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Mattatoio infinito


L’11 novembre Kurt Vonnegut avrebbe compiuto cent'anni, e in questi ultimi quindici anni senza di lui, qualunque suo lettore s'è chiesto almeno una volta, di fronte a questo o quello sviluppo assurdo della contemporaneità: «Chissà che cosa avrebbe detto Vonnegut». Sono molti i motivi per cui Vonnegut manca così tanto ai suoi lettori, e altrettanti quelli per cui da oscuro autore di fantascienza «pubblicata direttamente in tascabile» (come il suo personaggio ricorrente Kilgore Trout) è assurto alla posizione indiscutibile di gigante delle lettere del Novecento, ma forse quello alla radice di entrambi i processi è che nessuno pensa allo stesso modo di Kurt Vonnegut.

L'inclassificabilità di Vonnegut ha a che fare tanto con il suo pensiero quanto con il suo stile narrativo, e forse anche per questo, nonostante la straordinaria fortuna dei suoi romanzi maggiori - si citeranno almeno Mattatoio n° 5, che gli diede fama mondiale, Ghiaccio nove, Le sirene di Titano, La colazione dei campioni e Madre notte - è uno dei grandi romanzieri meno adattati al mondo, e anche quando tale adattamento è stato tentato, i risultati sono stati terribili, come nel caso del film della Colazione dei campioni, passato agli annali come uno dei maggiori flop della storia del cinema americano, oppure decorosi ma lontanissimi dalla sensibilità del libro, come nel caso del film tratto da Mattatoio n° 5 nel 1972 da George Roy Hill, o quello tratto da Madre notte nel 1996 da Keith Gordon.

In occasione del centenario, Bompiani, che si è affiancata ad altre major come Feltrinelli e Mondadori nel puntare sul fiorente mercato delle graphic novel, pubblica un nuovo tentativo di adattamento del capolavoro vonnegutiano, stavolta a fumetti. Gli autori sono Ryan North e Albert Monteys, che saranno poco noti al pubblico italiano, ma non sono tra gli ultimi arrivati nel mondo dei comics: North ha scritto per la Marvel (con Squirrel Girl, reboot di un personaggio generalmente ritenuto senza speranza, ha incassato due premi Eisner) e per Adventure Time, dove il suo lavoro gli ha fatto mettere in bacheca quattro premi Harvey; Monteys è stato il fondatore della fortunata rivista spagnola di satira «El jueves», per poi trovare spazio anche negli Stati Uniti, tra le altre in casa Image Comics.

Il risultato di tanto ingegno è un lavoro ricco, complesso, ben strutturato, a volte un po' verboso (fatto curioso, dal momento che Vonnegut era scrittore diretto e a volte addirittura laconico), pieno di bei momenti (ottima la rappresentazione di un libro tralfamadoriano, così come la raffigurazione in stile vintage dei fumetti di fantascienza firmati da Kilgore Trout), e che sa mettere in scena tutta la storia di Mattatoio n° 5 (in estrema sintesi, il racconto delle vite di un gruppo di soldati americani prigionieri di guerra a Dresda mentre infuria il bombardamento a tappeto, incrociata con quella di uno di loro, rapito da bizzarri alieni e piazzato in una sorta di zoo), non riuscendo tuttavia a cogliere in pieno lo spirito dell'autore di Indianapolis, quell'indefinibile miscela di ironia e serietà, umanità e cinismo, sospensione dell'incredulità e incredulità cercata e voluta, il tutto unito al dubbio costante che riesce a scatenare nel lettore - sto leggendo filoso sopraffina o roba buffa scritta a casaccio? - così da ottenere, nella lacerazione prodotta da questa dicotomia, la famosa, inimitabile e in fondo non adattabile profondità vonnegutiana. Resta altresì il dubbio su cosa possa pensare di questo fumetto chi non ha letto Mattatoio n° 5 (che non smette di parlarci oggi, considerate le guerre in corso): probabilmente, la sensazione di avere ricevuto troppo materiale in faccia tutto assieme, e sì che il romanzo, nella prima edizione originale, misura solo 190 pagine.

