofantascienza italiana impallidiscono e sembrano quasi raccontare vicende di ordinaria amministrazione: eppure, anche le loro storie sono ispirate da un piacevole gusto del sorprendente, come per esempio avviene nel grazioso romanzo Il pesce abitato (1906) scritto da Manfredo Baccini. Vi si immagina che, nell' anno 3896, gli Stati Uniti d'Europa (con capitale Berlino) organizzino un giro del mondo attraverso i mari al quale ogni nazione parteciperà con un suo equipaggio. L'Italia è presente con un pesce meccanico che, superando ostacoli e pericoli di ogni genere, riuscirà alla fine a giungere primo al traguardo.

Anche Attilio Piccioni ("Momus") con il suo Atlantide (1922) non riesce a sollevarsi al di sopra del raccontino gradevole ma un po' troppo piatto e prevedibile: il libro si apre con una sintesi "istruttiva" di tutte le principali testimonianze su Atlantide, da Solone a Platone a Von Humboldt a Tissot, per poi passare a descrivere, sempre con lo stesso tono didascalico, l'attività del "grande scienziato italiano Severino Pescetti".

Il Pescetti, ricchissimo, possiede lo yacht "Narvalo", con il quale effettua ricerche oceanografiche accompagnato dal fedele assistente, il bellissimo marinaio sardo Gian Sanctus (il rapporto che intercorre tra i due, non si capisce con quanta intenzionalità dell'autore, è piuttosto ambiguo: si veda per esempio la conclusione del terzo capitolo: "A quel punto il professore, con un sorriso di soddisfazione, chiamò Gian Sanctus nella sua stanza, chiuse la porta e... "). Nel corso di una crociera al largo delle Canarie lo scandaglio del "Narvalo" ripesca dagli abissi un idolo d'oro, che "sulla base porta scolpita un'iscrizione a caratteri mai veduti": decifrata dal professore, l'iscrizione rivela che l’idolo proviene da Atlantide. Il Pescetti si da allora a costruire straordinari congegni sottomarini che gli permetteranno di esplorare il continente sommerso. Con un perfezionatissimo batiscafo il professore e Gian Sanctus si immergono negli abissi, dove trovano il tempo per una lunga dissertazione istruttiva sulle richieste nascoste negli oceani. Dopo i consueti duelli con piovre giganti, pescecani e gamberoni, i due giungono finalmente tra le rovine di Atlantide: esaltato dalla scoperta il professor Pescetti vuole restare negli abissi e li morire prosternato davanti al grande tempio di Ha-Ka-Ptah. A niente valgono i tentativi del fido Gian Sanctus che, scomparso il professore, diventerà per testamento erede delle sue immense ricchezze.

Chi invece riesce a conciliare senza forzature il "fantastico" con l"'istruttivo" è Emilio Salgari, in quel piccolo gioiello che sono Le meraviglie del Duemila (1903). La trama del libro è semplice: il giovane americano James Brandok, nonostante sia ricco, bello e intelligente, è affetto da una profonda forma di spleen che lo deprime al punto da rendergli la vita insopportabile. Per distrarsi va a visitare un amico, il dottor Toby, illustre scienziato che ha scoperto una straordinaria sostanza con cui si può mantenere un organismo vivente in stato di animazione sospesa per periodi indefiniti. Il dottor Toby intende assumere la sostanza, ibernarsi e farsi chiudere in una caverna dove sarà risvegliato dopo cento anni dai discendenti di alcune persone a cui è stato affidato questo compito. Toby chiede a Brandok di unirsi a lui, e Brandok accetta: si risveglieranno nell'anno 2003 per iniziare il loro viaggio fra le meraviglie del Duemila. Da questo punto in poi, il libro ci presenta una sorprendente serie di intuizioni con cui Salgari anticipa caratteristiche reali dei nostri tempi.

