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Il deserto dei Tartari


di Dino Buzzati-FANTASTICO

"I meridiani" n. 1, ed. Mondadori, '99-tradotto in francese come "Le Désert des Tartares", '45, '50, '61, '63, '65, '66, '83, '84, '89, tr. Michel Arnaud, '94, inglese, come "The Tartar Steppe", '52, '65, '80, '85, '87, '95, tr. Stuart C. Hood, tedesco, come "Die Festung", '54, tr. Percy Eckstein e Wendla Lipsius, e come "Die Tatarenwüste", '72, '82, tr. Percy Eckstein e Wendla Lipsius, e '90, '93, '95, '96, tr. Stefan Oswald, olandese, come "Eenzame vesting", '55, e come "De Tartaarse woestijn", '72, spagnolo, come "El desierto de los tártaros", '56, tr. Hellen Ferro, '79, tr. César Aria e '82, '85, '87, '91, '91, tr. Esther Benítez, ungherese, come "A tatárpuszta: Egy szerelem története; két regény", '79, tr. Telegdi Polgár István, catalano, come "El desert dels tàrtars", '85, tr. Rosa M. Pujol e M. Mercé Senabre, russo, come "Tatarska‹iŒa pustyn‹iŒa", '89, tr. R. Khlodovskij, e come "Tatarskaja pustynja", '99, tr. H.L. Borhesa, estone, come "Tatarlaste korb", '91, tr. Anne Kalling, gallego, come "O deserto dos tártaros", '91, tr. Xavier R. Baixeras, esperanto, come "La dezerto de la tataroj", '94, tr. Daniele Mistretta, portoghese, come "O deserto dos Tártaros", '96, tr. Aurora Fornoni Bernardini e Homero Freitas de Andrade e romeno, come "Desertul tatarilor", '96, 2002, tr. Niculina Bengus-Tudoriu


Altri contributi critici

-"Antologia critica", in "Oscar narrativa" n. 53, ed. Mondadori, '87, con interventi di Paolo Monelli, Pietro Pancrazi, Renato Bertacchini, Giacomo Debenedetti, Carlo Bo, Enrico Falqui, Raffaele Carrieri, pag. 14

-"Invito alla lettura di Buzzati", di Antonia Veronese Arslan, "Invito alla lettura" n. 23, ed. Mursia, '74, pag. 60

-"Il fantastico nobilitato", in "Le frontiere dell'ignoto", di Vittorio Curtoni, "Saggi" n. 2, ed. Nord, '77, pag. 192

-"La fortezza e la forma: "Il deserto dei tartari"", di Giorgio Barberi Squarotti, "Letteratura italiana contemporanea", anno III°, n. 3, pag. 1

-"Buzzati e i termini del discorso umano", di Marino Biondi, "Antologia Vieussaux", gennaio/giugno '76, pag. 39

-"Il tenente Drogo da "lei" a "voi"", di Gaetano Afeltra, "Corriere della sera" del 20/9/'90

-"La scienza della fantascienza", di Renato Giovannoli, "Strumenti" n. 18, ed. Bompiani, '91, pag. 204

-"I Tartari sul tavolo del cronista", di Guido Nascimbeni, "Corriere della sera" del 30/11/'92

-"La lunga notte dei Tartari nel Corriere di Buzzati", di Guido Nascimbeni, "Corriere della sera" del 2/12/'92

-"Cronaca nera e sogni", di Franco Manzoni, "Coriere della sera" del 13/12/'92

-"Rousseau, Buzzati, Borges nella valigia del Duemila", "La speranza", di Silvio Bertoldi, "La lettura", allegato al "Corriere della sera" del 9/5/'99

-"Itinerario fantastico nei romanzi di Dino Buzzati", di Lucia Vaccarella, "Parsifal" gennaio/febbraio '88

-vedi il mio "Il realismo magico di Buzzati"


