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Le spade di Ausonia/I guerrieri di Ausonia


di Claudio Asciuti


A. Cersosimo, A. Voglino, G. Zuddas

Le spade di Ausonia

L. De Pascalis, A. Morganti, B. Pizzorno

I guerrieri di Ausonia

Ed. Akropolis, 1982


Queste due Antologie curate da Gianfranco De Turris, inizialmente progettate come 'volume unico' ed in seguito sdoppiate in due tomi, rappresentano, assieme ad alcuni lavori usciti per Fanucci, il tentativo di focalizzare le istanze del fantasy italiano in un campo editoriale più allargato di quanto non lo sia stato il lavoro delle fanzine e della Solfanelli; si tratta, in pratica, di un salto di qualità che vede allargarsi il lavoro della scrittura in un orizzonte diverso, più ampio e di maggior respiro.

Il discorso è similare per ciò che gli autori presentati offrono: una serie di romanzi brevi che spaziando nel campo dell'heroic fantasy in senso stretto si muovono attraverso le connotazioni ed 'topoi' caratteristici, molto lontani della serie di opere a cui siamo stati, purtroppo, abituati e dal vezzo della pubblicazione ad ogni costo e dalle chiusure del mercato editoriale.

È interessante, a questo punto, fare alcune considerazioni generali prima di procedere ad un esame più approfondito dei lavori, partendo proprio da questo punto: come, cioè, il livello qualitativamente buono raggiunto da queste due antologie sia il risultato di una vera e propria 'scuola' facente capo all'arcinota coppia De Turris-Fusco, al di là del fatto che personaggi come Cersosimo e De Pascalis fossero già attivi, per proprio conto, da tempo.

Questo sta a significare, secondo noi, come - oltre la possibilità di pubblicare il prodotto del proprio lavoro - esista anche un fattore di produzione, di studio, di lavorio interpersonale e, in qualche modo, la possibilità di verifica e di scambio del lavoro; noi, che amiamo più la fantascienza - o meglio, un certo tipo di fantascienza che in Italia non va certo per la maggiore - del fantasy, ci troviamo di fronte al quadro di una fantascienza che deve paradossalmente essere il più stupida possibile per vendere, e rispondere così alle esigenze di mercato, e così condizione necessaria per la sua pubblicazione; mentre invece abbiamo la possibilità di scrivere del fantasy intelligente in quanto l'esigenza di mercato è diretta anche in queste caso dall'alto, ma al di fuori dalla condizione propria delle pubblicazione.

Un’inversione proporzionale guida in questa maniera i canoni diversi ed antitetici della diatriba Sf - fantasy, e ci rimane solo da aspettare i risultati futuri per verificare se ciò che vogliamo dire sia vero, anche se abbiamo proprio il sospetto che, stando al prodotto definito (la carta stampata, quindi) ci sia la tendenza a veicolare attraverso il fantasy una letteratura di idee (che poi suddette idee siano più o meno discutibili, è un discorso che affronteremo in seguito) mentre per la fantascienza ciò si riduce ad un semplice discorso di intrattenimento.

Detto questo, aggiungiamo una nota sulla parte che ci è piaciuta di meno in queste due antologie: la parte 'critica', cioè le introduzioni di De Turris e le 'appendici' degli autori.

Che De Turris sia un grosso studioso di mito (e ciò è ampiamente dimostrato dal lavoro fatto per le Mediterranee) - è risaputo, come è risaputa la sua appartenenza ad una destra ben definita, quella, per intenderci, che Jesi denota come ' fascismo esoterico'; suddetta appartenenza ci lascia totalmente indifferenti, perché, nello specifico dell’immaginario, la dialettica fascismo/antifascismo è stata ampliamente superata dai tempi e, anche se questo non mancherà di suscitar polemiche tra i nostri lettori (ed è proprio ciò che vogliamo) preferiamo un fascista combattivo ad uno statico democristiano, una persona di destra creativa rispetto ad uno zombie borghese, una cultura di destra a nessuna cultura.

Il fatto è che De Turris utilizza questo suo potere culturale per operare nelle sue introduzioni un capovolgimento del reale, come quando, ad esempio, parallela l’attività di Eliade, di Solmi e di Jesi ritrovando un termine ultimo di confronto nella teoretica del mito affrontata dai tre autori, dimenticando l'aspetto più sostanziale del problema, la riqualificazione, cioè, del mito che in Eliade è fattivamente, sostanza eterna mentre in Jesi assume il termine di prodotto ultimo di quella che definisce 'macchina mitologica'.

