Trasfiguro in una favola nera il disagio dell'adolescenza
di Valerio Cappelli
Fien Troch in Holly si immerge in un tema ricorrente della Mostra del cinema: il disagio dell'adolescenza. La regista belga, 45 anni, lo fa attraversò una giovanissima eroina e i suoi piccoli miracoli. «È una favola nera con un'aura magica sul passaggio all'età adulta».
Per la prima volta in concorso alla Mostra del cinema, in passato con Home ha vinto nella sezione Orizzonti. «Mi sono formata con Pasolini, Visconti, Rossellini e Antonioni». È un film audace, duro, coraggioso, che mette su un piano inclinato lo spettatore.
Il titolo è il nome della giovane protagonista, Cathalina Geeraerts.
Chi è Holly?
«Una ragazza ordinaria a cui viene attribuito un talento speciale, con poteri fuori dal comune. Ha un brutto presentimento: qualcosa sta accadendo nella sua scuola. Un incendio farà tante vittime tra i suoi compagni. Lei viene da una famiglia disfunzionale, è diversa dai coetanei. È una creatura sensibile e innocente, ha un'energia catartica, diventa volontaria per aiutare i genitori che dopo quella tragedia sono diventati molto ricettivi rispetto alla dimensione soprannaturale».
Lei cosa cerca?
«Non vuole compassione e non giudica: ascolta. Era stata bullizzata, ma vuole essere trattata e accettata come una normale teen-ager. Si lascerà derubare di tutto, perfino le scarpe, da un coetaneo che lei vorrebbe aiutare. È l'atto simbolico, francescano, di accoglienza. Holly non ha bisogno di nulla per cominciare a essere felice e vivere una sua normalità. Mi sono chiesta cosa vuol dire fare del bene e perché lo si fa, e cosa posso fare io confrontandomi con la durezza di una grande città come Bruxelles, e cosa invece non faccio, Esiste davvero l'altruismo genuino? L'insegnante del film vorrebbe salvare il mondo con un approccio pedante. Ma, sia chiaro, ho grande rispetto per chi è socialmente impegnato».
Coproduttori sono i fratelli Dardenne, i plurivincitori di Cannes con le loro storie dalla parte degli ultimi.
«Mi hanno dato consigli preziosi nel montaggio, e soprattutto mi hanno aiutato a capire cosa è essenziale in questa storia, che è anche una storia di amicizia: Holly e Burt, il suo amico autistico, cercano di sopravvivere nella comunità. Lui si chiama Felix Heremans, è veramente autistico, è stato facile lavorarci, era lucido e consapevole di recitare. A volte pensavo di fargli ripetere una scena per interpretarla in modo diverso, ma poi ho realizzato: no, Felix è questo e se non mi sta bene dovevo prendere un altro ragazzo. Ho fatto audizioni per gente disabile, ragazzi dislessici o con la sindrome di down. Felix è super indipendente, fa cose che non permetto di fare a mio figlio. Sarà a Venezia con me. L'invito in gara è stato inatteso. In passato, 25 anni fa, ho recitato accanto a Isabelle Huppert in Saint-Cyr. Quell'esperienza mi ha fatto capire che non volevo fare l'attrice ma la regista, il mio sogno di sempre».
In «Holly» c'è una dimensione soprannaturale.
«Questo aspetto c'è, così come quello religioso, anche se non è un'esplorazione della fede. Il nome Holly richiama holy, l'elemento sacro. Racconto cosa succede quando si ha bisogno di credere in qualcosa che va al di là di ciò che vediamo. Ma non è un film religioso. Scriverlo è stata la cosa più difficile. Quella comunità è stata colpita da un lutto.
Si trattava di bilanciare il dolore con una luce nello sguardo di Holly, la speranza malgrado tutto».
Come spiega i tanti film sull'adolescenza inquieta?
«Si parla di futuro rubato, negato, di ciò che il Covid ha tolto ai più giovani, il senso di isolamento, la solitudine. I ragazzi hanno sofferto di più».
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