"Il deserto dei Tartari" fu il primo vero e proprio romanzo di Buzzati e l'opera che gli diede la notorietà. Uscito nel '40, subito suscitò pareri favorevoli sia dalla critica che dal pubblico. Buzzati stesso ci dice come arrivò alla pubblicazione: "A quel tempo non ero legato per contratto a nessun editore. Al principio del '39, quando il romanzo era già avanti, Longanesi mi ha chiesto se per caso avevo un romanzo da dargli per una collezione, chiamata poi "Il sofà delle Muse" (Da "Un'intervista all'autore", di Alberico Sala, introduzione al romanzo, pag. 13).

Il titolo iniziale dell'opera doveva essere "La fortezza", che poi venne cambiato per via delle possibili analogie con la già fin troppo triste realtà storica.

Per quanto riguarda la genesi artistica dell'opera, l'ispirazione, prenderemo un altro passo estremamente significativo della stessa intervista dalla quale è tratto il brano precedente, in cui ritroviamo in pieno il personaggio Buzzati: "Probabilmente tutto è nato nella redazione del "Corriere della sera". Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch'io un giorno non mi sarei ritrovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi, già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato a svanire. Chiaro che la stessa condizione si presenta in tutti i generi di lavoro, in tutte le carriere.

Era insomma un tema abbastanza universale, una macchina nei cui ingranaggi ero preso anch'io, ma che macinava anche la stragrande maggioranza dei miei simili." (idem, pagg. 11-12).

In queste parole si prefigura quale sia l'atmosfera e l'ansia che pervadono il romanzo, quale sia la sensazione universale che l'artista vuole trasmettere.

Il fatto, poi, che Buzzati abbia scelto l'ambiente militare per rappresentare la sua storia, ce lo spiega ancora una volta lui stesso: "...la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica... Pensavo, insomma, che in un ambiente militare la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini." (idem, pag. 12).

Chiariti ora la genesi e l'intento artistico del romanzo, passiamo ad analizzarlo più da vicino.

È un romanzo con una trama fatta di niente e di tutto, che sembra raccontare una storia smilza e nel contempo suggerisce un'immensità profonda.

La storia. Giovanni Drogo ha finito gli studi all'Accademia militare, lascia la casa e la famiglia per il servizio militare, che trascorrerà alla Fortezza Bastiani, come ufficiale. Dovrebbe rimanervi pochi mesi, ma invece vi rimarrà fino alla morte, con la sola eccezione di una visita a casa. Se ne andrà proprio quando sta per scoppiare la battaglia col nemico, in funzione della quale ha speso tutta la propria vita, colpito da una malattia che lo stroncherà ancora in viaggio, in una locanda, da solo. Ed è tutto qua.

Ma la trama, la sua apparente insignificante esterna, è riempita da Buzzati di una profonda "allegoria riguardante tutti gli uomini" che la pervade tutta, la trasforma, trasmettendoci un messaggio che è, si, quello da lui stesso prefigurato nell'intervista, ma dal quale traspare ben altro, il vero motivo di tutta la sua opera. Innanzi tutto, fin dalle prime parole avvertiamo come, pur con un andamento cronicistico, la narrazione si ponga in un'atmosfera sfuggente, irreale, sia per l'assoluta mancanza di riferimenti storici, sia per l'uso di determinate parole che giungono a porre un accento marcato di dubbio e di attesa di qualcosa di minaccioso.

Mentre Drogo sta per lasciare la casa natale e dirigersi verso la Fortezza, in lui sorgono dei dubbi, o, meglio, delle angosce interiori, quasi delle precognizioni su quanto lo aspetta, come ben si nota in questa frase: "Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato." (pag. 23, cap. 1).