Ecco qualche esempio: radio e televisione, fibre sintetiche ("già da sessant'anni abbiamo rinunciato alla stoffa animale, troppo costosa e poco pulita"), alimenti liofilizzati, meccanizzazione dell'agricoltura, posta pneumatica, energia atomica (grazie alla fusione del radium), elicotteri ("Quella macchina era davvero stupefacente. Non si componeva che di una piattaforma di metallo che pareva più leggera dell'alluminio, con due eliche collocate le une lateralmente alle altre con stecche d'acciaio, e una piccola macchina che le faceva agire"). E ancora: spazzatrici stradali automatiche (dato che "il mestiere dello spazzino è indegno di uomini"), treni che corrono a trecento km/h, utilizzazione della Corrente del Golfo per mettere in movimento turbine produttrici di elettricità (come propongono alcuni recenti progetti nel campo delle fonti energetiche alternative), il fast-food ("ecco soppressi quei noiosi camerieri e il pessimo uso delle mance"). Anche in campo politico e sociale ci troviamo di fronte ad anticipazioni altrettanto sorprendenti, come per esempio la crisi del comunismo ("Esso è scomparso dopo una serie di esperimenti che hanno scontentato tutti e contentato nessuno. Era una bella utopia che in pratica non poteva dare alcun risultato, risolvendosi infine in una specie di schiavitù") e la rarefazione della classe operaia ("("Gli operai oggidì sono quasi scomparsi. Non vi sono che dei meccanici per dirigere le macchine").

Il romanzo ha un finale drammatico: il dottor Toby e James Brandok, a causa dell'eccessiva elettricità che inquina l'atmosfera del Duemila, si ammalano di una grave malattia nervosa. Alla fine perdono la ragione e, in preda al delirio, vengono ricoverati in un sanatorio.

Ma non vi sono speranze: "Brandok e Toby erano stati dichiarati pazzi, e per di più pazzi inguaribili". In chiusura, troviamo un'ultima considerazione inquietante e in un certo senso profetica: "Io ora mi domando se, aumentando la tensione elettrica, l'umanità intera, in un tempo più o meno lontano, non finirà per impazzire. Ecco un grande problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri scienziati".

La protofantascienza italiana non rimase limitata a un contesto "terrestre", ma fu anche in grado di elaborare un gran numero di avventure "spaziali". Anche in questo ambito risalta la presenza dell'indiavolato gesuita Ugo Mioni, il quale con Alla scoperta della Terra (1903) ci dà un romanzo fondato su un ribaltamento del punto di vista degno del grande Fredric Brown: qui infatti non sono i terrestri a esplorare Marte, ma i marziani a esplorare la Terra. Lo stile ha i consueti toni demenziali degni del miglior Mioni: "La nostra arte" afferma per esempio lo scienziato marziano Caposublime "è giunta all'apice e le ingegnose combinazioni di pittura e scultura, congiunte alle ultime scoperte nel campo dell'ottica e dell'elettricità, ci diedero i miracoli della ottofonostatuaria colorata che è il non plus ultra del naturale nell'arte, il più ideale dei verismi, il più vero degli idealismi".

Tipicamente "mioniano" anche quest'altro passo in cui si descrive l'organizzazione del Parlamento marziano: "La Camera di Marte era formata di 6666 membri. I deputati però non si movevano dal loro luogo natio.

Ognuno rimaneva al suo posto ed aveva soltanto l’obbligo di portarsi nel giorno e nell'ora fissata nella sua stanza metallica, avanti al telefono. Tutti i 6666 telefoni erano in comunicazione con la stanza del Presidente che era fornito di 6666 orecchie metalliche numerizzate".

La trama descrive la preparazione del viaggio spaziale da Marte alla Terra su una navicella sparata da un cannone "lungo due chilometri". Il racconto si arresta alla vigilia dell'impresa, che è prevista per il 1904.

Attraverso il resoconto delle discussioni, degli opportunismi e dei maneggi dei politicanti marziani coinvolti nel progetto, il libro vorrebbe sviluppare una satira contro l'inconcludenza e la corruzione del parlamentarismo, ma è un obiettivo che scompare rapidamente sotto l'onda frenetica e incontrollabile dell’inventiva del Mioni.

A proposito di questo romanzo, è interessante notare che ne furono fatte quattro edizioni per oltre 8000 copie: un risultato eccezionale per i tempi, che dimostra quell'alto grado di diffusione della protofantascienza italiana di cui parlavamo all'inizio.

