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Il mostro dentro di me


di Roberto Sturm


Il mostro era dentro di me, ne ero certo. Mi svegliai nel cuore della notte, immerso nel silenzio più assoluto: la luce gialla dei riflettori, filtrando dalla finestra, rischiarava appena la stanza, quella luce che illuminava a giorno le strade da quando era stato ordinato il coprifuoco notturno.

Mi alzai dal letto cautamente. come temendo che il rumore potesse far scappare il mostro, ma ormai ero imprigionato dalla mia carne, tra i miei nervi, circondato dalle mie cellule.

Andai in bagno e mi lavai il viso con l’acqua fredda per riprendere un immediato contatto con la realtà, e allo specchio osservai la mezza faccia che mi era rimasta dopo che l'altra metà, la destra, era stata scarnificala dai miei sensi di colpa, erosa dal perbenismo della gente, rosicchiata lentamente dalle mie trasgressioni. Un ghigno illuminò per un attimo l’orbita spenta, i denti senza labbra intorno, l'emisfero cranico bianco quando estrassi la pistola dal mobiletto portaoggetti.

Sentivo le braccia e le gambe pesanti e molli, vittime dell’assoluta passività a cui me ero sottoposto per imprigionare definitivamente il mostro, mesi assoluta inattività per farlo penetrare più profondamente in me e avere la possibilità di eliminarlo.

Appoggiai una vestaglia sulle spalle e mi avvicinai al computer, lo accesi insieme alla lampada da tavolo poi feci girare il programma di simulazione con la matrice del mio spazio interiore in tempo reale. Se guerra doveva essere l'avrei combattuta su un terreno familiare.

Indossai con calma il visore e il guanto sensoriali. infilai il neurochip cellulare dentro la spina appena sotto l’orecchio sinistro, la pistola dentro i pantaloni e entrai nella rete.

Puntai l’indice dentro lo schermo.

Il sole mi fece portare una mano sopra gli occhi: faceva caldo e io cominciavo già a sudare. Le dune, sempre in movimento. davano un aspetto diverso a quella parte di me stesso, cambiando ogni volta la fisionomia del deserto, ma io riconobbi subito il posto in cui mi trovavo.

Era il mostro che dovevo riuscire a disorientare, pensai soddisfatto.

Girai lo sguardo più volte, prima a destra e poi a sinistra, mentre il calore mi faceva tremolare la vista come l’asfalto in un torrido pomeriggio d’agosto. Mi asciugai la mezza fronte che grondava sudore chiedendomi dove si sarebbe potuto nascondere, che cosa avrei fatto al suo posto.

Ero io che avrei dovuto temerlo, invece sentivo che il mostro tentava di nascondersi, di evitare lo scontro. Almeno in campo aperto. Puntai l'indice verso l’alto, per avere una panoramica più ampia, ma riuscii a vedere solo l’oasi a circa una cinquantina di chilometri di distanza. Le dune continuavano a spostarsi, sferzate dal vento caldo del deserto, ma non scoprirono alcun potenziale nascondiglio. Ridiscesi. indeciso sui da farsi.

Each men kills the things he loves, ogni uomo uccide ciò che ama, non so perché mi vennero in mente le parole del motivetto cha Jeanne Moreaux canta nel film Querelle de Brest, di Fassbinder.

Forse indugiavo su quel motivo perché anch’io avevo ucciso ciò che amavo, come tutti. E come gli altri non ne avevo potuto fare a meno, a causa della punta di perverso sadismo che mi invadeva ogni volta che lo facevo.

Un'emozione inspiegabile e irripetibile.

Ad un tratto fui pervaso dall'ansia, dal desiderio di trovarlo subito e saldare il conto. Volevo eliminare la mia dicotomia interiore, la convivenza dei miei due io contrapposti che così tanto mi disturbava fino a farmi stare male. Uno aveva preso il sopravvento, ma l'altro tardava a sparire completamente.

Il vento si alzò improvvisamente, come alimentato dalla mia rabbia, e la tempesta di sabbia arrivò subito, puntuale e liberatoria. Sapevo che adesso il mostro avrebbe dovuto cercare riparo nell'oasi, l'unico posto in cui sarebbe stato al sicuro.

Mi avvia al di sopra della tempesta planando poi dolcemente verso la macchia di verde, estrassi la pistola dai pantaloni sprizzando euforia per l'approssimarsi del momento.

Il mostro era lì, di spalle, che si dissetava inginocchiato verso lo specchio d'acqua cercando forse di liberarsi la bocca dalla sabbia della tempesta.

Non si accorse del mio arrivo.

Lo chiamai col mio nome, risoluto, puntandogli la canna in mezzo alla fronte.

Urlò di terrore quando mi vide, e il suo corpo fremette sotto gli spasmi di quella paura. Sparai un colpo, due, tre, poi il quarto. con calibrata precisione e fermezza, e il mostro si accasciò a terra. Mi avvicinai: per accertarmi che fosse morto, e vidi la sua mezza faccia, la destra, contorcersi in una risata di pietà nei miei confronti.

Gli sparai un altro colpo, turbato da quei lineamenti, ma fece in tempo a fischiettare qualcosa insieme al suo ultimo sorriso.

Era il motivo del film di Fassbinder

Each man kills the things he loves.

Scappai inquietato da quella che non potevo considerare una semplice coincidenza, e feci appena in tempo a notare la completa immobilità delle dune e l’insolita assoluta assenza di vento che non si sarebbe più alzato a cambiare la mia geografia interiore.

Uscii dalla rete, dal virtuale, e mi ritrovai nella mia stanza. Staccai la presa, sfilai il visore e il guanto e appoggiai la pistola sulla scrivania. Il ronzio dei computer sembrava frantumare in mille pezzi il silenzio della mia mente mentre la notte stava sbiadendo sotto l’impulso della nuova alba.

Indugiai un attimo nei pressi della finestra prima di andare allo specchio del bagno dove credevo mi sarei visto con il viso intero, ora che avevo vinto il mostro.

Vidi la mia mezza faccia ghignare per l’orrore, solo la parte destra.






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