Quell'eppure si inserisce di straforo, rovesciando il senso dell'intera proposizione, e mettendo in evidenza il significato angoscioso della fine della giovinezza, tutta passata nell'attesa di incominciare a vivere, e dell'inizio di qualcosa in cui si avverte una terribile premonizione: "...ma su tutto ciò gravava un insistente pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di cose fatali, quasi egli stesse per incominciare un viaggio senza ritorno. (pag. 24 edizione "Oscar narrativa" n. 53, '87). Ed è poi al chiudersi del primo capitolo che troviamo il primo accenno alla Fortezza, nel quale sembrano materializzarsi i timori inconsci fino ad ora solo accennati: "In uno spiraglio delle vicine rupi, già ricoperte di buio, dietro una caotica scalinata di creste, a una lontananza incalcolabile, immerso ancora nel rosso sole del tramonto, come uscito da un incantesimo, Giovanni Drogo vide allora un nudo colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro: il profilo della Fortezza." (pag. 28). Ed è qui che Drogo ha gli ultimi istanti di dubbio in cui si chiede: "...che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo." Ma poco dopo questi ultimi dubbi svaniranno.

Il giorno successivo, proseguendo sulla via per la Fortezza, scorge un ufficiale che sta percorrendo una via parallela alla sua, dall'altra parte della valle, e lo chiama, per poi proseguire il dialogo una volta che le strade si sono ricongiunte: "Quello era il primo legame e ne sarebbero venuti poi innumerevoli altri di ogni genere, che l'avrebbero chiuso dentro (pag. 31). Il viaggio si conclude con il capitano Ortiz che fissa le mura della Fortezza, uno sguardo in cui si possono scorgere mille significati: "Si, lui che ci viveva da diciott'anni, le contemplava, quasi ammaliato, come se rivedesse un prodigio. Pareva che non si stancasse di rimirarle e un vago sorriso insieme di gioia e di tristezza illuminava lentamente il suo volto (pag. 40).

Nell'economia dell'intero romanzo questi primi due capitoli sono di capitale importanza e intorno al senso di essi ruoterà poi l'intera vicenda. È il viaggio da una sicurezza alla ricerca di un'altra sicurezza, attraverso un sussultare di paure, di angosce interiori ma anche materializzate.

Drogo lascia la casa, la madre a cui non riesce a parlare serenamente nel momento dell'addio, una madre che: "...si illudeva di poter conservare intatta una felicità per sempre scomparsa, di trattenere la fuga del tempo." (pag. 26). Drogo lascia anche la sua vita all'Accademia militare, tutto. Ma, appena si allontana, si ritrova in un mondo insicuro, pieno di monti e vallate, di "caotiche scalinate di creste", in cui nessuno gli sa indicare la via per la Fortezza, o, se lo fa, gli dà un'indicazione sbagliata; fino a quando, di mezzo a tutto questo caos, scorge le mura della Fortezza, che destano subito, in lui, un fascino enorme, anche se inspiegabile e ambiguo.

Quando poi strinse la mano al capitano Ortis comincia a capire, e ne trova la conferma nello sguardo rapito dello stesso sulle mura giallastre: l'ambiente militare, la disciplina della Fortezza, il cameratismo fra compagni sostituiranno nell'animo di Drogo, incapace di autonomia psicologica, la sicurezza perduta, gli eviteranno il duro compito di dovere scegliere in una realtà che gli è ostile, incomprensibile. Ma per il momento tutto ciò è solo nell'aria, a Drogo assorbirà quest'atmosfera solo più tardi, per gradi.

