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Recensione di Enzo Verrengia a "1997: fuga da New York"


Il titolo originale è uno "An Escape from Manhattan", che forse spiaceva ai distributori nostrani, smaliziati dalla convinzione che la data futuribile funziona sempre in testa ai cartelloni.

Il guaio è che la prima data a comparire sullo schermo è ancora più vicina ai nostri giorni; "1988; la criminalità negli Stati Uniti aumenta del 400 per cento", annuncia una voce femminile, raffinata e asettica, quanta quelle degli altoparlanti negli aereoporti.

E la statistica non è confezionata a caso se nel marzo 1981, una settimana prima dell'attentato a Reagan, TIME dedicava la sua cover-story al "Violent Crime in America".

In quell’occasione fioccavano verità allucinanti - 400 morti alla settimana per atti criminali in tutti gli U.S.A, la constatazione dell'Ufficio Statistico Giudiziario che: "Entro quattro o cinque anni qualsiasi cittadino nel paese sarà colpito dal crimine", e la terribile conseguenza della sindrome Mat Dillon, ovvero la corsa all’armamento privato con istruttori che esordiscono sorridendo: "Salve! Sono qui per insegnarvi ad uccidere".

Dichiarava l'allora Presidente della corte suprema, il Giudice Warren Burger: "Non siamo ostaggi dentro i confini della nostra autostilizza, illuminata, civilizzata contrada?" Indubbiamente risultava complicato per la fantascienza sociologica mostrare lo stadio successivo all'ARANCIA MECCANICA, concorrere con sceneggiature già surclassate dalla cronaca.

Eppure Carpenter non poteva intimidirsi, dopo la prova offerta in "Distretto 13, le brigate della morte", dove era ancora alle prese con guerrieri della notte dei nostri giorni. In fondo bisognava solo proiettare in avanti una situazione già da tempo oltre i limiti di tolleranza, del cittadino medio americano.

Manhattan circondata da un muro impenetrabile alto 15 metri è la più plausibile delle soluzioni all'invisibile metropolitana.

Non ci saranno guerre atomiche a creare sopravvissuti, si può concordare col film, e quelle che si combatteranno sono partite a scacchi d’alta diplomazia che rendono indispensabile un uomo incolore e pavido che ha la ventura di essere il Presidente degli Stati Uniti.

L’intreccio si scatena quando il poveraccio cade in mano agli assatanati rinchiusi nella città-carcere, dove non verrà certo trattato con la cura riservata ad un prigioniero così importante. Incredibile che l'idea di usare un delinquente per tentare l'impresa disperata della liberazione venga al direttore, interpretato da quel Van Cleef così noto in Italia per alcuni buoni western-spaghetti. La sua faccia è l'unica eco del genere-madre del cinema d'azione.

Per il resto, Carpenter è maestro di atmosfere notturne, barocche anche fra grattacieli e letture digitali sui terminali video dei computers.

Il medioevo è stata dunque un'opzione consapevole del sistema.

I poliziotti con i caschi protettivi e le armi laser sono gli equivalenti degli sgherri di Nottingham.

Non c'è nemmeno tanta violenza, come non ce n’era ne: "I Guerrieri della Notte", perché non c'è più bisogno per il cinema d'inventarla: la televisione brucia le tappe.

Il senso globale dell'operazione è infatti la certezza creata anche nello spettatore di provincia che il futuro non potrà che essere quello.

La fantascienza, non meno che la sociologia, non può più spiegare, vedere responsabilità e colpe.

Può solo raccontare la fine.






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