L'uomo è forte
di Corrado Alvaro-FANTASTICO
ed. Bompiani, '38, poi almeno 7 edizioni, l'ultima del '45, "Garzanti per tutti" n. 66, ed. Garzanti, '66, "I delfini" n. 23, nuova serie, ed. Bompiani, '74, "Tascabili" n. 353, "I grandi tascabili" n. 348, ed. Bompiani, '84, '94; tradotto in francese come "Terreur sur la ville", tr. Alain Rozoy, '40, in spagnolo, come "El hombre es fuerte", tr. Antonio de Gibert, '42 e in inglese, come "Man is Strong", tr. Frances Frenaye, '48
Spesso, nel vivere come nel leggere, nella letteratura, troviamo, nel passato, cose nelle quali, con un sorriso, scorgiamo segni, abbozzi di qualcosa che è oggi.
Ecco; in questo bellissimo romanzo di Alvaro, prevalentemente, ho scorto questi segni, che dicono bene, credo, quanto acuta, sottile, fosse la mente dell'autore.
"...ogni epoca ha la civiltà che corrisponde ai mezzi meccanici di cui si serve. E gli uomini d'oggi non sono altro che a immagine e somiglianza degli apparecchi radio.... Noi non ci apparteniamo più. Qualche cosa ci ha invaso. Qualcuno è padrone di noi. Non materialmente, ma moralmente. Ha invaso i nostri sogni, i nostri
pensieri, i nostri propositi e la nostra volontà... ognuno crede di essere un'altra persona.... Tutta la gente che lei rasenta per istrada crede di essere altro... più sono livellate più credono di essere qualcuno." (pagg. 232-3-5-6; qui, e per le successive: dalla prima edizione).
Nel quale sembra proprio di leggere di quel dibattito, così odierno, su cosa i moderni mezzi tecnici di comunicazione potranno cambiare, nella vita, e negli animi
degli uomini.
"...vivendo come noi viviamo, ognuno di noi entra nell'altro, invade l'altro, occupa l'altro di sé." (pag. 232).
È un romanzo, essenzialmente, fantastico nell'accezione nella quale lo possono essere, prevalentemente, le opere di Kafka; intriso ad ogni parola di un simbolismo denso, e al contempo molto criptato, e, appunto, nel quale il
mistero, il dubbio, l'incertezza del razionale sono continuamente messi alla prova.
Uno straniero giunge in un Paese, appunto, imprecisato ed indistinto, nel quale aleggia un'atmosfera decisamente inquietante: "Si trovava in un mondo in cui c'era qualcosa di proibito, e senza una ragione evidente; proibito come in
un seminario, dove tutto obbedisce a motivi che sfuggono a un estraneo e che hanno la loro origine in una dottrina e in un metodo.... Pericoloso come il peccato. Ma esisteva in questo mondo nuovo il peccato?" (pag. 20).
Ed è proprio questa, il suo essere un Mondo Nuovo, la sua caratteristica essenziale; quasi una sorta di Utopia, nella quale si esperimentano nuove modalità di
convivenza: "Il mondo intero deve essere pulito, senza ombre, senza dubbi, senza segreti, senza veleni di desiderii e di nostalgie. Ora esiste una pianta umana che non siamo riusciti ad estirpare del tutto. È una intera razza di uomini. Essa deve scomparire. Dopo, il mondo sarà felice, soltanto dopo. Deve essere felice.... Non è ancora nato l'uomo nuovo. Bisogna distruggere tutto quello che è privato, personale, intimo, e che è la causa di tutti i mali di cui soffre oggi l'umanità.... Tutto quello che l'umanità ha compiuto di grave e di delittuoso negli ultimi secoli dipende esclusivamente da questo senso
privato, dal sentimento della propria persona." (pagg. 115-6); nel quale si dice, in sintesi, ciò di cui, effettivamente, si dice nel romanzo.
La problematica società/individuo, vista, prevalentemente, nell'aspetto della privacy, che la modernità, indubbiamente, minaccia: "...in questo modo si
corre il pericolo di alimentare negli altri proprio quel senso individuale che si vuole estirpare; l'individuo, sentendosi aperto da tutte le parti, cercherà i suoi segreti in cose che in condizioni diverse non lo interesserebbero affatto.... L'uomo è abituato a vivere per sé. Lo abitueremo a vivere per la collettività." (pagg. 116-7).