Questo processo di assorbimento operato dall'atmosfera della fortezza si svolge con fasi alterne, incomprensibili per lo stesso Drogo; inizialmente egli chiede di essere trasferito immediatamente, ma il maggiore Matti gli suggerisce di restare alla Fortezza almeno quattro mesi, per rendere il trasferimento più regolare e nel frattempo per fare un notevole passo in avanti per quanto riguarda la carriera militare. Benchè alquanto poco convinto della soluzione suggeritagli, Drogo finirà per accettarla: "Gli pareva così di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo...; tuttavia una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch'egli se ne accorgesse." (pag. 55). E così incomincia ad inserirsi in quel meccanismo perfetto ed assurdo della Fortezza, a capirne il funzionamento, lo spirito, e una sera, mentre era il suo turno di ufficiale di guardia, si addormentata: "E, intanto, proprio quella notte-oh, se l'avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire-proprio quella notte incominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo." (pag. 66). Evidente, qui, il richiamo al tipico preciso momento della poetica buzzantiana, che abbiamo già trovato sia nel "Bàrnabo delle montagne" che nel "Segreto del bosco vecchio", e in particolare il parallelismo con quest'ultimo, in cui si parla appunto di: "...famosa notte in cui finirai di essere bambino", e di: "netta barriera" che si chiude inesorabilmente. "Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa a tempo a tornare." (pag. 68).

Il tempo poi correrà via impazzito, mentre lui continuerà disperatamente a cercare qualcosa: "Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo." (pag. 68). Intanto, lentamente, fa conoscenza con gli altri ufficiali della Fortezza, sui quali grava la stessa oppressione, la stessa forza oscura, e nei quali si incominciano a distinguere chiaramente quelli che se ne andranno presto e quelli che invece resteranno.

Passano i quattro mesi, e quando sarebbe già tutto pronto per il suo trasferimento, Drogo ha come una visione, guardando dalla finestra verso il cortile della Fortezza: "Poi, per quanto fosse inverosimile, le mura... si alzarono lentamente verso lo zenit, e dal loro limite supremo... cominciarono a staccarsi nuvole bianche a forma di aironi naviganti negli spazi siderali." (pag. 88). Poi pensa allo squallore della città, che alla sua mente appare come in preda ad un decadimento irreversibile e tremendo, e lo confronta con la Fortezza: "Qui invece avanza la notte grande delle montagne, con le nubi in fuga sulla Fortezza, miracolosi presagi. E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva il proprio destino." (Idem).

E così non parte, o meglio, non può più partire poiché: "...c'era già in lui il torpore delle abitudini, la vanità militare, l'amore domestico per le quotidiane mura." (pag. 90).

Incomincia la pazza corsa del tempo: dal 10° all'11° capitolo passano due anni. Questo undicesimo capitolo è una interessantissima digressione dalla vicenda del romanzo, in un mondo onirico, che si rivelerà poi in un certo senso premonitore; Drogo sogna di essere tornato bambino e, affacciandosi alla finestra, di vedere un corteo di fantasmi che si appressa; lui vorrebbe chiamarli, ma non sono venuti per lui, bensì per un altro bambino, in cui Drogo riconosce Angustina, un altro ufficiale della Fortezza; ma poi capisce: essi sono usciti dall'abisso per prendere il bambino e non riportarlo mai più; Augustina sembra felice, e: "...si allontanò nella notte, con nobiltà quasi inumana." (pag. 103).

Dal 12° al 15° capitolo si svolge un episodio che è poi tutto in preparazione di un solo singolo evento. Sotto le mura della Ridotta Nuova compare un cavallo, mentre all'orizzonte si scorge una striscia scura che si muove; l'agitazione si impossessa di tutti, e un rimescolio guerriero si propaga per i meandri della Fortezza." (pag. 119). Ma il colonnello Filimore, a capo della Fortezza, esita, combattuto fra la smania di dare l'allarme generale tanto atteso ed il timore di un'ennesima truffa, di un'ennesima illusione: "...troppe volte si era ingannato, adesso basta." (pag. 134). Proprio quando stà per cedere e proclamare lo stato di guerra, giunge un messaggio, in cui si comunica che quegli uomini che si stavano avvicinando, sono, sì, soldati del "Regno del Nord", ma disarmati, e col solo compito di stabilire la linea di confine in alcuni tratti non ancora delineata: "Giù per la pianura del nord dilaga quella inoffensiva parvenza di armata e nella Fortezza tutto ristagna di nuovo nel ritmo dei soliti giorni." (pag. 141).