Su un versante diametralmente opposto a quello del Mioni si colloca invece il bel romanzo di Ulisse Grifoni Dalla Terra alle Stelle, che, uscito nel 1887, rappresenta uno dei primissimi esempi di fantascienza italiana.

Ulisse Grifoni si rivela qui un implacabile mangiapreti, assistito da un positivismo materialistico talmente rigoroso da far impallidire quello di Verne, a cui pure esplicitamente si ispira. Ecco, per esempio, come vengono giudicati i Gesuiti: "I gesuiti non amano la scienza, ma se ne impadroniscono per servirsene a loro modo. Il gesuita è l'oscurantismo che tenta invano di lottare con la luce per tenere la Terra nelle tenebre, e non sarà certamente egli che ci aiuterà a venire al possesso di tanti secreti che distruggerebbero il fragile edificio sul quale si basano le sue menzogne". Esemplare anche il capitolo IV, in cui si espongono i principi del darwinismo, introdotto da una nota che testualmente recita: "Chi ancora credesse alle volgari superstizioni che attribuiscono a un Dio creatore la nascita della vita, non legga questo capitolo. Non è scritto per lui." L'intransigenza anticlericale del Grifoni si spinge fino a creare il singolare personaggio del Padre Stecchi, un gesuita ateo che sta nell'Ordine solo per meglio combatterlo e "per giungere alfine alla sospirata distruzione di quel nido di vipere".

Protagonista del romanzo è Alberto, giovane chimico fiorentino che ha scoperto una sostanza capace di vincere la forza di gravità (inevitabile il richiamo alla "cavorite" dei Primi uomini sulla Luna di Wells).

Con l’aiuto del Padre Stecchi e del suo insegnante di meccanica, professor Lama, Alberto riesce a costruire una navicella spaziale: dopo un collaudo in Africa, avviene finalmente la partenza per Marte. Il pianeta rosso è raggiunto ed esplorato con grande dovizia di particolari scientifici, dettagli astronomici e sfoggio di conoscenze fisico-matematiche che il Grifoni, ex ufficiale di artiglieria, indubbiamente possedeva. In conclusione. si può senz'altro dire che con Dalla Terra alle Stelle siamo di fronte a quanto di più vicino a Verne abbia prodotto la letteratura fantastica italiana.

Ancora diverso appare essere il caso di un altro prolifero autore della protofantascienza italiana, Enrico Novelli detto "Yambo", a cui si devono romanzi come Gli esploratori dell'infinito (1906), La colonia lunare (1936). L'atomo (1937), graziosi ma senza nessuna pretesa di scientificità. Negli Esploratori dell'infinito, per esempio. l'asteroide Cupido, in orbita intorno alla Terra, viene addirittura raggiunto in pallone. Successivamente i protagonisti (due giornalisti americani) riusciranno a spingersi fino a Marte su un frammento di roccia staccatosi dall'asteroide dopo un'esplosione: là stringeranno amicizia con gli indigeni, detti "Marziali", che con le loro astronavi li porteranno in giro per il sistema solare. Infine, recuperato il pallone, i due americani faranno ritorno nel loro paese.

Sulla stessa falsariga si svolge anche La colonia lunare, il cui protagonista, professor Christian, intende fondare sulla Luna una colonia internazionale con i caratteri della comunità perfetta, una sorta di utopistica "Città del Sole" di cui lui stesso è il capo col titolo (un po' inquietante) di "Gran Maestro". Allo scopo costruisce un vascello spaziale, la "Croce del Sud", dall'originale sistema di propulsione: il motore è infatti costituita da una sfera "divisa internamente in trecentosessanta cellule. Entro ogni cellula è accumulata una certa quantità di "polvere di proiezione", minerale straordinario che i raggi del sole attraggono come la calamita attira il ferro. Esponendo la polvere alla luce del sole, la sfera si innalzerà nell'aria a velocità prodigiosa, e la "Croce del Sud" con essa. Se a tutto questo si aggiunge che la "polvere di proiezione" è una scoperta dell'antico alchimista Nicolas Flamel ritrovata dal professor Christian, risulterà chiaro che siamo più nel campo della fiaba che della fantascienza vera e propria.

