Recensione di Antonio Scacco a "I reietti dell'altro pianeta"
Come la storia insegna, un effettivo superamento del dominio può avvenire solo se c'è un'erosione dal basso delle strutture politico-economiche che consentono la concentrazione del potere, e solo se nell'organismo sociale vengono attivati quei meccanismi educativi e culturali, che spingono l'individuo a prendere coscienza del suo diritto-dovere di partecipare alla cosa pubblica e, soprattutto, a rifiutare il pericolo maggiore per le attuali democrazie: il relativismo etico, poiché, come insegna san Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Centesimus Annus, «se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia».
L'azione di individui particolarmente "illuminati" che credono di poter trasformare dall'esterno le strutture consolidate del dominio, non può che essere illusoria. La macchina del potere, una volta avviata, funziona in modo relativamente autonomo ed è di difficile controllo: chi si trova nella posizione di potere ne resta fatalmente vittima. Il fallimento delle rivoluzioni si spiega proprio col fatto che si è creduto sufficiente mettere al posto dei vecchi padroni nuovi governanti, senza scalfire i meccanismi di concentrazione occulta del potere e, soprattutto, senza avere per base una retta concezione della persona umana. È quanto puntualmente avviene nella società immaginata e descritta minuziosamente, con toni a volte fastidiosamente apologetici, da Ursula K. Le Guin in questo romanzo.
La vicenda si svolge su due pianeti, Anarres e Urras, l'uno il satellite dell'altro; ma mentre Urras ha un clima, una flora e una fauna normale, Anarres è inospitale, è arido, battuto da tempeste di sabbia e afflitto da periodiche carestie. Qui, un milione di urrasiani dissidenti, costretti ad emigrare per motivi politici, ha dato vita ad una società anarchica, ispirata al pensiero della filosofa Odo. Ecco come il protagonista del romanzo, lo scienziato Shevek, che vuole aprire un dialogo con le altre civiltà, la descrive in un comizio tenuto durante uno sciopero generale su Urras: «Io sono qui perché voi vedete in me la promessa, la promessa da noi fatta duecento anni fa in questa stessa città... la promessa mantenuta. Noi l'abbiamo mantenuta, su Anarres. Noi non abbiamo altro che la nostra libertà. Noi non abbiamo altro da darvi che la nostra libertà. Noi non abbiamo altra legge che il singolo principio dell'aiuto reciproco tra individui. Non abbiamo altro governo che il singolo principio della libera associazione.
Non abbiamo stati, non abbiamo nazioni, presidenti, capi del governo, capi militari, generali, principali, banchieri, padroni di casa, non abbiamo salari, ospizi, polizia, soldati, guerre. E le cose che abbiamo non sono molte. Siamo compartecipanti, e non proprietari. Non siamo prosperi. Nessuno di noi è ricco. Nessuno di noi ha il potere.
Se è Anarres ciò che volete, se Anarres è il futuro che cercate, allora vi dirò che dovete accostarvi ad esso con mani vuote (...). Non potete prendere ciò che non avete dato, e dovete dare voi stessi. Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. E nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo» (p. 259).
Per motivi propagandistici, Shevek non rivela il processo degenerativo che ha colpito la società anarresiana, i cui germi erano già presenti fin dall'inizio. Infatti, l'insediamento su Anarres incomincia con l'innalzamento di un muro all'interno dell'astroporto della capitale Abbenay, a simboleggiare la totale separazione e chiusura della società anarchica da ogni altro tipo di società, sia capitalista che comunista.
Ad essere vittima della burocratizzazione, del conformismo, dell'ipocrisia e, in definitiva, della mancanza di autentica libertà in cui sta scivolando Anarres, è lo stesso Shevek. Egli non solo si vede osteggiato dallo scienziato Sabul, capo dell'Istituto Centrale delle Scienze, ma anche espropriato da costui del suo lavoro di ricerca nel campo della Teoria Generale della Temporalità: «Sabul si serve di te quando può, e quando non può ti impedisce di pubblicare, di insegnare, perfino di lavorare. Giusto? In altre parole, egli ha del potere su di te. E da dove ottiene quel potere? Non da un'autorità investita, non ne esistono. Non dalla superiorità intellettuale, non l'ha. Lo ottiene dalla codardia innata della normale mente umana. La pubblica opinione!
Questa è la struttura di potere di cui fa parte, ed egli sa come usarla. L'inconfessato, inconfessabile governo che comanda la società Odoniana soffocando le menti individuali!» (p. 144).