E si giunge alla spedizione, all'episodio importante: i soldati della Fortezza arrivano in ritardo alla cima contesa e rimangono bloccati su di una larga cengia ghiaiosa da una violenta ed improvvisa nevicata, e lì devono passare la notte; a capo della spedizione vi sono il capitano Monti e Angustina; i due si mettono a giocare a carte sotto la neve, ostentando indifferenza alle intemperie per non perdere completamente la faccia di fronte agli ufficiali nemici, fermi sulla sovrastante vetta, di cui rifiutano l'aiuto, che permetterebbe loro di scendere a valle. Ma anche quando quelli se ne vanno, Angustina rimane esposto, invece di ripararsi sotto le rocce con gli altri. A nulla valgono le esortazioni del Monti, così incomincia la lenta morte del giovane ufficiale, inframmezzata da flash back sul sogno di Drogo, in parallelo; è una morte piena di dignità, di "nobiltà quasi inumana".

Poi la vita alla Fortezza ritorna calma ed uguale a quella che è sempre stata. Passano altri due anni, giunge la primavera in un baleno e nell'animo di Drogo si affaccia una strana sensazione, quasi di noia, di ribellione: "E intanto fermentano teneri desideri, non è facile stabilire con esattezza cosa si vorrebbe, certo non quelle mura, quei soldati, quei suoni di tromba." (pag. 168); e decide: "Adesso ritorna alla pianura, rientra nel consorzio degli uomini." (Idem). Ma tutto questo suo slancio viene brutalmente frenato: in città il tempo sembra trascorrere molto più velocemente, corrodere tutto e tutti e vi si respira un'aria di decadenza infinita: "La casa gli pareva vuota in confronto ad un tempo, dei fratelli uno era andato all'estero, un altro era in viaggio chissà dove, il terzo in campagna"; "Aprì una finestra, vide le case grigie, i tetti dopo i tetti, il cielo caliginoso." (pagg. 170-1). Anche la madre è diventata estranea e i vecchi amici sono scomparsi. Va a trovare Maria, che sembra essere stata una sua vecchia fiamma, ma: "Ma qualche cosa si era messo fra loro." (pag. 175), e non riescono a dirsi nulla di sincero, solo vuoti discorsi sul tempo, facezie come di due che non si siano mai conosciuti.

Poi Drogo fa domanda per essere trasferito in città, ma viene a sapere di un nuovo regolamento, per cui ci sarà una notevole riduzione di organico alla Fortezza e se ne andranno quelli con una maggiore anzianità. Dovrà rimanere ancora lassù. La vita alla Fortezza è ora notevolmente mutata: tutti i suoi amici se ne sono andati. A ranghi ridotti, tuttavia, si cerca di mantenere i vecchi sistemi, le vecchie regole perfette, geometriche, fino all'eccesso di precisione. Ma ecco che qualcosa giunge a turbare quella nuova quiete: guardando con un cannocchiale all'orizzonte: "...dove ogni immagine svaniva entro alla cortina perenne di nebbia, gli parve di scorgere una piccola macchia nera che si muoveva" (pagg. 198-9).

Su questa presenza si incominciano ad accentrare tutti i pensieri di Drogo; il tempo passa via fulmineo, ma lui continua ad aspettare: "C'era poi la speranza segreta per cui Drogo sperperava la migliore parte della vita... Venuta la buona stagione gli stranieri avrebbero ripreso i lavori della strada" (pag. 216). Quel movimento all'orizzonte sembrava avvicinarsi progressivamente ed è appunto da ciò che Drogo arguisce la costruzione di una strada su cui poi giungeranno i mezzi pesanti dell'esercito nemico. Ma poi, improvvisamente come sono giunti, anche quegli uomini si allontanano, scomparendo. Ormai Drogo è alla Fortezza da quindici anni. Tornando da una breve licenza, rivive i momenti del suo primo viaggio verso casa, ma in un'altra posizione, cioè in quella del capitano Ortiz, quando vede sulla strada, al di là della valle, un giovane ufficiale che lo saluta: "Capì Drogo come un'intera generazione si fosse in quel frattempo esaurita, come lui fosse giunto ormai al di là del culmine della vita, dalla parte dei vecchi, dove in quel giorno remoto gli era parso si trovasse Otiz" (pagg. 223-4).

