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Il difficile decollo di Future Shock


di Antonio Scacco


Questa, con "Future Shock" (anno di fondazione: maggio 1986), è la mia seconda esperienza nel campo delle riviste amatoriali o, come si dice in gergo, delle "fanzine". La prima fu con "THX 1138" (anno di fondazione: novembre 1984), che si prefiggeva di richiamare l'attenzione dei lettori sulla svolta data alla nostra società dalla diffusione del computer e, più in generale, sull'ambivalenza della scienza. Il titolo era tratto dall'omonimo romanzo di Ben Bova, che era, a sua volta, la novelization del film di G. Lucas, L’uomo che fuggi dal futuro.

Anche il titolo della seconda fanzine non è parto della mia fantasia, ma e ricavato dal celebre saggio del sociologo americano A. Toffler. Sulle pagine di "Future Shock", ho condotto (e conduco) una serrata critica contro coloro che vorrebbero omologare la science-fiction alla narrativa fantastica, arrivando perfino ad amputare il termine science e pretendendo, col moncherino fiction, di spiegare tutta una tradizione che va dai scientific romances di Wells alla scientifiction di Gernsback. Rispetto a "THX 1138", il legame tra scienza e fantascienza è diventato, con "Future Shock", più intimo e articolato. Ecco, in sintesi, la linea editoriale che intendo seguire:

- le radici della science-fiction non vanno cercate nell'utopia, nel mito o nel romanzo gotico, bensì nella rivoluzione scientifica galileiana;

- pur dibattendo i problemi che la scienza suscita in seno alla società, la fantascienza non è divulgazione scientifica: l'influsso della scienza sulla fantascienza riguarda non tanto la sostanza quanto la forma;

- se da un lato la fantascienza rispecchia la crisi culturale del mondo moderno, tuttavia essa non è letteratura della trasgressione, della dissacrazione e del nichilismo. La funzione più genuina della science-fiction è di ricucire lo strappo fra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, di tendere cioè più a costruire che a demolire, più a umanizzare che a svilire, più ad integrare che a dividere;

- la soluzione alla crisi culturale provocata dallo shock da futuro innescato dalla scienza risiede in un umanesimo in sintonia con lo spirito scientifico (umanesimo scientifico): la fantascienza è in grado di favorire tale umanesimo.

Purtroppo, dopo più di quindici anni di esistenza in vita, "Future Shock" non riesce a decollare. Attualmente, a causa dell'esiguo numero di abbonati, versa in una grave crisi finanziaria e rischia di chiudere. E poiché la mia fanzine riflette la situazione di emarginazione che la fantascienza, in generale, vive nel nostro Paese, mi sembra opportuno indicare le cause che, secondo me, contribuiscono a ghettizzare tale letteratura.

La scuola è indubbiamente la prima imputata, in quanto, al suo interno, la science-fiction non ha avuto, e non ha, vita facile. Bersagliata da vecchi anatemi che la vedevano come «il più recente e il più proliferante cancro che insidi i nostri acerbi lettori» (1) è osteggiata da nuovi preconcetti che la considerano come una letteratura che «favorisce spesso un'evasione consolatoria dalla realtà» (2), essa è invece positivamente valutata dagli uomini di scienza.

Christo Boutzev, per esempio, docente di elettrotecnica all'università di Sofia e programmatore alla Divisione di ricerca e d'insegnamento superiore della tecnologia dell'Unesco, in un articolo apparso una decina di anni fa sul "Corriere Unesco", criticava la superficialità di quanti pensano che la produzione di nuove apparecchiature scientifiche o il perfezionamento di quelle già in uso, sia un fatto strettamente tecnico, senza alcun legame né con l'immaginazione né con la fantasia. In realtà, qualsiasi realizzazione tecnica è preceduta da una tappa fondamentale: quella in cui «si cercano tutte le soluzioni possibili a un dato problema, muovendo dalla raccolta del massimo delle informazioni... In questo stadio, l'intuizione, l'immaginazione, e la fantasia sono ancora più importanti delle nozioni tecniche». E poiché la science-fiction ha tutte le carte in regola per influire in modo decisivo sulla creatività tecnologica, Boutzev concludeva: «Non sarebbe utile, perciò, introdurre la fantascienza tra le materie d'insegnamento, e consentire ai giovani di prendere contatto sistematico con i capolavori di questa letteratura?» (3).