Questo, delle piccole cose alle quali l'individuo si attacca per riuscire a sentirsi tale, è ripreso più volte, e detto molto bene, nella prosa che, per lunghi tratti, risulta davvero ottima, perquanto, come abbiamo visto, un pochino lontana da quella nostra di oggi.
E, questa contrapposizione individuo/società, è detta per mezzo del senso di colpa; un senso di colpa, come dire, generalizzato, indistinto, che l'individuo, appunto,
sente, nei confronti della società, come se anche il suo agire normale lo dovesse comportare: "Ma noi non facciamo niente di male... Potremmo fare del male... ci comportiamo come se ci fosse qualcosa di male." (pag. 43); "Quello che noi facciamo... è un delitto? Non lo sa nessuno. Ma noi ci regoliamo come dei delinquenti. Operiamo come si trattasse di un crimine." (pag. 75); "Ho il dubbio che vogliano espiare perfino le colpe che non hanno commesse. Espiare così, in generale, come se scontassero delitti che portano
nel sangue da secoli." (pag. 88); "...un peccato d'origine... di un'umanità intera." (pag. 97); "...una colpa che echeggiava in profondità misteriose, in una specie di vita predestinata dalla stessa formazione delle loro fibre." (pag. 215).
Senso di colpa che si accompagna ad un sentire estremamente paranoico, del Potere, come di qualcosa di terribilmente accostabile alla divinità, o che, forse meglio, avesse preso il posto, nella psiche, di quello lasciato vuoto dalla Morte di Dio: "Agivano come alla presenza di un individuo che vedesse tutto e cui era impossibile nascondere ogni più piccolo atto o pensiero. Questi non era un essere divino; forse ne era l'immagine e il ricordo... con un'onnipotenza e un'ubiquità da dio... che si era sostituito al cielo e all'inferno, e che
dominava di sé anche i sogni notturni." (pag. 82); "Gli accadeva come nel tempo in cui, giovinetto, quasi ragazzo, aveva orrore del peccato che portava in sé, in un'età di fede e di religione profonda, il peccato che è in ognuno di
noi contro noi stessi, seminato da un dèmone invisibile: allo stesso modo che allora, in quegli anni lontani, aveva parlato al Signore, umiliandosi in ogni fibra del suo essere, si rivolgeva ora a quest'uomo dal piccolo gesto e gli diceva mentalmente che non voleva mancare in nulla contro di lui." (pag. 85).
E, questo aspetto dell'educazione religiosa, viene ripreso, ed ha una sua importanza notevole: "...se fossi stata educata dai religiosi, ti accorgeresti che è
la stessa cosa. Che quando ti sei messa nell'animo l'idea del peccato non te la levi mai più. Ti sembra sempre che qualcuno ti veda e ti giudichi.""(pag. 181), in cui si sintetizza ciò che si vuol dire con quel senso di paranoia che abbiamo detto.
E la rivolta, il tentativo di restare individui, dei protagonisti, ancora, tipico di ogni Utopia, non a caso un Lui e una Lei, ad un certo punto ha come un cedimento, prende la direzione della facilità, del facile che potrebbe portarli a vivere senza più angoscia: "Sarebbe molto bello trovarsi d'accordo con tutta questa gente ed essere come loro; essere come tutti gli altri, in pace." (pagg. 180-1); "Tornare come gli altri. Tornare come tutti gli altri... potere andare insieme dappertuto senza paura." (pag. 183); "Ci voleva ben poco per essere tranquilli, essere d'accordo con tutti, essere come tutti, non nascondere nulla" (pag. 201); in cui, evidentemente, c'è il richiamo prepotente della collettività, invitante,
insidioso.
E, ancora, molto kafkianamente, questa colpa, ha la connotazione, anche, di non essere; sentita, vissuta, in ogni istante, ma, terribilmente, con la consapevolezza
certa di non averla; di non meritarla: "Ma in verità noi non abbiamo fatto nulla per non essere come tutti gli altri." (pag. 184).
Questa coppia di ribelli, dunque, che cerca di affermare il suo esserci, contro tutto il brutto che gli stà attorno: "Bisognava inventare un nuovo modo di amarsi, nel crollo di un mondo e nelle macerie d'ogni cosa passata.... bisognava essere buoni, caritatevoli, innocenti, mentre fuori tutto era preciso e feroce." (pag. 81).