"Si volta pagina, passano mesi ed anni... Ha cinquantaquattro anni, il grado di maggiore ed il comando in seconda del magro presidio della Fortezza". (pag. 230), ma è anche ammalato, e seriamente, e passa tutta la giornata a letto. E poi la bomba: "Vengono! Vengono!... Dalla strada vengono, se Dio vuole, dalla strada del nord!... la guerra!" (pagg. 234-5). Drogo rimane abbagliato, prega Dio: "Fammi star meglio, te lo scongiuro, almeno per sei sette giorni" (pagg. 235-6).

Intanto arrivano i rinforzi dalla città e si devono sgombrare le stanze per ospitarli. E lo scacciano. "Un'ira tremenda si ingorgò nel petto di Drogo. Lui che aveva buttato via le cose migliori della vita per aspettare i nemici, che da più di trent'anni si era nutrito di quell'unica fede, lo scacciavano via proprio adesso che finalmente la guerra arrivava?" (pag. 241). Ma non c'è nulla da fare, per lui è inutile, e perde la sua camera.

Intraprende il viaggio verso la "vile pianura" con un senso di assoluto abbandono, in cui "Non gli importa più di nulla, assolutamente." (pag. 249); e decide di fermarsi a passare la notte in una lurida locanda, per ritardare il suo rientro nell'odiata città, ormai completamente estranea. E lì, da solo, in una stanza buia, "Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto." (pag. 252) ed è a questo punto che nell'ultimo capitolo, Buzzati rovescia la sua posizione psicologica, trasformando in trionfo morale la solitudine squallida in cui termina la storia di Drogo. E la morte diviene il nemico di fronte al quale i Tartari e tutto il resto scompaiono. Essa costituisce un nemico che infine Drogo può affrontare direttamente, tremendo e avvincente; ed egli si sforza di "scherzare con il pensiero tremendo" e di affrontarlo con coraggio, fino a che gli diviene "cosa semplice e conforme a natura.". Un alito di vento; la porta si schiude: è la morte. E "nel buio, perché nessuno lo veda, sorride."

L'apologo si conclude, ed è assolutamente completo. Il protagonista, trascorsa tutta la vita aggrappato disperatamente a una sicurezza ambigua, solo alla fine, una volta che la fuga del tempo si è arrestata, intuisce la futilità di tutto, la propria meschinità e perfino la vanità di una morte come quella di Angustina, che prima gli era sembrata desiderabile. Si riscatta, perciò, affrontando la morte, il grande mare buio e immobile, che sente essere ciò che effettivamente ha sempre aspettato, e in cui perlomeno gli pare di ritrovare un minimo di quel qualcosa di grande che ormai ha perduto.

Un elemento assai interessante che emerge qua e là dal romanzo è come il protagonista non si ponga neppure il problema di completare la propria personalità attraverso un legame amoroso. La donna è vista come momentaneo oggetto di piacere: "...una locanda dove... si udivano fresche risate di ragazze con cui si poteva fare l'amore" (pag. 91), oppure come vaga nostalgia di un focolare, surrogato di quello domestico; non una donna precisa, ma un elemento femminile abbastanza generico e impreciso, simbolo, al massimo, di un fascino che altri esercitano, come risulta evidente dall'episodio con la ex fidanzata.

Anche qui, poi, vi è un unico personaggio, Drogo, e gli altri sono solo pallide comparse che vivono in sua funzione.

Ne è stato tratto un film omonimo.






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