Alle proposte sono seguiti i tentativi. Si pensi al crescente numero di testi scolastici che hanno offerto, e offrono, materiale di science-fiction: da quelli di alcuni anni fa (Il futuro dietro l'angolo di AA.VV., edito dalla Mursia, e Fantascienza di Miranda Marcassa Ravazzi, pubblicato dalla Paravia) a quelli più recenti (Imparare dal futuro di D. Barbieri e R. Mancini, stampato da La Nuova Italia, e Cronache dal futuro di V. Catani, D. Giancane e E. Ragone, uscito per i tipi dell'editore barese Franco Milella). Inoltre, accanto ai docenti facilmente inclini ad accogliere con un immancabile sorrisetto di ironia o di commiserazione ogni discorso sulla fantascienza, ve ne sono altri che mostrano maggiore apertura e disponibilità verso di essa, non soltanto nel senso che in classe utilizzano brevi racconti di science-fiction per stimolare gli studenti alla discussione su temi di attualità ma anche nel senso che, muniti di un sistema critico appropriato, partecipano attivamente, con articoli, recensioni, saggi, a dipanare la problematica estetica del genere. Nonostante questi encomiabili sforzi, mi sembra tuttavia che, in Italia, resti ancora molta strada da percorrere. Il mio scetticismo è suffragato da due recenti avvenimenti che apparentemente sembrano incongruenti con la mia disamina, ma che nella sostanza sono con essa convergenti: uno riguarda il mondo accademico e anglosassone; l'altro, la pubblicazione di un recente saggio di Evandro Agazzi.

Veniamo al primo.

Su la "Repubblica" del 13 novembre '94, è apparsa una di quelle notizie che solitamente provocano, in chi è interessato non superficialmente a un certo problema, reazioni contrapposte di entusiasmo e frustrazione, di gioia e tristezza, di plauso e rabbia: nella patria di Shakespeare - ma anche della rivoluzione industriale – è stato inaugurato, precisamente all'università di Liverpool, il primo corso di laurea inglese in fantascienza. Si, cari lettori, proprio in quel genere letterario che negli anni Settanta, sulle pagine del "Corriere della Sera", Giorgio Manganelli, con l'altezzosità di certi letterati - ricordate l'odi profanum vulgus di oraziana memoria? - bistrattava definendolo «infimo, infantile, fracassone e demente».

Ma chi è il temerario ideatore e responsabile del corso di laurea che dovrebbe guidare gli altrettanto spericolati allievi nell'esplorazione della mappa dell'immaginario fantascientifico, le cui tappe sono costituite da: Robots, Mente e Intelligenza, Utopie e Distopie, Fantascienza e Guerra Fredda, Viaggio nel Tempo, Zone Aliene? Non è certo uno scrittore di fama mondiale come il celebre autore di 2001: A Space Odyssey, Arthur C. Clarke. In tal caso sarebbe stato ovvio obiettare che... noblesse oblige. Invece, è un esponente del mondo accademico: il professore David Seed, autore del testo fondamentale del corso dal titolo: Anticipations: Essays on Early Science-Fiction and its Precursors, il cui assunto è che la fantascienza «non cresce dal nulla ma è radicata nelle più svariate circostanze sociali e storiche». Si disilluda però lo studentello nostrano che pensi di trasferirsi oltre La Manica per poter fregiarsi, senza faticare eccessivamente, dell'agognato titolo di dottore in science-fiction. Tenga presente il furbastro che... i pianeti da esplorare per giungere alla meta sono: critica letteraria, conoscenza scientifica, filosofia, politica, sociologia. Insomma, per arrivare al traguardo della laurea, dovrà sudare le proverbiali sette camicie!

A questo punto, sorge spontanea la domanda: perché si, nell'università inglese, ai corsi di laurea in fantascienza e in quella italiana no? Forse perché l'Inghilterra è la patria di uno dei padri fondatori della Science-fiction, Herbert G. Wells? Ma nel nostro Paese non ci sono forse cattedre di letteratura portoghese o tedesca, senza che esso sia la patria né di Luis de Camoes, né di Wolfgang Goethe? L'interrogativo diventa ancora più inquietante se si considera che in Italia non sono mancati i tentativi di richiamare l'attenzione del mondo accademico sulla letteratura di fantascienza. Basti ricordare il Convegno internazionale che si tenne a Palermo nell'ottobre del 1978 e che fu organizzato proprio da un professore universitario, Luigi Russo. Al Convegno parteciparono studiosi stranieri e italiani del calibro di Marc Angenot, Jean Baudrillard, Gillo Dorfles, Carlo Pagetti, Giacinto Spagnoletti, Darko Suvin, e furono dibattuti i punti più cruciali della science-fiction quali: è possibile definire il suo statuto istituzionale? va applicata la tradizionale teoria della letterarietà? quali sono i suoi legami con la scienza? è un genere della letteratura fantastica?

