Da celebre bambola a donna: una "rivoluzione" femminista
di Paolo Mereghetti
Diciamo così: visto dalla parte della Mattel il film sulla sua celeberrima fashion doll può essere considerato un'operazione riuscita, forse non dal punto di vista commerciale (pare che dopo gli exploit di vendita registrati durante la pandemia, gli affari abbiano subito una frenata) ma sicuramente dal punto di vista promozionale perché tutto il film è un'esaltazione del «mondo Barbie» e della sua immagine di marca, che nei titoli di coda arriva addirittura ad assumere la forma di un vero e proprio catalogo commerciale.
Visto dalla parte di Margot Robbie, interprete ma soprattutto produttrice, l'operazione Barbie ha sicuramente aumentato il suo potere contrattuale, la sua statura da star e i suoi meriti nella difesa di un cinema al femminile. E lo stesso si può dire di Greta Gerwig, che prosegue nel suo percorso autoriale alla ricerca di quei momenti di emancipazione che aveva cominciato a raccontare con Lady Bird e poi con Piccole donne: qui il cerchio si chiude e la sceneggiatura scritta insieme al marito Noah Baumbach sembra voler riprendere la voglia di fuga di Christine McPherson e quella affermazione di sé di Jo March per offrire all'inquieta Barbie lo spunto per la sua metamorfosi da bambola a donna.
Ma dal punto di vista del pubblico? Ecco, diciamo che da questo punto di vista il giudizio sul film che in questi giorni sta invadendo tutto il mondo è più contrastato e meno univoco. Perché le idee che fanno centro, a cominciare dalla fotografia pastellata di Rodrigo Prieto per proseguire con la bella dose di ironia che aiuta a de-dolcificare il mondo ultra zuccherino delle bambole con tacco 12, non sempre sono supportate da un ritmo e una capacità inventiva adeguati. Dopo un inizio folgorante, già abbondantemente diffuso dal marketing, dove l'arrivo della bambola nel mondo dei giocattoli ha la forza dirompente di 2001: Odissea nello spazio (e del corpo statuario di Margot Robbie), il film ci immerge nel mondo Barbie, dove tutto è perfetto, levigato e plastificato: le varie incarnazioni della bambola vivono in un mondo senza ombre ne difetti, fatto solo di sorrisi, di balletti e canzoncine.
Solo le varie incarnazioni di Ken - c'è quello caucasico (Ryan Gosling), quello afroamericano (Kingsley Ben-Adir), quello orientale (Simu Liu) e altri ancora - sembrano preda dell'invidia e della reciproca gelosia, senza però riuscire a mettere in crisi la contagiosa armonia di Barbieland.
Chi invece ci riesce è, a sorpresa, la stessa Barbie, che scopre di pensare addirittura alla morte e si accorge di non riuscire più a indossare le scarpe col tacco. Scoprirà che qualcuno nel mondo reale ha finito per attribuirle pensieri da donna normale, forse addirittura da donna «modesta», e a lei non resta che andarci per cercare di richiudere quella strana porta che mette in collegamento gli umani con le bambole. E a sorpresa la seguirà nel viaggio anche il Ken interpretato da Ryan Gosling.
È a questo punto che il film rischia di essere frenato dalle sue ambizioni didascaliche: lei incontra una figlia e una mamma (America Ferrera) che le aprono gli occhi sui bisogni femminili e sugli ostacoli che si trovano a dover superare, mentre Ken fa propri i peggiori esempi di arroganza e supponenza maschile. E anche ritornati a Barbieland, continua a chiedere allo spettatore una complicità eccessivamente «infantile» per ribaltare il dominio dei maschi.
L'intento educativo di Greta Gerwig è evidente.
All'inizio fa di Barbie nel mondo reale una specie di Forrest Gump sprovveduto e frastornato (citando esplicitamente il film di Robert Zemeckis) e alla fine arriva a tirare in ballo l'inventrice stessa della Barbie per ribadire che ogni ragazza è libera di trasformare quella bambola in qualcosa di alternativo all'icona bionda e elegante che va per la maggiore, ma finisce per restare prigioniera del proprio percorso ideologico e non basta certo la rivendicazione finale di una ritrovata sessualità per dare al film la carica empatica di cui aveva bisogno.
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