Note a margine alla (prima giornata della) Italcon ‘96
di Giovanni Savoini
Nel calendario della prima giornata dell’Italcon 96, il primo "botto" degno di nota è stato forse "sparato" nel primo pomeriggio, in occasione dell'incontro-presentazione di alcune fanzine sparse sul territorio nazionale. L'occasione, di fronte ai "pezzi grossi" -Viviani in prima fila – è stata ghiotta, e ne è venuto fuori un interessante dibattito, sviluppatosi soprattutto nei corridoi, dove, come sempre - nota Rulli - rimane la gran parte dei convenuti, a parlare, ascoltare, curiosare e girovagare.
Da quel dibattito sono sgorgate a caldo alcune riflessioni che riguardano da vicino fandom e editoria.
Mi son figurato l'aspetto editoriale del fantastico come un bosco, ove si trovano alcuni alberi di alto fusto, robusti e ricchi di fronde; poi, naturalmente, c'è l'erba che ricopre la terra e l'humus, ma... non ci sono cespugli, alberelli e piante piccole.
Questo - metaforicamente - a quanto stava dietro alla provocazione dei fanzinari al tavolo dei relatori. Abbiamo la Nord, la Mondadori, poi Fanucci, Il Cerchio, Keltia, etc poi... abbiamo le fanzine e/o le prozine (Yorick, Baliset, 7° inchiostro, Intercom, New Globe, Alliance, Il Paradiso degli Orchi, Terminus, etc), cioè, per definizione, realtà letterarie assolutamente effimere, nonché camaleontiche, trasformiste e a volte persino cannibali. In mezzo - sembra - niente.
Certo, si trovano pubblicazioni - non per forza di genere settoriale fantastico - che in Italia esistono a iosa e pubblicano racconti. Fermentano le scuole di scrittura, istituzioni editoriali utili a dare le basi per diventare, se non altro, buoni artigiani sicuramente al di sopra degli standard minimi di pubblicazione. Tutti i meritevoli scrittori sono già pubblicati e comunque la gavetta è indispensabile e da essa, se si hanno doti, si emerge. Anche gli scrittori americani emersi sono soltanto una piccola parte della massa di scribacchini e imbrattacarte made in USA da New York a Los Angeles: su quest'ultima considerazione non voglio soffermarmi più di tanto, non conoscendo alcun dato quantitativo di mercato.
Quel che però mi sta a cuore discutere riguardo il dialogo tra autore e editore, finalizzato ad una crescita stilistica del primo, di modo che possa essere pubblicato dal secondo.
Anni fa, durante una chiacchierata con Ernesto Vegetti venne fuori da parte sua l'opinione che troppo spesso troppi scrittori italiani hanno una concezione sempre artistica del loro manoscritto e che pertanto, in nome di una supposta e malintesa integrità dell'arte, rifiutano qualsiasi correzione o lavoro di editing, dato che l'opera secondo loro dovrebbe essere accettata e pubblicato o rifiutata in toto nella sua prima versione. Naturalmente, invece, se l'editore è onesto, il lavoro di editing va a vantaggio dello scrittore stesso che, con l'aiuto di un occhio esterno può scoprirsi potenzialità e abilità ignorate da lui medesimo.
Mi chiedo: l'atteggiamento degli editori italiani è orientato a questo paziente lavoro, assimilabile al lavoro del talent scout?
Quando ciascun editore riceve vere e proprie montagne di manoscritti ogni mese, il 90% dei quali risulta illeggibile per un motivo o per un altro, si deve imparare a riconoscere quasi "a fiuto" la validità di un testo fin dalle prime pagine. Stabiliamo allora, per amor di conversazione, che dei manoscritti che arrivano, scartato il 90% comunque insalvabile, eletto immediatamente un brillante 1% talentuoso, ci rimanga un 9% di opere di scrittori sulla soglia, se non del talento, almeno dell'onesta e gratificante abilità. A questo 9%, sospeso in un limbo, cosa riserva il destino? Quale è l'atteggiamento degli editori nei loro confronti?
Nel mai troppo rimpianto vecchio Eternauta, quando la rubrica di narrativa fantastica, pressoché unica in Italia e perciò preziosissima, pubblicava racconti di giovani e meno giovani autori italiani, spesso ancora nel bel mezzo della gavetta, il curatore di questa rubrica, Gianfranco de Turris, compiva - con innegabile spirito di sacrificio e passione - un encomiabile e apprezzatissimo lavoro di editing e dialogo con l’autore, nello sforzo di tirarne fuori per quanto fosse possibile tutto il meglio come narratore. Quello che faceva de Turris - secondo me - era intravvedere le potenzialità dei racconti, al di là di difetti veniali, e conseguentemente avere la pazienza e la lungimiranza di lavorare aiutando l'autore a "tirarsi fuori". C'è da scommettere che, con centinaio di autori "incontrati" per la rivista, de Turris abbia adottato questo sistema moltissime volte.
Un sistema che non sempre lavora per l'immediato, ma comunque per una prospettiva di crescita verso la pubblicazione.
La mia impressione è proprio che manchino in Italia figure come de Turris, che abbiano la pazienza, la voglia e fa professionalità di seguire un autore, di creare un vivaio di autori meritevoli, facendoli crescere racconto dopo racconto, fino al racconto valido per la pubblicazione. Un po' come faceva John Campbell con i suoi autori. E forse mancano perché mancano i cespugli del bosco del fandom: le riviste vere e proprie. Mi chiedo se non sia questa mia una impressione troppo pessimista, magari dovuta a poca conoscenza dell'ambiente editoriale, meramente per via dei pochi anni di frequentazione.
Infatti il mio non è un giudizio, anche se vorrebbe sollecitare un dialogo, una spiegazione.
A margine, certo, andrebbe ricordata la rediviva Perseo.
Qui subentra infine il discorso della maturità professionale oltre che personale di qualsivoglia autore - narratore, saggista o articolista - perché è vero che anche gli autori hanno le loro responsabilità - come diceva Vegetti - e invece ci si dovrebbe aspettare anche da loro maggiore apertura e intraprendenza e disponibilità a rimettersi ogni tanto in discussione, a reinventarsi.
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