Recensione di Giuliano Giachino a "I reietti dell'altro pianeta"
'I reietti dell'altro pianeta' oppure, in un'edizione più recente, 'Quelli di Anarres', cioè a dire due bruttissimi titoli italiani per un ottimo romanzo che, nella versione originale in inglese, suona invece letteralmente 'I senza proprietà: un'utopia bifronte', o duplice, o speculare che dir si voglia, ma non 'ambigua', con quel tanto di connotazione negativa che questo termine possiede in italiano (dal Concise Oxford Dictionary: "Ambiguous: of double meaning, of doubtful classification, of uncertain issue"). Ursula Kroeber Le Guin, l'autrice, vive e lavora negli Stati Uniti, è figlia di un famoso antropologo di origine tedesca (Kroeber), ha sposato un francese (Le Guin), ed è laureata in letteratura francese e del rinascimento italiano alla Columbia University.
E questo suo cosmopolitismo è filtrato nelle pagine del suo romanzo, vincitore del Premio "Hugo" ne1 1975, e nell'animo del suo protagonista Shevek, l'anarchico, un vero e proprio "cittadino del mondo" del lontano futuro.
L'idea principale su cui è basato il romanzo, cioè l'alterazione di prospettive che costringe il lettore a scorgere le situazioni, gli atteggiamenti, i comportamenti a lui familiari attraverso gli occhi di un personaggio impostato psicologicamente in modo radicalmente diverso, ed a cogliere quindi sino in fondo le contraddizioni, le meschinità e persino - è proprio il caso di dirlo - gli orrori della propria esistenza e della società a cui si è serenamente adattato, non è affatto nuova: in definitiva, è la stessa utilizzata da Heinlein per il suo Straniero in terra straniera, a sua volta vincitore di un 'Hugo".
Quello che è nuovo, nella narrazione della Le Guin, è l'incanalare questa alterazione di prospettiva in una direzione viva e concreta, nel caricarla di un messaggio di natura etica e morale, pressante e convinto, nel far sì che la narrazione, pur pacata, razionale e, con pochissime eccezioni, priva di particolari sussulti d'azione, gridi in viso al lettore, stordendolo con la sua verità: "Ti prego, guarda... , guarda... , tu non te ne sei mai accorto, ma e così..., è davvero così ... ".
Ma, oltre a questo messaggio dirompente, nel romanzo troviamo anche più di un momento di autentico e sincero lirismo; oltre all'amarezza per la condizione umana, anche parole di gioia e di speranza; oltre alla durezza dell'egoismo e del cinismo, anche la semplicità e la naturalezza delle parole conclusive del protagonista, che si ricollegano idealmente al titolo: "- Mi piacerebbe aver portato la fotografia, la piccola pecora, per darla a Pilun. - Ma non aveva portato nulla. Le sue mani erano vuote, come sempre".
Per concludere, anche le opere migliori non sono del tutto scevre da difetti: e talvolta l'autrice tende forse ad insistere troppo nello spiegarci le cose, in qualche altro passo tende un poco a scivolare nel didattico, in altri ancora si può avere l'impressione (ma certi concetti, così ovvi e così dimenticati da tutti, è giusto che vengano ribaditi ancora e ancora) che essa sfondi delle finestre già aperte; ma sono limiti minori, e questo romanzo straordinario resta uno dei grandi capolavori della "science fiction", e non solo di quella: della letteratura, semplicemente.
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