Per sfuggire all'isolamento e per cercare di mettere a punto la sua Teoria sull'Unificazione di Sequenza e Simultaneità, Shevek decide di lasciare Anarres, anche se questo gesto gli costa l'accusa di tradimento e il divieto di non più ritornare in patria pena la morte, e va con un'astronave su Urras, dove prende contatto con i maggiori scienziati del pianeta e ha modo di conoscere e di apprezzare l'agiatezza, l'opulenza, lo splendore della società capitalista, criticandone la vita gaudente e amorale delle c1assi dirigenti. Un giorno viene invitato ad una festa in casa della moglie di un grosso industriale del posto, Vea Deem Oiie, dalla discutibile moralità. Nel corso della serata, Shevek si ubriaca e trovandosi solo con Vea succintamente vestita, cede all'impulso sessuale e cerca di possederla, ma la donna rifiuta l'amplesso a causa della presenza degli invitati. Passata la sbornia, Shevek rimane sconvolto dall'ignobile gesto compiuto e dall'adulterio commesso nei confronti della moglie Takver, che lo ha reso padre di due splendide figlie: Sedik e Pilun. Un altro fatto che lo sconvolge è di sentirsi spiato dal governo urrasiano. Infine, il fondato sospetto che gli vogliono carpire la formula del viaggio ultraluce e della comunicazione istantanea (ansible) tra i mondi, spinge Shevek a prendere contatto con il capo delle classi più emarginate di Urras, Tuio Maedda, con cui organizza uno sciopero generale.
Ma la manifestazione viene dispersa a colpi di mitraglia dall'aviazione governativa e il nostro eroe si salva rifugiandosi nell'ambasciata terrestre, dove fa la conoscenza di un altro popolo della Galassia, gli Hainiti, scientificamente molto più avanti dei terrestri ed animati da spirito di fratellanza universale. In passato, infatti, grazie ad essi, la Terra, devastata da guerre e inquinamenti, è tornata a rifiorire. Ai rappresentati hainiti e terrestri riuniti per discutere il suo caso, Shevek rivela la formula della sua scoperta, ma manifesta anche la sua ferma intenzione di volerla donare a tutti i popoli della Galassia, in modo da evitare tentazioni egemoniche. Così avviene. In seguito alle pressioni diplomatiche degli hainiti e dei terrestri, a Shevek è concesso di rimettere piede su Anarres, senza pero garantirgli l'incolumità dalle minacce di un gruppo di fanatici anarresiani; ma il nostro eroe confida nella protezione dei suoi amici e sostenitori, che nel frattempo sono cresciuti di numero.
Come si vede, siamo in presenza di un finale aperto, ne l'Autrice ci dice come e se i nodi, venuti al pettine della società anarchica di Anarres, verranno sciolti. La soluzione più probabile sembra essere quella di tipo sociologico, come avviene sempre per le società materialiste e atee, di cui Anarres è un esemplare. Afferma, infatti, Bedap, uno degli amici di Shevek con cui ha avuto una relazione omosessuale: «La coscienza "'sociale domina completamente sulla coscienza individuale, invece di raggiungere l'equilibrio con essa. Noi non cooperiamo: noi obbediamo. Abbiamo paura di venire messi fuori dal gruppo, di sentirci dire che siamo pigri, che siamo disfunzionali, che egoizziamo. Abbiamo timore dell'opinione dei nostri vicini più di quanto non rispettiamo la nostra libertà di scelta (...). Comprenderai allora che cosa è Tirin, e perché è un rottame, un'anima perduta. È un criminale! Abbiamo creato il crimine, esattamente come lo crearono i proprietaristi. Noi costringiamo un uomo a uscire dalla sfera della nostra approvazione, e poi lo condanniamo per il fatto di essere uscito. Abbiamo fatto delle leggi, leggi di comportamento convenzionale, innalzato muri tutt'intorno a noi stessi, e non li possiamo vedere, poiché sono parte del nostro. modo di pensare» (p. 284).
Il problema, dunque, consisterebbe nella mancanza di libertà, Ma che tipo di libertà è quella praticata su Anarres e che al personaggio succitato sembra insoddisfacente? Si tratta, secondo noi, non di autentica libertà, ma di libertinaggio. Come chiamarla diversamente quando la famiglia è sostanzialmente inesistente, si pratica l'aborto (Takver, la compagna di Shevek, ha abortito due volte, p. 310) e tutti possono fornicare con tutti fin da bambini? «Una ragazza, che si era unita recentemente alla sua squadra di lavoro, giunse a lui come era giunto Shevet, nell'oscurità, mentre lasciava il bivacco, e il suo labbro non era ancora guarito (...). Uscirono nella pianura, quella notte, e laggiù lei gli diede la libertà della carne. Questo fu il suo dono, ed egli l'accetto, Come tutti i bambini di Anarres, egli aveva avuto liberamente esperienze sessuali con bambine e bambini, ma tutti loro erano piccoli; non era mai andato più in là del piacere in cui credeva consistesse tutta la cosa. Beshun, esperta in delizie, lo condusse nel cuore della sessualità, dove non esiste né rancore né inettitudine, dove i due corpi che lottano per unirsi cancellano il momento, nella loro lotta, superano la personalità e il tempo» (p. 45).
Dunque, l'Autrice si sbaglia nell'attribuire i mali di Anarres ad un cattivo esercizio del potere: i mali di Anarres, invece, derivano dall'aver profanato il sacrario delle coscienze, facendo tabula rasa non solo dei principi dell'etica cristiana, ma anche della legge naturale. L'errore in cui ella cade è di presumere che l'amore per gli altri possa essere separato dalla verità, mentre invece vanno strettamente collegati, come afferma Benedetto XVI in Caritas in Veritate: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale» (p. 124).
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