Ma a quasi ventitre anni di distanza, nihil novi sub sole, in Italia, per quanto riguarda l'istituzione di cattedre universitarie di fantascienza. Restano solo le vestigia a testimoniare, come cattedrali nel deserto, la validità scientifica e culturale del Convegno di Palermo, vestigia rappresentate dalle relazioni e interventi raccolti in volume dalla Feltrinelli.

Un altro tentativo degno di rilievo fu quello compiuto nell'anno accademico 1988/89 dal titolare della cattedra di Letteratura per l'infanzia al Magistero di Urbino, il compianto professore Alfeo Bertondini. Già in un saggio del 1981, Letteratura per ragazzi e letteratura popolare, questo docente che evidentemente non aveva timore di appartenere alla ristretta pattuglia degli accademici anticonformisti che apprezzano tanto la fantascienza da proporla come strumento didattico, aveva riconosciuto a essa la «positività progettante della formazione di un uomo nuovo». Nell'anno accademico in questione, l'esigenza di un maggiore approfondimento dei vari problemi che il fantastico, in generale, e la science-fiction, in particolare, suscitano a livello pedagogico e letterario, lo spinsero a organizzare un corso in cui veniva messa a punto la metodologia didattica adeguata a tale campo d'indagine. I testi adottati furono, per la parte generale, uno dello stesso Bertondini, Letteratura popolare giovanile e fantastica (Mito - Utopia - Fantascienza), e per la parte speciale, i testi di Scholes e Rabkin, Fantascienza, di Marini e Mascia, Fantascienza e educazione, e dell'estensore di queste note, Fantascienza e letteratura giovanile. Purtroppo, la morte prematura di Bertondini pose fine a questa coraggiosa sperimentazione, a cui sicuramente altre ne sarebbero seguite, poiché - come egli scriveva - «la Sf non è stata definita a dovere; è in una possibile definizione che si deve fissare il suo statuto e a questo mantenersi fedele».

Chiudo, qui, il mio excursus sul primo dei due avvenimenti richiamati all'inizio, e passe al secondo, cioè alla pubblicazione dell'agile, equilibrato e puntuale saggio di Evandro Agazzi, ordinario di Filosofia della Scienza e di Antropologia filosofica alle Università di Genova e Friburgo, dal titolo: Cultura scientifica e interdisciplinarietà. (5)

Tante volte, nei luoghi più disparati (sul treno, al bar, in montagna o al mare...) o negli ambienti socioculturali più diversi (tra impiegati, docenti, scrittori, poeti...), mi è capitato di confessare candidamente che mi occupavo, a livello critico e saggistico, di narrativa di fantascienza. Senza pensarci due volte, il mio interlocutore rispondeva che verso di essa sentiva una ripulsa viscerale. Pare che questo atteggiamento di rifiuto preconcetto non sia appannaggio della sola fantascienza. Anche la scienza va incontro, da parte di certi umanisti, a una "sottile avversione", a una "allergica incomunicabilità". Sentite il seguente episodio capitato al professor Agazzi: «Ricordo per esempio un collega filosofo - di grande finezza e intelligenza, oltre che di vasta cultura - il quale confessava senza imbarazzo che, di fronte a una qualsiasi formula, fosse essa di matematica, di logica, di economia o di chimica, rinunciava puramente e semplicemente a capire» (6).

Che si tratti - soprattutto nel secondo caso - di una forma assai grave di allergia, è indubitabile. La scienza, oggi, è presente nei settori più importanti della nostra società: da quelli economici a quelli sanitari, informativi, militari, industriali... Non ha senso nascondere la testa sotto la sabbia come lo struzzo. Si rischia di rassomigliare al peripatetico Cremonini che si rifiutò di guardare attraverso il cannocchiale di Galilei perché, sull'autorità dell'ipse dixit di Aristotele che affermava la purezza e l'incorruttibilità dei corpi celesti, non era possibile che il sole avesse macchie!