Lo stesso discorso vale per altre due appendici; sia Voglino che Morganti, per i quali vale il discorso fatto fino ad ora, utilizzano la stessa prospettiva: quando Voglino parla di 'antropocentrismo scientista e materialista' come fattore discriminante all'interno della cultura moderna, non fa altro che dicotomizzare un universo che è di per sé complementare, dal momento che suddetto fattore distintivo è sempre stato caratteristico e delle società industriale propriamente detta e maggiormente di quella società paleoindustriale che ha definito, per prima, l'asservimento del pensiero e dell'immaginazione alle mutate condizioni economiche; e allo stesso modo Morganti adducendo a pretesto il tentativo di 'spiegare' la sostanza fantastica fatto dagli intellettuali moderni, finisce con il riconvertire un bagaglio di disparate metodologie e approcci (alcune, come la psicoanalisi, peraltro rifiutate da più parti in quanto non scientifiche) in una sorta di 'pastiche' iperinterpretativo tale da, naturalmente, appoggiare la sua tesi di fondo.

Ma questo, come abbiamo detto, è uno spazio aperto che vorremmo lasciare al dibattito.

Ciò che ci interessa, a questo punto, è passare ad una breve disamina dei lavori presentati. Ciò che è di primo impatto, naturalmente, è come lo spazio residuo della fantascienza venga riflesso nelle strutture fantasy, e spiegato come progressione/involuzione del pensiero (Pizzorno) o ancora come territorio di frontiera del genere (Cersosimo); allo stesso modo abbiamo notato come il territorio geografico e storico della narrazione sia eminentemente favolistico (Voglino e Cersosimo) o storico alternante (De Pascalis) o ancora eccentrico rispetto al genere, come in Zuddas. Tutto questo ci porta alla conclusione, come prima ipotesi, che gli autori presentati abbiano alle spalle un irrisolto nodo metodologico, non già si tratta di più voci su problemi similari, ma invece di possibilità/impossibilità di decollare verticalmente su di un terreno di per sé infido come la collocazione spazio-temporale del genere; il problema, ci sembra, insomma, sia da porsi nell'ordine della ripresa di 'topoi' strutturalmente costanti e nella conseguente difficoltà di elaborazione personale.

Per questo parlavamo di eccentricità rispetto a Zuddas; ciò che l'uomo, con il suo tono ironico e disincantato, tocca, diventa vero e reale (e quindi più inseribile nei nostri codici culturali) del genere stesso; lo stesso discorso va fatto per Pizzorno, che compie un processo simile ma in maniera più seria e meno scanzonata, mentre invece De Pascalis, con il suo storicizzare il non storicizzabile, opera una trasformazione differita del materiale mitico: non a caso i tre autori sono quelli che ci sono piaciuti di più; soprattutto l'ultimo, proprio per questa volontà di trasgressione del codice attraverso il rovesciamento delle sue strutture.

In questo senso un discorso a parte va fatto per Morganti, il più 'politico', se vogliamo, degli autori presenti: la sua trasgressione è così connotata politicamente (e sarà un altro discorso, poi, dirsi che, come già nell’Heinlein dei suoi romanzi militaristi, l’io desiderante del lettore vada dietro alla carica finale, al suicidio volontario e così via) da formularsi come un parallelo alternato e metaforizzato di un periodo storico ben preciso, quello, cioè, che parte dalla caduta del fascismo alla Repubblica di Salò.

Questo, al di là del fatto che noi si sia ben tranquilli che nessun Re tornerà nell'ora più buia, né adesso né mai, è molto interessante come operazione metaletteraria in quanto si ha un quadro ben preciso della veicolazione di idee di cui si parlava all'inizio; idee certamente da combattere, ma indubbiamente mostrate con arte (quanti avranno riconosciuto nella frase 'Mai l’aratro ha lavorato il campo, e mai la penna ha potuto scrivere, senza la spada' la trasformazione del detto mussoliniano 'È l'aratro che, traccia il solco, è la spada che lo difende'?).

C'è, d'altronde, una certa comunanza tra Voglino e Morganti: i punti deboli dei loro racconti (o se vogliamo, i più prevedibili) sono proprio nell'aspetto filosofico, o meglio, esoterico delle prove che i protagonisti affrontano; è il momento in cui a prendere il sopravvento alla scrittura, è il simbolismo che traspare dietro di essa. Ciò non avviene negli altri casi; c'è sempre un preciso iato tra l'aspetto detto, e il comportamento del protagonista; l'interazione che avviene non ha il sapore del pronunciamento, della tavola smeraldina o dell'aforisma.

In questo caso vogliamo sperare che il messaggio, in futuro, non abbia a prendere il comando della narrazione perché, tutto sommato, non amiamo troppo, da qualunque parte arrivino, le arringhe (questo, per inciso, è anche il difetto di certa fantascienza di sinistra. I testi teorici sono un conto, la narrativa un altro.).

Comunque sia, ci troviamo di fronte ad un lavoro interessante in generale, e su cui, ancore una volta, richiamiamo l’attenzione polemica dei nostri lettori, tenendo conto di questa serie di indicazioni: che Zuddas è il più divertente, Cersosimo il più disparato, De· Pascalis il più interessante, Pizzorno il più creativo, Voglino il più classico, Morganti il più agguerrito … e così via.

Il feedback a chi si vuole occupare del problema.






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