Questo dato ci dà tuttavia la misura della reale densità della letteratura di Vonnegut: i suoi sembrano libretti popolari usa-e-getta (e in effetti per decenni lo sono stati, almeno formalmente: lui stesso soffriva del fatto di uscire subito in paperback, asserendo che era un passaporto certo per essere ignorati dalla critica), ma se si prova a sventrarli e svolgerli su un piano, ecco che da essi tracimano interi universi. Interi universi... e l'indomita presa di petto di questioni centrali dell'esperienza umana come il problema del libero arbitrio, quello dell'esistenza di Dio, quello dell'identità personale, della salute mentale, dell'omologazione sociale, del rapporto tra colpa e redenzione o di quello tra uomo e tecnologia.

L'opera di Vonnegut, che ammonta a quattordici romanzi scritti nei quarantacinque anni che corrono tra il 1952 dell'esordio Piano meccanico e il 1997 del congedo con Cronosisma, trova un apice formale e contenutistico proprio con Mattatoio n. 5, e dà lì si divide nei due filoni che la definiscono: le opere fortemente contaminate dalla fantascienza, a cui corrispondono i primi sei lavori, e quelle più informali e «vaticinanti», ma anche più realistiche, a cui corrispondono i successivi, con l'eccezione di Galapagos (1985) e proprio Cronosisma, in cui Vonnegut cerea piuttosto una sintesi tra le sue due "voci" principali.

Oltre ai romanzi esiste un corpus di racconti, in media di livello inferiore ma capace di mostrare quale sia, dietro l'apparente ricorrenza - quando non ricorsività - di temi, figure e situazioni, l'ampiezza delle possibilità della narrativa vonnegutiana, oltre a un paio di raccolte di saggi e aneddotica personale, divenute pressoché inevitabili da quando, dopo Mattatoio n° 5, Kurt Vonnegut si ritrovò a essere prima icona della controcultura e poi punto di riferimento filosofico di almeno un paio di generazioni di americani. L'accostamento più frequente è del resto con Mark Twain, e questo può dare la misura anche al lettore europeo dell'impatto di Vonnegut sulla cultura statunitense, anche al di là del valore dei suoi romanzi migliori: praticamente una sorta di coscienza ironica del Paese incarnata in baffi, ricci e Pall Mall ("scelte per il contenuto di catrame superiore alla media", cit.).

Il quadro etico e politico di Vonnegut era piuttosto chiaro fin dal primo romanzo, se è vero che il protagonista di Piano meccanico afferma che "lo scopo principale dell'umanità è fare un buon lavoro nell'essere umani, non servire da appendici a macchine, istituzioni o sistemi": un umanesimo senza compromessi, in fiera e pertinace opposizione a qualunque struttura organizzata, che sia religione, Stato, partito o megacorporazione finanziaria del futuro.

A quei tempi, precisamente settant'anni fa, Kurt Vonnegut era ancora uno sconosciuto autore di fantascienza «pura», tant'è che quel suo primo romanzo racconta, in modo piuttosto classico, un mondo in cui le macchine hanno sostituito gli umani nel grosso dei mestieri (ricorda qualcosa?); e se certe convinzioni erano già ben innervate nella coscienza della sua opera, la vera svolta si ha con il romanzo successivo, Le sirene di Titano, del 1959. Prova ne è che chiunque lo abbia letto sbalordisca ogni volta nel ricordare che si tratta di un romanzo degli anni Cinquanta: le avventure del miliardario Winston Niles Rumfoord e del suo cane Kazak, finiti per errore in un infundibolo cronosinclastico, una sorta di sacca iperdimensionale in cui tutto è uno, e sia il tutto che l'uno sono giusti, sembrano infatti scritte domani. Ibridazione tra i generi? New weird? Approcci metafisici alla narrativa letteraria? Tutto già fatto, anzi fatto, rifatto, elaborata e pure satireggiato.

Tra l'altro, Le sirene di Titano contiene anche i semi di tutta la narrativa vonnegutiana a venire: troviamo già i tralfamadoriani, gli alieni a forma di mano con un occhio sul palmo che rapiranno il Billy Pilgrim di Mattatoio n° 5, l'ossessione di Vonnegut per i miliardari bizzarri o completamente pazzi, riflesso della sua idea del capitalismo come un sistema finito fondamentalmente fuori controllo, e tutta la disperata empatia che si può avere se si è compreso quello che è, in fondo, il senso della vita (spoiler: nessuno, e proprio per questo è necessario comportarsi bene). Le sirene di Titano è il capostipite di un intero genere, e non solo della narrativa vonnegutiana «matura»: Douglas Adams si ispirò dichiaratamente a esso per la sua Guida galattica per gli autostoppisti, e dà lì la fantascienza umoristica entrò in esistenza come filone e non solo come eccezione (vonnegutiana, si capisce).