Che introduce a quello che vi si dice ad un altro livello, forse il più profondo; l'amore, la coppia, come società a delinquere regolarizzata, sentita, normalmente, per la cosa normale che è: "Essere di uno solo, riservargli
qualcosa di profondo e di incomunicabile agli altri. Staccarsi dagli altri. Avere ripugnanza degli altri. Essere uno. Ecco la colpa. Bisognava essere tutti." (pag. 102).
In cui, appunto, quell'aggrapparsi a qualcosa di proprio, per rimanere individui, acquista il suo significato più pieno: "...le era rimasta una sola cosa
veramente sua, ed era il suo corpo, una cosa inalienabile, ed era questo che doveva risanare e guarire." (pag. 125), in cui, quasi, mi pare di avvertire qualcosa che si era detto, evidentemente in maniera molto differente, in "The Dispossessed: An Ambiguos Utopia", della Le Guin, in cui,
appunto, vi erano questi dispossessati, di loro stessi, impossibilitati a... gestirsi.
E, significativamente, è il letto ad essere fuori dalla possibilità di poter essere controllato, dal Potere: "...l'unico posto è il letto, Là non può
ascoltare nessuno." (pag. 146), nel quale, infatti, poi, avverrà qualcosa di catartico, che non è, nella trama scritta, l'amore fisico, anche se, molto bene, lo è in quella che si può cogliere: "Erano chiusi in un letto,
isolati dal resto del mondo. Nessuno li poteva raggiungere, nessuno li poteva toccare.... erano innocenti. Innocenti come chi sappia di essere guardato. Non avevano nessuna colpa, nessun peccato, poiché alla fine avevano ridotto tutta l'idea del peccato a questa vicinanza." (pagg. 162-3).
L'Uomo, dunque, non è, forte: "Il fragile uomo che si aggirava per quelle strade sembrava più forte e più resistente di tutto..." (pag. 16); lo è la donna:
"Sono molto più coraggiose le donne." (pag. 71), che capisce le cose dell'amore molto più dell'uomo: "...entrare nell'altro essere, occuparlo,
invaderlo di sé. Poiché era donna, queste cose le capiva, e meglio le sentiva." (pagg. 101-2), in cui non a caso si riprende quell'essere invasi, in questa altra, decisamente differente maniera; ad evidenziare la contrapposizione amore/sopraffazione; "...gli uomini non erano altro che
fatti per tramandare la vita, e tutto, grazia, bellezza, eleganza, erano le lusinghe di questo destino naturale." (pag. 176), in cui, ancora, si ha questo evidente rovesciamento, che significa, appunto, che non è l'uomo, ad
essere forte, ma la donna.
L'Uomo, invece, è vile; meschino e spaurito: "Sei vile come tutti gli altri. Sei vile perchè sei un uomo, per questo, Dale. Io non ne posso più, ecco. Tutti siamo vili. E io ho paura. Io sono una donna." (pag. 189).
Barbara, la protagonista femminile, ad un certo punto ha come un momento di scoramento, nel quale, rivivendo, come aveva fatto Dale, il suo sentire di fanciulla,
risente gli uomini come: "Pazzi e scatenati", riavvertendo
"...la enorme violenza del mondo", mondo nel quale "Gli uomini hanno costruito... la pompa maestosa del potere, del dominio, della forza", e nel quale "Ella si sentiva... senza difesa e senza aiuto... pensando come eludere tanta violenza." (pagg. 196-7).
La Donna, dunque, per quello che, purtroppo, troppo spesso deve dover essere, quasi un ricettacolo del Male del mondo, sulla quale si riversa, senza che ella possa
poterci fare gran che: "...e come se non fosse lei a dirle, ma tutta la sconcezza del mondo parlasse per la sua bocca." (pag. 172).
Detto questo, vi sono, anche, alcune considerazioni marginali; ci sono due passaggi, il primo apparire dell'Inquisitore, personaggio molto importante: "Come
sgorgando dal più profondo della memoria, il vetro d'uno di quei negozi abbandonati si aprì davanti a loro." (pag. 55), e l'arrivare di Dale in un quartiere povero, mentre è in fuga da, ancora, una oscura minaccia solamente
infrasentita: "...una dimensione più palese (dove) tutto era senza mistero..." (pag. 225), nei quali quasi pare di avvertire echi della migliore letteratura fantastica, da Buzzati a Borges.
E vi si dice anche di una cosa che, curiosamente, ricorda decisamente quanto si dice in "Minority Report", di Dick, recentemente trasposto cinematograficamente, e in "Privacy", di Furio Colombo (ed. Rai-Eri/Rizzoli, 2001); di quella fantagiurisprudenza che punisce ancor prima che il delitto sia stato commesso, l'intenzione, quasi: "Ha fatto o pensato qualche cosa di delittuoso, e che non si deve fare.... Tutti pensiamo cose delittuose." (pag. 35); "Avevano già il seme del delitto."
