Fata Morgana
di Gianni Celati, "I narratori", ed. Feltrinelli, 2005, 188 pagg., 15,00 €
Ottimo non-romanzo direi filosofico, che si rifà a quella forma di narrazione della quale "Le città invisibili" di Italo Calvino è senz’altro il miglior esempio moderno; un dire, cioè, di un luogo inesistente come se esistesse, dicendone di ogni suo aspetto.
Certamente qui Borges non può che venire alla mente; è una forma che, percui, rimanda inevitabilmente al racconto "a tema", tramite il quale si vuole dire qualcosa, o di politico o di flosofico, in genere; qui, come ho detto, di filosofico.
Vi si racconta di un popolo, sperduto nel deserto, ai margini di una società che lo respinge, che ha, appunto, una concezione della vita tutta propria, scostantesi da quella di qualunque altro.
Cosa che, come vedremo, è solo parzialmente vera.
"…tutte le immagini di qualsiasi epoca, tutti i miraggi che spingono gli uomini a sognare e lottare per rincorrere qualcosa, sarebbero riflessi morganatici di quell’iridescenza iniziale." (pag. 34); da un brano nel quale si dice del loro mito di creazione: la vita come sogno, illusione.
Un popolo che vive solamente nel Presente, senza preoccupazione alcuna per un Futuro che pensa illusorio; come ogni illusione di poter cambiare la qualità della propria vita. Non facendo praticamente nulla, se non lo stretto necessario per sopravvivere, e, sempre, con un’"aria" assente: "…camminano… facendo perno sui talloni per ritrovare la retta via… (per) ritrovare un equilibrio del corpo,
dopo lo sbandamento d’ogni passo e d’ogni movimento della vita… lo sguardo tremolante…." (pag. 13).
Abbiamo detto che hanno un modo di pensare assolutamente "loro"; ma, come si può capire, anche se non lo si dice per nulla, nel romanzo, è decisamente molto simile a quello di tutti quei popoli asiatici di quelle religioni "deboli", come le ha dette Nietzsche. Per le quali appunto l’illusorietà del Reale è motivo di inazione, positività, dell’inazione: "…inseguendo le illusioni ci si sbaglia sempre, e non c’è modo di non sbagliarsi, e la vita non è che un perdersi in mezzo ad allucinazioni varie." (pag. 35). È dunque meglio non fare.
E, il sogno, è più reale della veglia: "…per i Gamuna il sonno è una dimensione della vita più importante di quella diurna… (vivono) la vita nel sonno come una dimensione molto più autentica, più reale e meno allucinata dela vita da svegli." (pag. 58).
Dietro a ciò, si legge, mi pare di poter dire, un dire sul nichilismo, il tipo di nichilismo negativo, di Nietzsche, che, appunto porta all’inattività: "…la… vita… non è che un lungo mistero inspiegabile per ognuno che deve attraversarla." (pag. 87).
Un "sentire" un pò schopenaueriano: "I Gamuna non immaginano il tempo come qualcosa che scorre, ma come un grande wadi dove l’acqua è stagnante e non succede mai niente di speciale, a parte l’ordinario sciacquio e il volgersi delle stagioni." (pag. 100).
Per il quale, appunto, ogni illusione terrena è vana: "…la… fissazione di possedere davvero qualcosa (che notoriamente è una delle più forti allucinazioni di fata morgana)…" (pag. 158); chi, fra di loro, ne è posseduto, "…manifesta indubbiamente una forma di grave demenza…" (pag. 160).
Ci si agita per "la gloria", per la propria immagine di sé: "…ognuno si dà da fare, dicono, perché vuole essere glorificato: e lavora, vende, compra, ruba, si agita, suda, imbroglia per ottenere una glorificazione familiare, o… tra gli amici al bar, o… sotto il portico dei commerci. (pag. 161).
O per ottenerre i favori delle donne.
Ma è tutta illusione, la gloria, poi passa, o, meglio, il desiderio di essa; ce ne si vuole, poi, disfare.
Ed è questo, penso, il "messaggio" esistenziale che il romanzo dice: quando la vita attiva è finita, tutta la "gloria" che ci si è conquistata, non interessa più, vuoi perché le donne non attirano più, vuoi perché non si ha più una prospettiva di vita.
E tutto appare "…un bagliore d’iridescenza, uno spettacolo a vuoto come tanti altri, tutto brulicante di sensazioni, ma effimero come un’ombra su un muro o come il riverbero dei raggi del sole su una duna di sabbia." (pag. 165).
Il tutto è "raccontato" per mezzo di brevissimi capitoletti, due pagine al massimo, raccolti 12-14 per capitolo.
Ed è, basilarmente, una lettura molto rilassante, anche per alcuni "trucchetti", come un ridire spesso cose o appena dette o dette qualche capitolo addietro, che, psicologicamente, lo è, e che avvince, una volta tanto, non per la trama mirabolante, ma per l’interesse che ogni animo ha di capire il mondo.
Altri contributi critici: recensione di Giorgio Montefoschi, "Io donna", supplemento del "Corriere della sera", del 9/4/2005
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