Il Vonnegut della seconda fase, che può fare a meno anche dei dispositivi della fantascienza classica, in quanto padrone e demiurgo di un proprio mondo, si intravede già in Madre notte. Qui l'ambientazione è realistica ed entra in campo il tema decisivo dell'identità, oltre a quello, mai fuori fuoco, del male: abbiamo un protagonista, Howard W. Campbell jr., che si spaccia per nazista nelle sue trasmissioni radiofoniche, quando in realtà le utilizza per mandare messaggi cifrati agli Alleati; ma in fondo, dopo anni a recitare quella parte, lui stesso non sa più se è un nazista o meno, e il fatto di ritrovarsi in un carcere di Gerusalemme in attesa di essere processato per crimini di guerra non depone decisamente a suo favore...

Il salto definitivo, dopo i pure ottimi Ghiaccio nove e Dio vi benedica, Mr. Rosewater, romanzi in cui la poetica vonnegutiana è ormai perfettamente a fuoco, viene effettuato nella Colazione dei campioni, del 1973, dove oltre a ritrovare un Kilgore Trout finalmente assurto al rango di co-protagonista, appare anche Vonnegut stesso, nel ruolo di dio e demiurgo del suo mondo. Si capisce che dopo un gesto del genere si è in qualche modo condannati a continuare con un commentario alla propria stessa opera. La colazione dei campioni arriva, ponderatissimo, quattro anni dopo il successo globale di Mattatoio n° 5, un successo così vasto e inatteso - specie per un romanzo così inusuale: uscendo nel 1969, con la sua spiccata posizione pacifista, presa da un punto di vista strambo e visionario, entrò immediatamente in risonanza con la controcultura pacifista e psichedelica del momento - da cambiare l'attitudine dello stesso autore rispetto alla propria opera.

Un cambio di attitudine che non avrebbe però mutato la posizione di Vonnegut rispetto agli autori di fantascienza pulp, nei cui ranghi non dimenticherà mai di militare, pur soffrendone. Per dirla con le sue stesse parole: «Vi amo, figli di puttana. [...] siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: durerà miliardi di anni [...] Siete i soli the hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le metropoli [...] Siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l'Inferno».

E tuttavia Vonnegut è umano (o troppo umano: non c'è lettore che non tremi al pensiero che quel saggio buontempone tentò comunque il suicidio, nel 1984) e pativa il mancato riconoscimento critico che esperì nella prima metà della sua carriera, e non solo: Mattatoio n. 5 era già uscito, e finito in testa a tutte le classifiche, quando Gore Vidal si spinse a definirlo il «peggior autor>e d'America», e Vonnegut non mancava mai di ripetere che i critici «lo avrebbero voluto schiacciare come uno scarafaggio» o di definirsi il «dolente occupante di uno scaffale etichettato come "fantascienza"», asserendo apertamente di «volerne uscire perché i critici lo scambiano sempre per un pisciatoio».

"Com'era logico, sarebbe arrivata la rivalutazione, con gli elogi sperticati di firme del massimo prestigio come Norman Mailer, Doris Lessing o Tom Wolfe, e alla fine anche di Gore Vidal, che gli concesse almeno d'essere «eccezionalmente fantasioso», i quali rimasero tuttavia sempre sorpresi, e forse anche un po' invidiosi, rispetto alla capacità di Vonnegut di incantare tanto il lettore avveduto quanto quello occasionale, e tutto ciò che c'era in mezzo. Detta all'americana, Kurt Vonnegut era, ed è, lowbrow, midcult e highbrow allo stesso tempo - pressappoco: basso, mediano, alto... - senza che ciò nulla tolga alla sua capacità di competere in qualità e profondità con gli autori dello scaffale highbrow, ed è per questa unicità di pensiero e stile che, a cent'anni dalla sua nascita, tutta la sua opera - pure i pensieri minori, i romanzi giovanili o i ritorni tardivi sui temi amati - è ancora a catalogo in tutto il mondo, cosa che non si può dire, ad esempio, di Gore Vidal.






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