Ma qual è l'origine della disistima, non solo in Italia ma anche in altre nazioni d'Europa, della scienza? Com'è stato possibile che essa, da una posizione di egemonia goduta nella seconda metà dell'Ottocento, sia poi scivolata, nel nostro secolo, in un ruolo di subalternità? Sul banco degli imputati è da porre il Positivismo, il quale aveva coltivato la fallace illusione che la scienza fosse l'unico strumento di conoscenza e l'unica guida sicura per l'agire umano. Ma il suo progetto piuttosto velleitario di rimpiazzare le altre forme di conoscenza, fu frustrato allorché la fisica meccanica fu messa in crisi da quella relativistica e quantistica. La reazione crociana fece il resto, nel senso che la scienza fu svuotata della sua capacità conoscitiva e fu ridotta al rango di sapere meramente pratico e utilitaristico, del tutto estraneo al compito di formare l'uomo, compito che nella scuola spettava esclusivamente alle discipline umanistiche.

Non mi sembra, qui, il caso di esporre minuziosamente le serrate argomentazioni mediante le quali Evandro Agazzi perviene alla conclusione che la scienza, depurata dall'interpretazione scientista che ne dava il Positivismo, è ancora in grado di offrirci un sapere rigoroso e oggettivo. Non solo ma essa, proprio a motivo dei due aspetti fatti emergere dalle epistemologie antipositiviste, cioè la contestualizzazione sociale e la dimensione storica, ha tutte le carte in regola per entrare a far parte, nella scuola, del processo formativo dell'uomo. A ribadire questa asserzione, c'è tutta una sfilza di famosi filosofi - da Cartesio, a Leibniz, a Kant, a Comte, a Spencer, a Russell, a Wittgenstein... - per i quali la conoscenza scientifica, sia per i suoi contenuti che per i suoi metodi, assunse un ruolo precipuo nella maturazione del loro pensiero.

È fuor di dubbio che la guarigione dall'allergia per la scienza spianerebbe la strada alla guarigione dall'altra allergia: quella per la science-fiction. Sono, infatti, molto stretti i legami di quest'ultima con la prima: l’entomologo Giorgio Celli, parlando di fantascienza al Convegno internazionale di Palermo nel 1978, la definì «"descrizione romanzata" del metodo scientifico», «metafora epistemologica» (7). E se non bastasse, si potrebbe citare la parabola seguita dalla fantascienza in Europa: in auge con Verne e Wells finché perdurò il successo del Positivismo, in declino quando prevalse la reazione antipositivista. La science-fiction riconquistò il suo successo negli USA proprio perché lì scienza e tecnica furono considerate strumenti ideali per l'avanzamento spirituale e materiale della nazione.

Ma la sintonia tra scienza e fantascienza non si realizza solo a partire dalle vicende storiche. Ve n'è un'altra ben più profonda e che va nella direzione auspicata da Agazzi: quella a livello culturale. Da sempre, la migliore fantascienza si è qualificata come riflessione sui problemi suscitati dalla scienza e dalla tecnologia in seno alla nostra società: si pensi a opere come New Brave World di Huxley o 1984 di Orwell. La proposta, poi, di sostituire il termine science-fiction con speculative fiction ribadisce ancora una volta l'esigenza di mettere in rilievo l'irruzione, a volte sconvolgente (da "shock culturale" o "shock da futuro"), della conoscenza scientifica nella conoscenza ordinaria o senso comune dell'uomo della strada (8).

La malattia è, dunque, diagnosticata, la terapia già prescritta: quando la nostra scuola deciderà di prendere le medicine?


(1) L. SANTUCCI~ La letteratura infantile, Fabbri, Milano, 1958, p. 320.

(2) A. NOBILE, Letteratura giovanile, La Scuola, Brescia, 1990, p.94.

(3) C. BOUTZEV, Alla scuola dell'immaginazione, in "il Corriere Unesco", gennaio 1985, anno XXXVIII, n. 1, pp. 22-24.

(4) L. RUSSO (a cura di), La fantascienza e la critica, Feltrinelli, Milano, 1980.

(5) E. AGAZZI, Cultura scientifica e interdisciplinarietà, La Scuola, Brescia, 1994.

(6) Ibidem, p. 86.

(7) G. CELLI, Etologia dei robot, in L. RUSSO, op. cit., p. 140.

(8) Cfr. E. CANTORE, L'uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza, Ed. Dehoniane, Bologna, 1988, pp. 498-499.






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