Miti del raccordo anulare (2ª parte)
di Marco Mocchi
Arrivai in albergo mentre si stava facendo alba per prima cosa andai in bagno a vomitare. Ero passato all’ospedale per avere notizie di mia moglie, i medici avevano cercato di tranquillizzarmi spiegandomi che Kathy non era in pericolo di vita, ma aveva riportato un forte trauma cranico e doveva restare in “coma controllato” per almeno 48 ore.
Mi sciacquai la bocca, lavai la faccia, tolsi i vestiti e mi sdraiai sul letto. Non riuscivo a frenare la mia mente dal pensare: nonostante la stanchezza e nonostante l'ora, un vortice caotico di pensieri mi impediva di riposare. Le immagini dell'incidente, il pensiero di Kathy, il volto della donna della station wagon e le forti sensazioni dell’ultima settimana mi confondevano annebbiandosi a vicenda.
Eravamo stati a Londra, Kathy doveva partecipare ad un convegno di paleoantropologia. Aveva il compito di relazionare gli studi della sua équipe sulle orme di ominidi sul lago di Turkana in Kenya.
Mi alzai dal letto e uscii sul balcone, solo in mutande com’ero, incurante dell'atmosfera non troppo calda della Roma autunnale.
La città si stava svegliando. le luci dei lampioni si sarebbero spente da lì a poco, le auto che passavano sotto ai miei occhi mi riportarono alla mente le immagini dell'incidente, in una sequenza di flash ossessivamente precisa: la donna della station wagon, la carambola del coupé, mia moglie sanguinante, la confusione, di nuovo la donna.
Scacciai queste immagini ripensando alla settimana che precedette l'incidente: mentre Kathv stava al convegno, visitai Londra in compagnia di suo fratello Rudy, che viveva in Inghilterra da cinque anni.
Stava sviluppando un software per una multinazionale, in collaborazione con altri programmatori di diversi paesi.
Il software a cui lavoravano era un'evoluzione delle chat 3D. e voleva rappresentare l'intero Internet come un mondo virtuale, un “metaverso” strutturato in città, palazzi, vie… in cui ogni utente fosse rappresentata da un’identità virtuale, un "avatar", che faceva da interfaccia per comunicare con gli altri utenti.
Rudy mi mostrò che nella fase di sviluppo, ogni programmatore poteva avere l'avatar che più lo ispirava – il suo era Yoda di Guerre Stellari – ma a condizione che l'avatar indossasse una maglia bianca con raffigurato il vero volto del programmatore, per dare un minimo di formalità agli incontri di brian-storming che li riunivano settimanalmente; era buffo il contrasto tra il volto smilzo e verde di Yoda ed il faccione tondo, di quel colore olivastro tipico dei meticci, di Rudy.
Sentii improvvisamente freddo e rientrai in camera tremando.
Mi era venuto in mente un avatar con le sembianze di Harrison Ford in "Blade Runner", con metà volto senza pelle che lasciava vedere un teschio metallico, come se fosse un replicante, il particolare che mi aveva colpito in quel momento era stato il ricordo della T-short bianca, sotto l’impermeabile, su cui era rappresentato il volto della donna della station wagon.
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