(pag. 114).
Ed uno nel quale, quasi, si può rilevare del fantascientifico: "...mi curano con gli ultimi ritrovati della scienza rivoluzionaria." (pag. 22); medicina
fantastica, in un'Utopia.
Vi si dice, poi, anche, di una cosa decisamente vera, tanto che la si può ritrovare qua e là, in letteratura, come quella della possibilità, dell'uomo, di
deragliare: "...l'uomo ha una sola vita e una sola possibilità, e che sbagliato l'indirizzo delle proprie azioni non vi sia più rimedio.... a un tratto, per una disattenzione, per aver misurato male le proprie possibilità, l'uomo decade in un mondo basso, tra i disperati, gli oziosi, i vagabondi, i fuorilegge." (pag. 193); "Ognuno di noi ha una strada segnata che deve percorrere. Se uno l'abbandona è perduto. Chi esce dall'orbita segnata cade..." (pag. 250), che mi ricorda una delle cose della poetica di Jeter (vedi il mio
"Kevin Wayne Jeter, a friend of Dick, o dell'abisso"), anche se, qui, vista,
evidentemente, sotto un'altra prospettiva: "Hanno ridotto bene il mondo. Nessuno può uscire, nessuno può rivolgere diversamente la sua vita e le sue azioni.... Un mondo divenuto tutto razionale, predestinato e predisposto."
(pagg. 251-2), in cui, ancora, si risentono echi di quella primordiale globalizzazione che abbiamo detto, in un'atmosfera altrimenti esistenzialista: "Ognuno pensa all'altro in un alone di solitudine. La vita non è altro che un rasentarsi di solitudini." (pag. 250); "Si è soli." (pag. 132).
E, di quell'atmosfera kafkiana che dicevamo, ci sono, anche, dei sentimenti decisamente paranoici, dei protagonisti, ancora nei riguardi del Potere
osservantigli: "...quello non poteva essere un incontro fortuito..." (pag. 113); "...convinta che il biglietto scivolato sotto la porta contenesse un avviso precisamente per lei..." (pag. 199); un dire della condizione dell'uomo nella quale, ancora, c'è un senso del Destino molto forte:
"...ognuno di noi deve fornire un effetto. E non ne può uscire. Perché non ne può uscire? Non lo sappiamo. Non ci curiamo neppure di saperlo." (pag. 244), appena precedente la scena forse più kafkiano in assoluto, nella quale,
abbastanza perturbantemente, vi è un repentino mutamento di atteggiamento, dal rassicurante al, appunto, perturbante: ""Non posso dirti nulla." - "Tu sai!"... - "So tutto"... - "Tu m'hai cercato!"... - "Sissignore!"" (pag. 245).
E, ad un certo punto, un dire, classico, della funzione dell'arte: "Gli uomini erano scomparsi, travolti dagli avvenimenti, dall'incalzare delle generazioni, e le cose rimanevano miracolosamente illese.... letteratura e arte avevano fatto lo stesso..." (pag. 89); che penso si possa accostare a quest'altro: "Lei crede possibile... che un uomo possa passare sulla terra senza aver detto nulla di quello che ha nel cuore, e senza avere la sua parte?... io sono un uomo. Io vivo. Altrimenti, perché avrei dovuto nascere? Ci sarà una ragione." (pag. 157).
Nel finale, poi, si dice dell'Intellettuale: "...li hanno allevati a credere che si possa accomodare ogni cosa ragionevolmente, ragionando. È insomma gente che si contenta soltanto di capire, e crede così di risolvere tutto.... A che serve, capire? Non serve proprio a niente... Il mondo sa troppo. Dove volete arrivare? A capire di non capire niente." (pagg. 272-7), in cui, ancora, c'è la contrapposizione amore/violenza, anche se in un'altra prospettiva.
Moltissimo, dunque; e tutto detto molto bene, in una prosa che, come abbiamo detto, per gran parte dell'opera mantiene una qualità molto elevata; l'essere stato
scritto negli anni '40 si sente, eccome; espressioni come "pei", per "per i", "movevano", per "muovevano",
"fidava", per "sperava", "menomamente", per "minimamente", "al canto del fuoco", per "accanto al
fuoco", la dicono lunga.
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