Un giudizio analogo si può dare di un altro fantasioso romanzo di Yambo, L'atomo. Storia di un mondo invisibile, in cui il protagonista riesce a introdursi nel microcosmo atomico "separando il suo io spirituale da quello fisico". Nell'avventuroso viaggio sarà accompagnato anche dal cane Lallo, il quale però, non possedendo un "io spirituale", lo seguirà giustamente sotto forma di "fluido vitale".

Senz'altro più interessante di quelli considerati finora è un quarto libro del Novelli, Viaggi e avventure attraverso il tempo e lo spazio (1933), una specie di enciclopedia del fantastico in cui l'autore mescola abilmente realtà e fantasia, anticipando quel genere in cui molti anni dopo sarà maestro Peter Kolosimo. In effetti la tesi di fondo è la stessa, quella cioè che sotto un'apparenza di "normalità" la realtà nasconde molti più misteri di quanto si possa immaginare: ecco dunque Yambo affrontare temi come il mito di Atlantide, i misteri del Mar dei Sargassi (oggi più nota come "Triangolo delle Bermude"), la sopravvivenza di animali preistorici, i mondi sotterranei. la navigazione sotto la calotta polare, un sommergibile nella marina napoleonica e, naturalmente, il viaggio sulla Luna e l'esplorazione dello spazio.

Va anche notato che tutti i libri di Yambo sono arricchiti dagli squisiti disegni dell'autore (ma questo è un dato comune a gran parte della protofantascienza italiana, a cui collaborarono grandi illustratori come Momus, Carlo Chiostri e Enrico Mazzanti).

Purtroppo, questa caratteristica non vale per l'ultimo testo preso in esame in questo articolo, il romanzo Oltre la Terra di Anna Franchi, illustrato in maniera orrida da tale Fucilli. Peccato, perché il libro è divertente e scritto con garbo, come è evidente fino dalle primissime righe: "Tutto era stato trovato, tutto esplorata: e le fantasticherie di Verne erano divenute realtà. Tre cose solo mancavano: non invecchiare, leggere attraverso la scatola cranica i segreti del pensiero umano ed andare sulla Luna. Per le prime due cose erano stati fatti dei tentativi, la terza era ormai cosa fatta, ed in quell'anno 1990 si doveva tentare la prima prova". L’impresa sarà possibile grazie alla costruzione di un "sorprendente apparecchio, frutto della ricerca di uno scienziato italiano, chiamato astrorazzo". Il progettista Giovacchino Passatutti e il suo giovane assistente, Aristeo Sereniti, iniziano la loro avventura partendo da Roma il 5 settembre 1990. Anche se l'equipaggiamento lascia un po' a desiderare (i due astronauti sono "vestiti di un costume fatto di pelle d'orso e con la testa coperta da un grosso berretto") tutto va nel migliore dei modi, e in varie tappe è portata a termine l'esplorazione del sistema solare. I pianeti si riveleranno tutti abitati da esseri intelligenti che, secondo una suggestiva ipotesi, discendono da un'unica antichissima razza e sono destinati a un avvenire comune di collaborazione e fraternità.

Con Oltre la Terra siamo ormai al confine fra protofantascienza e fantascienza vera e propria: il libro appare infatti nel 1946, cioè a soli sei anni da quel 1952 che segna, con l'uscita di "Urania", la data di nascita ufficiale della fantascienza in Italia. I grandi maestri della science-fiction porteranno così anche fra noi il potente respiro della narrativa angloamericana, e la protofantascienza italiana ne sarà travolta. Tuttavia, l'esperienza non era stata inutile: un segnale era stato dato, un terreno era stato preparato. e si erano create le premesse perché al rassegnato immobilismo della nostra tradizione, anche la più nobile (da Manzoni a Verga, per intendersi), subentrasse nella coscienza popolare una concezione del mondo e della letteratura più aperta alle suggestioni della modernità.

Che poi questo non sia avvenuto, o sia avvenuto solo in parte, è un'altra storia, e non è comunque imputabile ai protagonisti del "romanzo d’avvenire" italiano: loro, in modo sia pure faticoso e magari a volte patetico, con le loro astronavi a polvere di proiezione e gli astronauti vestiti di pelli d'orso, la parte che gli spettava l'avevano fatta.






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